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  • La politica economica in un mondo che cambia

    La politica economica in un mondo che cambia

    Nel prossimo futuro la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo

    di Mario Draghi

    15 febbraio 2024

    Vi proponiamo il discorso integrale che Mario Draghi ha tenuto al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

    Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.
    Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.
    Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.
    Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia.
    Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’UE, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti.
    Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.
    Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Cina non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’OMC avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla.
    Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.
    La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera.

    Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato. Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia.

    Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’UE erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del PIL nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del PIL mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

    L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria.

    Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950.

    Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione.

    Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

    Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.

    Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento.

    E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’UE danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

    Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui.

    Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

    È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito.

    In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di GNL costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo.

    Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia.Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino.

    La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.

    Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

    Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul PIL con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

    Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione.

    Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del PIL. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

    Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

    Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto.

    Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.

    Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

    Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

    Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

    In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

    In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’UE è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

    In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

    Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

  • USI LEGATI AL CALENDARIO

    USI LEGATI AL CALENDARIO


    I gennaio.
    Si mangiava l’uva (nelle vecchie case, i grappoli d’uva, nel periodo della vendemmia, venivano appesi a lunghe pertiche sospese alle travi della cucina) e anche la lenticchia. Così, si diceva, si sarebbero contati molti soldi durante l’anno.
    I contadini mezzadri andavano a pranzo in casa del padrone; essi recavano in dono i gallucci de capodanno.
    Il mattino di capodanno, uscendo di casa, si stava attenti alla prima persona che si incontrava: un uomo, segno buono; una donna, segno brutto, il frate portava fortuna, sfortuna invece il prete; il gobbo era segno propizio per l’anno iniziato, e così via di seguito.
    Una usanza caratteristica era la seguente; il 1 gennaio le donne gettavano una ciabatta nelle scale; dal modo come cadeva ne traevano auspici per l’anno: se cadeva dritta l’anno sarebbe stato buono; se rovesciata. cattivo.
    Un’altra usanza era la seguente: si prendevano tre piatti e li si rovesciava; vi si nascondevano rispettivamente una fede, una chiave e un pettine, poi i piatti venivano mossi in modo che si confondessero e si perdesse la possibilità di sapere ove ciascun oggetto era nascosto. Si andava poi a scoprire i singoli piatti. Se si trovava l’anello, le previsioni per l’anno erano ottime: se la chiave, si trattava di previsioni di anno normale; se infine si trovava
    il pettine, l’anno sarebbe stato proprio cattivo. Di qui il detto popolare “st’anno c’è da pettinà!”
    Dal 1 gennaio al 25 si avevano i cosiddetti giorni contarelli; i primi dodici corrispondevano ciascuno ai rispettivi mesi dell’anno: dall’andamento climatico del giorno si desumeva l’andamento del corrispettivo mese; poi il conto veniva fatto alla rovescia sino al 24, con lo stesso criterio. Il 25 gennaio, festa di San Paolo Apostolo, per questo detto San Paolo dei segni dava l’indicazione generale sull’andamento dell’intera annata.
    Il più delle volte però i giorni contarelli erano solo i primi dodici dell’anno, corrispondenti a ciascun mese.
    6 gennaio.
    Epifania, detta anche Pasquella, o prima Pasqua dell’anno. Il proverbio dice: Pasqua bifania, tutte le feste porta via. Il vocabolo “befana” è corruzione di Epifania.
    Un tempo, per l’Epifania, nelle campagne era in uso cantare le “stanziole della Pasquella”, canti popolari, eseguiti dai cosiddetti cantarini, ossia persone che cantavano dei versi che narravano il viaggio dei Magi per trovare Gesù Bambino.

    Per l’Epifania ai bambini giungeva la befana. Non è facile la identificazione della Befana. Il più delle volte era immaginata come una vecchia, con mento appuntito e naso ad uncino che portava i doni ai bambini buoni; a quelli cattivi invece recava cenere e carbone. In genere viaggiava. come le antiche streghe, cavalcando una. scopa, recando sulle spalle un sacco pieno di doni, e scendeva nelle case attraverso la cappa del camino.
    Altre volte la Befana era invece confusa con i tre Re Magi. In molte case. infatti, la sera della vigilia, si preparava un tavolo imbandito con alcune cibarie e tre bicchieri di vino; accanto, sopra un banchetto, si poneva una ciottola piena di semola bagnata, il cibo per i cammelli dei Re Magi.
    Quella sera (il 5 gennaio) i bambini facevano conoscere ufficialmente alla befana i loro desideri. In un foglio di carta scrivevano quanto richiesto; poi il foglio veniva bruciato e mentre era in fiamme veniva fatto salire verso la cappa del camino perchè la befana lo potesse leggere.

    Intanto i genitori, con i loro bambini, accanto al focolare, lanciavano furtivamente verso la cappa dei cioccolatini; i bambini rimanevano fortemente stupiti del miracolo. Si creava insomma un clima di attesa, di festa e di poesia.
    I bambini dovevano andare a letto molto presto, e addormentarsi
    subito, perchè altrimenti la befana non veniva.
    Al mattino del 6, i bambini correvano ad ammirare i doni della befana. Naturalmente era la befana póretta e quella ricca. Quella poretta si accontentava di portare soprattutto cose utili, indumenti, quaderni, cibarie. Ma poteva anche capitare per i bambini cattivi che, sulla tavola apparecchiata, al posto dei doni, trovassero cennere e garbò. E .allora erano pianti.

  • La parola equilibrio

    La parola equilibrio


    di DANIELE MENCARELLI
    1 maggio 2022

    L’equilibrio di ieri non mi basta.
    Non può bastarmi. A me come a chiunque
    altro.
    Mi cerco nelle cose che vivo e incontro, in
    quello che faccio, quotidianamente provo a
    trovare il mio punto di galleggiamento.
    Forse, piuttosto che di equilibrio, sarebbe
    più giusto parlare del suo fratello detestato
    e reietto. Lo squilibrio.
    Forse di nessuno dei due.
    Allora perché tutti mi vogliono equilibrato?
    Perché devo a tutti i costi obbedire a quel
    canone sempre più rigido che impone agli
    individui quanto e come vivere? E soffrire?
    E se non mi adeguo al vostro metro, se la
    vita mi sembra ben più scandalosa di quel
    che andate raccontando, perché parlare di
    malattia?
    Di malattia mentale?
    Allora curatemi. Ma le vostre cure non
    guariscono. Lo sapete per primi voi.
    Possono nella migliore delle ipotesi
    sbloccare l’ingranaggio, rimetterlo in moto.
    Ma la vertigine resta. Il dolore resta.
    Ma non è, forse, giusto così?
    Non è che per caso ci stiamo raccontando
    la storia sbagliata? L’idea di un uomo senza
    umanità? Senza ferite?
    Cosa volete da me?
    Mi volete equilibrato, e normale, e
    perfettamente inserito in quello che avete
    pensato e creato per me.
    Non per il mio bene. In verità, voi non mi
    avete a cuore.
    Voi avete a cuore quello che io devo fare,
    quello che avete previsto per me e per tutti
    quelli come me. Obbedire al programma,
    essere parte di qualcosa che avete costruito
    per tutti, ma che è vostro, che non vuole il
    benessere di alcuno, a parte voi.
    Voi mi volete produttivo, in forma,
    qualificato e competitivo.
    Disposto a spendere l’intera esistenza dietro
    il vostro progetto di società grattacielo,
    dove la luce tocca solo ai vincitori.
    Voi mi volete dedito al consumo, pronto a
    ogni sacrificio per l’acquisto di quello che gli
    altri, malgrado tutti i sacrifici, non riescono
    a comprare.
    Invece no.
    Perché il mio squilibrio ha voce più alta e
    imperiosa della vostra.
    È equilibrio dentro la terra tremante del
    mio cuore.
    È libertà.
    E vi terrorizza

  • Quali sono i Paesi culturalmente più influenti?

    Quali sono i Paesi culturalmente più influenti?

    I ricercatori della rivista CEOWORLD hanno analizzato e confrontato 165 paesi in base a 9 parametri: architetturapatrimonio artisticomodacibomusicaletteraturastoriaattrazioni culturali e accessibilità culturale.

    • 1. 🇮🇹 Italia – punteggio: 95.99 (rapporto CeoWord 2021).
    • 2. 🇬🇷 Grecia – punteggio: 95.61.
    • 3. 🇪🇸 Spagna – punteggio: 95.23.
    • 4. 🇮🇳 India – punteggio: 95.23.
    • 5. 🇹🇭 Thailandia – punteggio: 93.67.
    • 6. 🇵🇹 Portogallo – punteggio: 93.67.
    • 7. 🇯🇵 Giappone – punteggio: 92.84.
    • 8. 🇬🇧 Gran Bretagna – punteggio: 92.79.
    • 9. 🇨🇳 Cina – punteggio: 92.79.
    • 10. 🇩🇪 Germania – punteggio: 92.73. 
  • L’estate più calda della tua vita, finora: guida per chi nega il cambiamento climatico

    L’estate più calda della tua vita, finora: guida per chi nega il cambiamento climatico

    Abbiamo viaggiato per l’Italia sconvolta dai fenomeni meteorologi estremi e colpita dai cambiamenti climatici. Un Grand Tour tra grandi città e vigneti, dalla laguna di Venezia all’Emilia Romagna dell’alluvione, con esperti, scienziati, contadini e ragazzi che immaginano il loro domani in mondo incerto. Una guida indispensabile a chi nega il cambiamento climatico per scoprire il futuro che ci aspetta, davvero.
    A cura di Simone Giancristofaro

    Di Simone Giancristofaro e Valerio Renzi
    Alluvioni, incendi, siccità, ondate di calore. I fenomeni meteorologici estremi sono diventati la norma. È l’effetto del cambiamento climatico il cui impatto ormai ha traghettato la nostra vita in una nuova, precaria, normalità. Da luglio a fine agosto abbiamo girato l’Italia, incontrando agricoltori, ricercatori, divulgatori scientifici, ragazzi e ragazze il cui territorio è stato sconvolto dall’alluvione. Per anni si è discusso se vivessimo davvero nell’Antropocene, se gli esseri umani fossero o meno diventati una forza geologica. Quando il termine era già diventato di moda per le scienze umane, le scienze naturali hanno seriamente messo all’ordine del giorno il problema, prendendosi i loro tempi. Dal 2009 l’Anthropocene Working Group, sotto commissione dell’International Commission on Stratigraphy dell’Unione internazionale delle Scienze Geologiche, cerca una risposta in sedimenti e carotaggi: nel 2024 potrebbe arrivare la sanzione ufficiale per la nuova era geologica. Ma intanto che attendiamo l’ufficialità, non ci sono però dubbi sul fatto che l’impatto delle attività umane sia la causa del riscaldamento globale. Su questo convengono il 99,9% degli scienziati. “Il caldo che sentiamo adesso è in parte anche l’effetto del carbone bruciato ai tempi di Charles Dickens”, ci spiega Luca Mercalli quando lo andiamo a trovare in Alta Val di Susa partendo da Milano in cerca di refrigerio. Ma anche qui fa caldo, troppo caldo per le medie stagionali registrare finora: quando guardiamo il termometro fanno 28° e siamo oltre 1600 metri d’altitudine.

    Ci muoviamo per la casa del meteorologo e divulgatore scientifico, una delle voci più lucide sul tema in Italia, e ci spiega che lui “la transizione energetica” a casa sua già l’ha fatta, tra pannelli solari e auto elettriche parcheggiate in carica in giardino. “Io penso che la proposta dell’Accordo di Parigi, di rimanere entro 1,5° entro la fine del secolo, sia persa perché non stiamo facendo niente, ma siamo già in ritardo per rimanere sotto i 2°. Ci dovrebbe essere una tale tensione nella società… altro che negazionismo!”. Sì, perché mentre noi giriamo per l’Italia per documentare gli effetti dell’innalzamento delle temperature, il dibattito pubblico è polarizzato tra chi scende in strada a manifestare e chi mette in dubbio che sia davvero un problema. “D’estate fa caldo, d’inverno fa freddo”, sintetizza il ministro Matteo Salvini. Ma nonostante la scienza non abbia dubbi, e nonostante quello che stiamo vivendo, anche il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, nel mezzo dell’estate, decide di dare il suo contributo in televisione, affermando di non sapere se il cambiamento climatico è di origine antropogenica oppure no: “Non so quanto sia dovuto all’uomo quanto sia dovuto al cambiamento climatico… terrestre… perché leggevo ieri sera, il cambiamento climatico è iniziato alla metà del secolo scorso. Chiaro che il secolo scorso ha una caratteristica, quella di essere chiamato il secolo breve, il secolo che ha scaricato di più come emissione… È quello? Non è quello? Io non lo so, però so che c’è”.

    Incredibile ma vero. D’altronde il governo di Giorgia Meloni non è proprio il fan numero uno della transizione ecologica, bollata per lo più, tra discorsi sulla “follia green” e il continuo ribadire che le richieste di diminuire drasticamente le emissioni è una questione ideologica. Chi non ha dubbi è invece il Segretario Generale delle Nazioni Antònio Guterres che tuona presentando i dati del luglio 2023 come il mese più caldo mai registrato:

    Le conseguenze sono evidenti e sono tragiche: bambini travolti dalle piogge monsoniche; famiglie in fuga dalle fiamme; lavoratori che crollano nel caldo torrido. Per vaste parti del Nord America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, è un’estate crudele. Per l’intero pianeta, è un disastro.  E per gli scienziati è inequivocabile: la colpa è degli esseri umani. Tutto questo è del tutto coerente con previsioni e avvertimenti ripetuti. L’unica sorpresa è la velocità del cambiamento. Il cambiamento climatico è qui. E’ terrificante. Ed è solo l’inizio. L’era del riscaldamento globale è finita; l’era dell’ebollizione globale è arrivata. L’aria è irrespirabile. Il caldo è insopportabile. E il livello dei profitti dei combustibili fossili e dell’inerzia climatica è inaccettabile. I leader devono fare i leder. Niente più esitazioni. Niente più scuse. Non dovete più aspettare che gli altri si muovano per primi. Semplicemente, per questo non c’è più tempo”
    Un messaggio che non lascia spazio a interpretazioni. Così mentre viaggiamo verso Venezia, lo facciamo con ancora nelle orecchie le parole di Mercalli: “L’Italia rischia più di altri paesi, Venezia così è già spacciata”. Arriviamo in laguna, e la navighiamo con i ricercatori dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr. Secondo la Banca Mondiale a causa dei cambiamenti climatici 216 milioni di persone dovranno abbandonare la propria terra, i migranti climatici: una catastrofe umanitaria senza precedenti. In Italia sicuramente dovremmo decidere se salvare Venezia o l’ecosistema lagunare. “Intanto il Mose ci fa guadagnare tempo”, nella speranza che si trovino altre soluzioni per salvare la città. Ma più le paratie sono alzate, più lo scambio di acqua dolce e salata si interrompe e il delicato ecosistema lagunare muore.

    Venezia che finisce sotto l’acqua è un’immagine classica da disaster movie americano. Ma se la città dei Dogi è in pericolo, lo è anche il patrimonio materiale e immateriale del nostro paese, quello che rende il paesaggio e la cultura italiana così varia e ricca. Per proteggere il made in Italy non basta fare più controlli sulle etichette, ma bisogna combattere i cambiamenti climatici. Il paesaggio delle Langhe è patrimonio dell’Unesco, mentre i suoi vini rappresentano il prodotto più significativo di un distretto produttivo ricco e conosciuto in tutto il mondo. Ma il riscaldamento globale rischia di cambiare tutto. Per sempre.

    Così Roberto Cerrato, direttore del sito Unesco Langhe Roero e Monferrato, spiega il programma di monitoraggio dei cambiamenti climatici: “L’altr’anno la produzione è stata del 25 per cento in meno per la siccità. Alcuni produttori hanno acquistato terreni per produrre anche in altezza, ma ci sono solo certe tipologie di vitigno che possono andare su. Questa zona non è sempre stata così ricca, fine 1800 metà 1900, qua non si riusciva a mettere il pranzo con la cena”. Poi ci mostra i sensori piazzati tra i filari d’uva: “Qui c’è un sensore che monitora l’umidità del terreno, questo invece ci aiuta a raccogliere una serie di parametri che ci danno indicazioni insieme all’accrescimento fogliare di quanto il cambiamento climatico abbia delle conseguenze”. Ve lo immaginate il vino delle Langhe prodotto in Germania o in Danimarca e il Marsala in Piemonte? Questo scenario non è poi così lontano.

    Nel nostro viaggio, tra città che affondano e agricoltori che provano a capire il loro futuro, abbiamo deciso di tornare anche nelle zone colpite dall’alluvione in Emilia Romagna dello scorso maggio: 21 fiumi esondati, 15 vittime, migliaia di sfollati e miliardi di danni. Più precisamente siamo tornati Forlì, dove ci siamo dati appuntamento con i ragazzi di una web radio che hanno girato per i comuni alluvionati a bordo di un’Apecar. Prima hanno spalato il fango poi, superata la fase dell’emergenza più acuta, hanno raccolto i sentimenti e le storie dei loro coetanei alluvionati.

    L’Apecar era già stata testata, viaggiando anche a biometano dalla provincia di Bologna fino  a Stoccolma per incontrare Greta Thunberg. “Diciamo che a diciott’anni ne ho già viste troppe per i miei gusti di fenomeni naturali disastrosi. Una volta che hai passato sulla tua pelle una cosa del genere ti rendi conto di quello che può fare la natura. Io sono sempre stato un’ottimista, quindi dico che il futuro sarà diverso il futuro sarà migliore”, racconta Matilde Montanari studentessa di Forlì, che di una cosa però è convinta: per un futuro migliore dobbiamo capire da dove vengono i guai del nostro presente. “Ci siamo resi conto di una cosa, che pochissimi ci hanno detto che l’alluvione è stato causato del cambiamento climatico e questa è una cosa che ci ha fatto un po’ pensare”, spiega. In molti qua sono ancora traumatizzati, preferiscono guardare avanti e basta invece di cercare soluzioni al futuro, ma quelli di Radioimmaginaria preferiscono guardare il bicchiere mezzo pieno raccogliendo voci, storie, proposte: “Parlarne con persone che hanno visto i loro ricordi sparire in mezzo al fango proprio ti si spezza il cuore in mille parti, si vede proprio negli occhi delle persone questo dolore immenso. Sì, l’alluvione ha distrutto tutto però ha creato un senso di comunità che prima non avevamo”. E magari è qualcosa da tenersi stretto per ricominciare.

    Il nostro viaggio termina a Milano dove era iniziato. Il capoluogo lombardo funestato quest’estate da una tempesta che ha abbattuto centinaia di alberi, dove la colonnina di mercurio è salito a segnare nuovi record (come in grandi altre città italiane) e dove abbiamo cercato risposte a come si possono mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. L’ultima voce che abbiamo ascoltato è stata quella di Fabio Deotto, che settimanalmente ci accompagna su Fanpage.it per parlare proprio di cambiamento climatico. A lui abbiamo chiesto cosa aspettarci dal futuro. Vi lasciamo con le sue parole: “L’estate è passata da essere una stagione di gioia e di relax, a essere una stagione che fa paura. Ci sarà un aumento sempre maggiore di carestie, siccità, eventi estremi. Qualunque settore della nostra esistenza verrà toccato in maniera negativa dal riscaldamento globale. Allo stesso tempo immagino un futuro in cui quelle misure sono state adottate in modo drastico, in cui abbiamo cambiato sistema economico e produttivo. In cui abbiamo cambiato anche la nostra cultura del consumo, dell’accumulo e della crescita. E se mi chiedi come sarà vivere in un mondo del genere, io mi immagino una vita migliore di quella che stiamo vivendo adesso. È questa, credo, la cosa più importante”. 

  • Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il negazionismo climatico è un fenomeno documentato da decine di libri, studi e inchieste giornalistiche. È un fenomeno reale, storico e organizzato. Qualsiasi siano le ragioni che spingono ad abbracciarlo – convinzioni personali, interesse economico, ideologia politica o una combinazione di questi elementi – il negazionismo si regge sulla produzione e sulla diffusione di disinformazione. Questa disinformazione riesce a raggiungere l’opinione pubblica anche attraverso la voce di quelli che possiamo definire “falsi esperti”, o “pseudoesperti”.

    Lo abbiamo visto anche nelle ultime settimane: sui media compaiono persone che parlano di cambiamento climatico con il cappello di esperti, anche quando non hanno un’effettiva competenza in materia. Di recente è intervenuto su La7 Franco Prodi, fisico dell’atmosfera che non si è occupato del cambiamento climatico durante la sua carriera. Questi “scettici” (se proprio non vogliamo chiamarli negazionisti) rilasciano interviste, organizzano convegni, fanno circolare petizioni. Nella quasi totalità dei casi non hanno mai pubblicato nulla di rilevante, riguardo al cambiamento climatico, su riviste scientifiche a revisione paritaria. Le loro tesi si scontrano con ciò che afferma la comunità scientifica.

    Il negazionismo sfrutta diverse tecniche e argomentazioni. Ma c’è una costante nel suo modus operandi: prendere di mira il consenso scientifico e la sua stessa legittimità. La presenza di pseudoesperti sui media, che si rivolgono direttamente al pubblico, suscita l’impressione ingannevole che il dibattito, nella scienza, sia ancora aperto.

    Il consenso scientifico è una caratteristica centrale della scienza moderna. A partire dal XIX secolo, la scienza è diventata sempre di più un’impresa collettiva, che coinvolge migliaia di scienziati a livello globale. In questo lavoro comunitario di costruzione della conoscenza, alcuni danno un contributo più importante di altri e il loro nome viene associato a una tappa significativa nella storia di una disciplina.

    Alcune ricerche hanno dimostrato che il consenso scientifico agisce come un gateway belief, cioè come una sorta di cancello cognitivo attraverso cui passa la formazione delle opinioni. Comunicare correttamente il consenso scientifico sul cambiamento climatico migliora la comprensione del tema. Per non farsi ingannare dalla disinformazione e per capire come la scienza funziona e avanza lungo la tortuosa strada della conoscenza, è perciò indispensabile acquisire familiarità con il concetto di consenso scientifico.

    Innanzitutto, non dobbiamo pensare a questo consenso come a una decisione formale che gli scienziati prendono in un preciso istante, magari con un voto a maggioranza. Il consenso emerge nell’arco di anni di ricerche, da studi pubblicati in modo indipendente da molte persone. La formazione di un consenso è perciò un processo spontaneo, che avviene grazie a un’opera corale di accumulo di evidenze e di conoscenze. Quando il consenso si è formato gli scienziati possono prendere atto della sua esistenza, attraverso dichiarazioni personali e le posizioni espresse da società e organizzazioni scientifiche. Possiamo misurare con una certa accuratezza il consenso scientifico? Sì, è possibile. È ciò che è stato fatto sul cambiamento climatico.

    In uno studio pubblicato nel 2004 sulla rivista Science, la storica della scienza Naomi Oreskes ha raccolto le sintesi di 928 articoli scientifici pubblicati tra il 1993 e il 2003. Nessuno di questi rifiutava la posizione secondo cui é in atto un riscaldamento globale causato dalle attività umane. Il 75% era d’accordo con questa posizione e il 25% non si esprimeva. Nel 2013 John Cook e altri autori hanno analizzato gli abstract di 11944 articoli pubblicati tra il 1991 e il 2011. Degli articoli che esplicitavano la posizione sul riscaldamento antropico, il 97,1% riconosceva la sua esistenza. Inoltre, gli autori hanno invitato gli scienziati a valutare i propri stessi articoli. Tra quelli che avevano risposto, il 97,2% dichiarava di aderire a questa posizione.

    Un articolo pubblicato nel 2016 ha presentato una sintesi degli studi svolti dal 1991 al 2015: dodici studi pubblicati e due sondaggi realizzati da due organizzazioni. La conclusione degli autori è stata che il consenso scientifico sul cambiamento climatico si può collocare attorno al 97%. Gli autori osservavano che, a seconda della metodologia, il consenso oscillava tra il 90% e il 100%. La discrepanza tra le percentuali derivava, principalmente, da differenze nella selezione del database di esperti; dall’esatta definizione della posizione su cui valutare il consenso; da differenze nel trattamento delle risposte che non esprimevano apertamente una posizione. Un aspetto importante era quello che riguarda la specifica competenza degli scienziati. «Maggiore è l’esperienza in campo climatico degli scienziati esaminati, maggiore è il consenso sul riscaldamento globale causato dall’uomo», scrivono gli autori.

    Il consenso scientifico sul cambiamento climatico aumenta con il livello di competenza (ogni sigla indica uno studio diverso). Da: John Cook et al., Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming.

    Due nuove ricerche sono state pubblicate nel 2021. Quella di Mark Lynas e colleghi ha applicato la metodologia dello studio del 2013 a un dabatase di articoli pubblicati tra il 2012 e il 2020, trovando una percentuale di consenso attorno al 99,6%. Se si considera che gli articoli valutati sono stati pubblicati in anni più recenti rispetto a quelli compresi nello studio del 2013, il fatto che la percentuale cresca, anche se da a un valore già molto alto, è coerente con un consenso che si rafforza nel tempo. All’interno di un database di 88125 pubblicazioni, Lynas e colleghi hanno trovato 28 articoli che hanno potuto classificare come “scettici”. Tra gli autori di cinque di questi articoli compare il nome di Nicola Scafetta. Docente di fisica dell’atmosfera all’Università di Napoli, Scafetta è uno dei bastian contrari climatici italiani che, per il suo ruolo accademico, dovrebbe avere, almeno sulla carta, le competenze per occuparsi di cambiamento climatico. Le sue ricerche hanno però un unico obiettivo: dimostrare che il riscaldamento globale non è causato dalle attività umane.

    Scafetta è convinto che l’aumento della temperatura sia da imputare alle variazioni dell’attività solare e a cicli astronomici. Riguardo alla prima, non c’è nessuna evidenza che l’attività solare sia in qualche modo legata all’attuale riscaldamento globale. L’aumento della temperatura mostra di non sovrapporsi affatto a possibili fattori naturali, come il Sole, ma soltanto all’andamento delle emissioni antropiche. Quanto ai cicli astronomici, sappiamo che le periodiche variazioni dei parametri dell’asse terrestre (i cicli di Milankovitch) producono effetti sul clima, attraverso l’innesco dell’inizio e del termine di periodi glaciali, ma su scale temporali di decine e centinaia di migliaia di anni. Tuttavia Scafetta parla anche di altri cicli, proclama di aver scoperto cicli di “5, 9, 11, 20, 60, 115, 1000 anni”, afferma che «oscillando, il Sole causa cicli equivalenti nel sistema climatico. Anche la Luna agisce su di esso con le proprie armoniche». Gli esperti del sito Climalteranti, nel confutare queste supposizioni, e gli innumerevoli errori su cui si fondano, parlano di «irresponsabile e ostinata ciclomania». Tale ciclomania gli consente di essere intervistato, ciclicamente, su quotidiani che hanno un interesse ideologico a proporre ai propri lettori questo genere di tesi. Scafetta è uno dei firmatari italiani della petizione, circolata nel 2019, che asseriva l’inesistenza della crisi climatica, sulla base di vecchie argomentazioni, tanto ripetitive quanto inconsistenti, come la “CO2 fa bene alle piante”.

    Potremmo chiederci: se una ricerca è così scadente e se una tesi è così priva di fondamento, come è possibile che possano finire, anche se in rari casi, su riviste specialistiche? La pubblicazione non conferisce a queste ipotesi una qualche dignità scientifica? La revisione paritaria e la pubblicazione degli studi sono stadi necessari di quel processo di scrutinio attraverso cui la scienza vaglia ipotesi e affermazioni. È ciò che distingue un articolo scientifico da un’intervista rilasciata a un quotidiano. Ma non è un sistema perfetto, né immune da errori. Inoltre, al di là del rigore dei controlli eseguiti dai revisori (non sempre di qualità eccellente) e della qualità delle diverse riviste (che non è sempre pari a quella di riviste come Nature e Science), il singolo articolo non stabilisce, da solo, la posizione della scienza su un tema così vasto come il cambiamento climatico. Il singolo articolo è un tassello di un quadro che si compone di una quantità di studi realizzati da più scienziati: è, appunto, ciò che chiamiamo consenso.

    Nel 2015 un gruppo di ricercatori, tra cui la climatologa Katharine Hayhoe e lo psicologo, esperto di disinformazione, Stephan Lewandowsky, ha passato in rassegna gli errori e le falle presenti in 38 articoli che contestano il riscaldamento globale antropico (compaiono anche articoli di Scafetta). Una caratteristica frequente è l’omissione di informazioni contestuali o di dati che potrebbero smentire le conclusioni. Altre falle, in questi articoli “scettici”, sono l’uso di metodi statistici inappropriati, l’assunzione di premesse scorrette e fallacie logiche come le false dicotomie.

    Il secondo studio sul consenso scientifico apparso nel 2021, di Krista Myers e altri autori, ha replicato una metodologia utilizzata in un lavoro del 2009. Gli autori hanno realizzato un sondaggio tra scienziati specializzati in scienze della Terra. Tra tutti quelli (2548) che hanno risposto alla domanda sulla causa del riscaldamento globale, il 91,1% ha indicato le attività umane. Restringendo il campo agli esperti di scienze climatiche e atmosferiche (153), per i quali è possibile verificare un elevato livello di competenza sul cambiamento climatico (almeno il 50% dei loro studi ha come oggetto questo argomento), il consenso sale al 98,7%. La percentuale tocca il 100% se si considerano gli autori che hanno pubblicato almeno 20 studi sul cambiamento climatico tra il 2015 e il 2019. Questi risultati dimostrano che «la competenza predice il consenso». Come già avevano dimostrato gli studi precedenti, i dati evidenziano che maggiore è la competenza, maggiore è l’accordo sull’esistenza e le cause antropiche del cambiamento climatico.

    Un argomento di discussione tra gli esperti è stato il trattamento da applicare agli articoli scientifici che non dichiarano, apertamente, una posizione sul cambiamento climatico. Nello studio di Cook e colleghi del 2013 questi articoli comprendevano il 66,4% del database. Si deve considerare il fatto che uno stesso scienziato può aver pubblicato articoli in cui talvolta ha manifestato, attraverso qualche affermazione, la propria posizione e altri in cui non lo ha fatto. In altri casi la posizione può essere implicita. Questo non costituisce un’anomalia, lo si riscontra anche in altri settori della scienza. I sismologi e i vulcanologi non esplicitano in ogni loro studio cosa pensano della tettonica a placche, perché questa teoria è ormai da decenni un indiscusso pilastro della geologia. I biologi evoluzionisti non devono ribadire, ad ogni occasione, di essere convinti della correttezza della teoria dell’evoluzione e della selezione naturale, perché l’evoluzione è un caposaldo della biologia contemporanea («nulla in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione», affermava il genetista Theodosius Dobzhansky ).

    Come abbiamo visto, la formazione di un consenso è un processo che lascia tracce nella letteratura scientifica. Da essa possiamo anche trarre indicazioni su quale sia stata l’evoluzione del dibattito su una questione. In un articolo intitolato La struttura temporale della formazione del consenso scientifico, i sociologi Uri Shwed e Peter Bearman si sono chiesti quali traiettorie assumano i dibattiti scientifici e quando una comunità scientifica raggiunge un accordo su un fatto. Quando e come diventiamo certi che il fumo è un fattore di rischio per lo sviluppo del cancro o che le attività umane stanno causando un riscaldamento globale? Per rispondere a queste domande, Schwed e Bearman non hanno svolto sondaggi tra gli scienziati, né hanno valutato il contenuto degli articoli scientifici, ma hanno studiato lo schema delle loro citazioni.

    La base concettuale di partenza è l’immagine della scatola nera, elaborata dal sociologo della scienza Bruno Latour: quando un fatto scientifico si consolida i suoi elementi costitutivi interni vengono nascosti; quando un fatto è ancora in fase di costruzione i suoi elementi interni sono visibili. Come un computer che, una volta assemblato e funzionante, non deve più essere smontato (a meno di un malfunzionamento) e l’insieme dei suoi componenti interni rimane nascosto alla vista, così un’affermazione scientifica, come il fumo causa il cancro, si costruisce nel tempo all’interno di un network fatto di persone, di studi e anche di elementi esterni alla comunità scientifica (si pensi a tutto ciò che ruota attorno alle politiche sanitarie di prevenzione).

    Se si analizza la rete di citazioni tra gli autori e gli articoli di una comunità scientifica, si riconosce una struttura che indica il grado di divisione all’interno della letteratura. Una comunità è una rete, un sottoinsieme di una popolazione più ampia, in cui i legami interni sono prevalenti rispetto ai legami con altri sottoinsiemi. «Possiamo osservare il black-boxing nelle reti di citazioni o, più precisamente, nelle rappresentazioni di articoli scientifici collegati da citazioni». Quando diverse fazioni dibattono su una questione scientifica, creano regioni distinte all’interno della rete. Gli elementi interni sono visibili, perché il fatto scientifico si sta costruendo.

    Schwed e Bearman hanno applicato questa teoria non solo alla letteratura sul cambiamento climatico, ma anche a quella in altri campi, come il rapporto tra cancro e fumo, e a temi su cui non c’è stato alcun reale dibattito scientifico, come il link tra vaccini e autismo (un’ipotesi mai provata – frutto di una frode – che la comunità scientifica ha prontamente smentito). In quest’ultimo caso la discussione segue una traiettoria piatta: il tema non è mai diventato scientificamente controverso. Nel caso del rapporto tra fumo e cancro, il dibattito scientifico percorre, per buona parte del suo arco temporale, una traiettoria ciclica. Dopo che, in seguito alla pubblicazione di alcuni importanti studi e rapporti, un primo consenso sulla cancerogenicità del fumo si formò tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, la questione è stata in seguito riaperta in termini diversi, come quando si è iniziato a discutere sulla possibilità di fabbricare sigarette più sicure e sul ruolo della nicotina. Questo, secondo Schwed e Bearman, si deve anche all’influenza che l’industria del tabacco è riuscita a esercitare sulla ricerca.

    La formazione del consenso scientifico sul cambiamento climatico si sviluppa lungo un terzo tipo di traiettoria, detto “a spirale”: a un iniziale dibattito segue una rapida risoluzione della questione e una spirale di nuove domande verso le quali gli scienziati si orientano. L’esistenza del riscaldamento globale e le sue cause antropiche non sono più dibattute, ma a valle di questo consenso continua una discussione su altri aspetti della questione. Schwed e Bearman hanno preso in esame 9423 articoli scientifici sul clima pubblicati tra il 1975 e il 2008, trovando che all’inizio degli anni ’90 il consenso scientifico si era ormai consolidato.

    Questo consenso può essere ribaltato? In linea di principio sì, se nuove e convincenti evidenze si fanno largo. Ma il livello di consenso ci dice anche qual è lo stato della discussione nella comunità scientifica. È una misura dell’eventuale dissenso al suo interno e quindi, indirettamente, della plausibilità di ipotesi alternative, messe alla prova dello scrutinio della comunità scientifica. Se il consenso sul cambiamento climatico antropico sfiora il 100%, ciò significa che tra gli scienziati più competenti non c’è alcun dibattito sulla sua realtà.

    Naomi Oreskes afferma che «la maggior parte delle persone pensa che la scienza sia affidabile in virtù del suo metodo: il metodo scientifico». Ma non esiste un singolo metodo scientifico, ci sono molti metodi scientifici. Ciò che, in verità, rende affidabili le affermazioni scientifiche è, secondo Oreskes, «il processo mediante il quale vengono controllate. Le affermazioni scientifiche sono soggette a controlli e solo le affermazioni che li superano possiamo dire che costituiscano conoscenza scientifica».

    Nel caso del cambiamento climatico questo processo di controllo scientifico è giunto da tempo al termine. La scienza oggi è certa che il riscaldamento globale è causato dalle emissioni prodotte dalle attività umane (in primo luogo, i combustibili fossili), tanto quanto è certa che il fumo è cancerogeno. Chiunque è libero di credere che gli “scettici” abbiano ragione e che la comunità scientifica abbia torto. Le opinioni personali sono libere. Quello che non si può fare è affermare che la comunità scientifica sia divisa o che gli scienziati non siano ancora sicuri delle cause del riscaldamento globale. Perché queste, come dimostrano gli studi, sono affermazioni false.

    https://www.valigiablu.it/consenso-scienza-cosa-dice-cambiamento-climatico/

  • Il dio di Spinoza (e di Einstein)

    Il dio di Spinoza (e di Einstein)

    Quando Einstein insegnava in molte università degli Stati Uniti la domanda ricorrente che gli studenti gli facevano era sempre la stessa:

    “Crede in Dio?”

    Einstein dava sempre la stessa risposta:

    “Credo nel Dio di Spinoza.”

    Per chi non ne sa nulla può non voler dire niente, il suo pensiero e la sua visione rimangono sempre gli stessi…

    Baruch Spinoza è stato un importante filosofo vissuto durante il XVII secolo, dunque in pieno razionalismo: la sua filosofia si basa quindi molto sulla logica, tanto da identificare Dio come ordine geometrico del mondo, che si manifesta nella perfezione della Natura.

    Il suo pensiero si può quindi condensare in una delle sue espressioni più famose, Deus sive natura: Dio ovvero la Natura.

    C’è chi sostiene che il Dio di Spinoza possa pronunciare queste parole:

    “Smettila di pregare e di batterti sul petto.
    Divertiti, ama, canta e goditi tutto ciò che questo mondo ti può dare.
    Non voglio che tu visiti i templi freddi e bui che tu dici essere la mia casa!
    La mia casa non è in un tempio, ma nelle montagne, nelle foreste, nei fiumi, nei laghi e nelle spiagge. È li che si trova la mia casa ed è lì che esprimo il mio amore.
    Non farti ingannare dai testi scritti che parlano di me: se vuoi avvicinarti a me guarda un bel paesaggio, prova a sentire il vento e il calore sulla tua pelle.
    Non chiedermi nulla, io non ho il potere di cambiare la tua vita, tu sì.
    Non avere paura, io non giudico e non critico, non dispenso punizioni.
    Non credere a chi mi semplifica in delle semplici regole da rispettare: quelle servono solo a farti sentire inadeguato ed in colpa per quello che fai, servono a mantenerti sotto controllo.
    Non pensare sempre al mondo dopo la morte e non credere che è lì che conoscerai la vera bellezza: questo mondo ha da offrirti tanta di quella bellezza, e spetta solo a te scoprirla.
    Non pensare che io ti ponga delle regole: sei solo tu il padrone della vita, e decidi tu cosa farcene.
    Nessuno può dire cosa c’è dopo la morte, ma affrontare ogni giorno come se fosse l’ultima possibilità di amare, di gioire e di far qualsiasi cosa, ti aiuterà a vivere meglio.
    Non voglio che tu creda in me perché qualcuno sostiene fortemente che io esista, ma voglio che tu mi senta sempre in te ed intorno a te.”

    È possibile immaginare che il pensiero di Spinoza non sia stato ben visto all’epoca, ma forse non lo è tutt’oggi: il Dio che Spinoza predica è un Dio di libertà, slegato dalle azioni umane del perdono e della punizione. Spinoza è stato uno dei filosofi che ha riportato la vita nelle mani della persona di chi la vive.

    Einstein abbracciò completamente la visione geometrica e naturale di Dio. Un concetto che può farci riflettere su cosa sia la religione per noi e può ampliare le nostre vedute

  • Noam Chomsky manipolazione della democrazia.

    Noam Chomsky manipolazione della democrazia.

    Dedicate 5 minuti e non ve ne pentirete.

    Non foss’altro per ampliare le proprie conoscenze.

    • 1-La strategia della distrazione

    L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti.

    La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza.

    Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

    • 2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

    Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

    • 3- La strategia della gradualità.

    Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.

    • 4- La strategia del differire.

    Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

    • 5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

    La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno” (vedere “Armi silenziosi per guerre tranquille”).

    • 6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

    Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti.

    • 7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

    Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.

    “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.

    • 8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

    Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti …

    • 9- Rafforzare l’auto-colpevolezza.

    Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!

    • 10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono.

    Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

    Noam Chomsky, uno dei piu’ importanti intellettuali oggi in Vita, ha elaborato la lista delle 10 strategie della manipolazione attraverso i mass media.

    https://democraziamanipolazionetrasparenza.quora.com/https-viaggiareconlentezza-quora-com-Noam-Chomsky-uno-dei-piu-importanti-intellettuali-oggi-in-Vita-ha-elaborato-la-li?ch=18&oid=111193508&share=0f6a055d&srid=vNXkr&target_type=post

  • 8 consigli per una campagna elettorale efficace tratti da “I segreti dell’urna”

    8 consigli per una campagna elettorale efficace tratti da “I segreti dell’urna”

    La campagna elettorale può essere vista come una vera e propria campagna militare. Nulla deve essere affidato al caso: analisi, strategia, comandanti, squadra, spirito. Senza questi, le conquiste di Alessandro Magno, Giulio Cesare o Napoleone Bonaparte non sarebbero esistite. 

    Ecco 8 consigli su come svolgere una campagna elettorale al meglio, tratti dal libro “I segreti dell’urna” di Giovanni Diamanti.

    1. Conosci te stesso, il tuo avversario e il contesto

    Bisogna conoscere alla perfezione l’attacco e la difesa degli avversari per poterli colpire. Ricorda però che prima devi conoscere te stesso: le tue qualità, i tuoi difetti, i punti di forza da valorizzare e i punti deboli da arginare sui quali faranno leva gli avversari. 

    Una volta che hai acquisito coscienza di chi sei e di chi è il tuo avversario, analizza attentamente il campo da gioco, ossia il contesto

    Nel 2008 Obama spiazzò gli avversari investendo fortemente negli stati repubblicani. Questa mossa nacque da un’attenta analisi che prese in considerazione l’evoluzione demografica dei territori in questione. Emerse che nello Stato chiave della Virginia la componente afroamericana era sempre più numerosa. Per chi avrebbero votato se non per un giovane candidato che probabilmente sarebbe diventato il primo afroamericano Presidente degli Stati Uniti d’America?

    2. Abbassa le aspettative per sorprendere

    Aspettative, sorprese, delusioni: come utilizzarle? 

    Nel 2004 lo staff di Bush dipinse l’avversario John Kerry come un oratore imbattibile, innalzando così le aspettative intorno alla sua figura. Così facendo, pose le basi per provocare, in caso di sconfitta di Kerry nel dibattito tra candidati, un forte sgomento tra i suoi sostenitori. Fu ciò che avvenne. 

    Non sempre però si ottengono i risultati sperati: talvolta abbassare troppo le aspettative sul proprio conto genera un senso di impotenza e sconfitta preannunciata, regalando così la vittoria all’avversario. Fondamentale è il ruolo dei media: gran parte della popolazione non segue i dibattiti veri e propri ma si fa un’idea sulla base della narrazione mediatica. Questo spiega perché alcune vittorie sono considerate “mutilate” e alcune sconfitte “gloriose”. Per esempio, se sei un candidato di destra e perdi di poco in un “terra rossa” (o, viceversa, se sei di sinistra e vinci in un territorio storicamente di destra) punta l’attenzione sull’ottimo risultato che avete ottenuto tu e la tua lista: la sconfitta verrà percepita come “gloriosa” e porrà le basi per una futura candidatura. Vincere non è sempre l’obiettivo: a volte bisogna puntare sul lungo termine, sulle sfide future.

    3. Vinci senza combattere

    In alcune circostanze si può portare a casa il risultato senza sporcarsi le mani. Come? 

    Parti in anticipo, scendi in campo prima degli altri

    Se sei un personaggio noto nel tuo territorio, i possibili competitor saranno scoraggiati nel vedere che dovranno competere con te, quindi non si candideranno o si ritireranno in corsa. 

    In ogni caso, uno strumento che può venirti incontro è il sondaggio: dimostrando che sei in vantaggio rispetto agli altri, instillerà timori ed incertezze tra gli avversari.

    Appena nei hai la possibilità, organizza eventi e coinvolgi più persone possibili: i bagni di folla spaventeranno gli altri candidati.

    4. Scegli il campo di battaglia

    Sun Tzu, generale e filosofo cinese, diceva che il generale esperto non va, ma fa venire l’avversario. Così si sceglie il terreno dello scontro. 

    Una tecnica formidabile è il framing: l’interpretazione che si impone ai media quando si parla di un determinato argomento. Ne ha parlato George Lakoff nell’opera “Non pensare all’elefante” (consigliato da noi in questo articolo, insieme ad altri libri e alcuni film sulla comunicazione politica). 

    Un esempio è il tema “immigrazione”: in base allo schieramento politico e ideologico, ogni personaggio politico cerca di imporre la propria visione che può essere “pericolo per la sicurezza”, “opportunità per nuova forza lavoro” oppure “questione di umanità e moralità”. 

    Anche qui conta la tempistica: se sei il primo a parlare di un argomento, impostando preventivamente la tua visione, avrai più successo nel dibattito. Meglio se sei tu a sollevare una questione, così da avere il dominio sul campo da gioco. Sempre riguardo al tema immigrazione, la Lega è stato il primo partito a parlarne con un messaggio forte e chiaro, precedendo gli altri partiti, i quali hanno dovuto spesso rincorrerla su questo tema. Se assumi determinate posizioni e noti che quelle del tuo avversario sono più premiate dall’opinione pubblica, non cambiare idea per copiare le sue, rimani coerente e alla lunga potrai essere premiato. La gente preferisce l’originale all’imitazione

    5. Valorizza i tuoi punti di forza

    Una strategia di marketing efficace prevede di incentrare le campagne pubblicitarie su un’unica ragione di vendita da comunicare in maniera quasi compulsiva.

    Il contenuto del messaggio, come diceva James Carville (consulente di Bill Clinton), deve avere tre requisiti: semplicitàrilevanza e reiterazione. Avrai sicuramente notato come gli esponenti politici rilancino le stesse proposte e gli stessi slogan sempre e ovunque. Pochi messaggi chiari e di impatto, questa è la regola. 

    Il motivo è che le persone sono spesso disinteressate ed il livello dell’attenzione è sempre più basso. I messaggi che lanci devono dunque suscitare interesse ed essere compresi nel minor tempo possibile. Anche in questo caso la tempistica è fondamentale: definisciti prima che ti definiscano gli altri! Prendi subito posizione e ritaglia il tuo profilo politico con caratteristiche positive, puntando sui pregi. Se lo fai tu, puoi giocare in vantaggio. Se lo fanno gli altri, punteranno sui tuoi difetti.

    6. Non trascurare i punti di debolezza

    Fare un bilancio dei tuoi punti di forza e di debolezza è una pratica indispensabile. Mettiti nei panni dell’avversario: ti permette di immaginare su cosa andranno a parare i suoi attacchi verso di te. Prevedere questo permette di preparare una strategia di difesa efficace

    Talvolta si riesce persino a ribaltare gli attacchi, trasformando i punti di debolezza in punti di forza. Per esempio, se un tuo avversario ti etichetta come “mister nessuno” puoi giocare la carta del “cittadino comune” che si candida per dar voce ai normali cittadini e risolverne i problemi, così da far trasparire il tuo lato umano agli occhi degli elettori.

    7. Ordine e disciplina

    Il comitato elettorale è un organo fondamentale a tutti i livelli, sia che tu ambisca a diventare sindaco, sia che tu voglia essere il futuro Presidente del Consiglio. L’anarchia è il male assoluto: organizza i volontari in base alle competenze ed ingaggia professionistidel settore come il manager della campagna, l’esperto social, il sondaggista e così via.

    Il tutto deve essere fortemente gerarchizzato e centralizzato con una figura di fiducia del candidato a cui spetta l’ultima parola. Seguendo questo schema, potrai lavorare serenamente ed efficientemente. In caso contrario, annegherai nel caos delle faide tra collaboratori, come è avvenuto nello staff di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016 negli USA. Tieni bene a mente: un pessimo clima tra i tuoi più stretti collaboratori influenza negativamente l’intera campagna

    8. Mai sottovalutare l’avversario

    Un leone utilizza la sua intera forza anche per uccidere un coniglio. Ricorda di utilizzare tutto l’arsenale disponibile per giungere alla vittoria, anche se parti come favorito. La campagna elettorale di Pier Luigi Bersani nel 2013, nonostante i sondaggi lo dessero in largo vantaggio, portò ad una “non vittoria”.

    Ciò avvenne perché il Partito Democratico non investì adeguatamente nella campagna, senza chiamare all’azione in modo efficace attivisti, volontari ed elettori. I sondaggi davano Bersani come vincitore, motivo per cui il partito e gli elettori si erano adagiati sugli allori, credendo di avere già la vittoria in pugno. Questo portò la coalizione di centro-destra ad un passo dalla vittoria e permise al Movimento 5 Stelle di ottenere un risultato altissimo rispetto alle aspettative.

    ***

    Con questi accorgimenti avrai una marcia in più rispetto ai molti che improvvisano. Ricorda però che la progettazione della campagna e l’arruolamento di figure competenti ti permettono di puntare al massimo risultato. Affidati ad agenzie di comunicazione politica per strutturare al meglio la tua campagna. Se non ne conosci, noi possiamo aiutarti.

    https://respolitics.it/

  • FASCISMO MAINSTREAM

    FASCISMO MAINSTREAM

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro “Fascismo Mainstream”. E considerando le risposte reazionarie dei governi globali a crisi sociale e catastrofe climatica, la domanda appare lecita.

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro, Fascismo Mainstream (Fandango Libri 2021). E la domanda non sembra affatto campata in aria, soprattutto a ben vedere le deboli e vacue risposte dei governi globali al dramma dell’emergenza climatica, e le crudeli e disumane risposte degli stessi a quei fenomeni migratori di massa che spesso e volentieri nascono proprio dai disastri ecologici.

    La stessa domanda se l’era posta qualche anno fa Peter Frase nel suo Quattro modelli di futuro (Treccani 2019) in cui combinando automazione e crisi climatica l’autore individuava quattro possibili sistemi sociali ed economici a venire: il comunismo (abbondanza e uguaglianza), il renditismo (abbondanza e gerarchia), il socialismo (scarsità e uguaglianza) e lo sterminismo (gerarchia e scarsità).

    Per evitare che sia l’ultimo a prendere il sopravvento, come molti indicatori sembrano prefigurare, è quindi necessario individuare la dottrina alla base dello stadio più avanzato dello sviluppo capitalista: quello che Valerio Renzi chiama “Fascismo Mainstream”. «Un orizzonte possibile nel nostro futuro» scrive l’autore, «perché i valori, l’organizzazione sociale e la ratio profonda dei rapporti sociali espressi da questo nuovo pensiero reazionario, non solo sono perfettamente compatibili con il capitalismo neoliberista, ma ne rafforzano alcuni elementi diventando una possibile via di fuga dentro la crisi».

    Se come avvertiva Mark Fisher non siamo più in grado d’immaginare mondi diversi e possibili – perché abbiamo introiettato che dal presente neoliberale non c’è alcuna via di fuga, il famigerato «there is no alternative» sentenziato dalla “Iron Lady” –, ecco che il (nuovo) fascismo trova il suo fertile terreno.

    L’ideologia migliore per sopravvivere in un sistema fondato sul continuo replicarsi e acuirsi delle diseguaglianze (di classe, genere, etnia…) alla ricerca di un biglietto della lotteria che non capiterà mai, è quella fascista: una dottrina sapientemente ibrida e confusa, terrorizzante e salvifica, che ci permette di trovare sempre qualcuno sotto di noi su cui scaricare le nostre frustrazioni.

    «Il funzionamento di questo universo discorsivo» scrive Renzi, «non sarebbe stato possibile senza una salda egemonia neoliberista sulle società occidentali, senza la disgregazione della solidarietà di classe, l’abbassamento della conflittualità sindacale e sociale, l’allenamento all’individualismo proprietario e alla competizione.»

    A questo punto, se la catastrofe ecologica sembra inevitabile, forse possiamo ancora fare qualcosa per evitare che sia accompagnata da un sistema sociale e politico fondato sullo “sterminismo” di cui parla Frase. Il compito è quindi duplice: innanzitutto capire come e perché siamo arrivati fino a qui; in secondo luogo, dotarci degli strumenti per riconoscere il Fascismo Mainstream non solo nelle sue plastiche rappresentazioni – come possono esserlo i vari Trump, Salvini e Bolsonaro – ma anche e soprattutto nella sue forme più infide e nascoste.

    Per intraprendere la prima parte del percorso Valerio Renzi, giornalista e attivista che da anni si occupa dei fenomeni dell’estrema destra, ci accompagna lungo un doppio binario. Non solo l’evoluzione del pensiero fascista-reazionario, da Julius Evola alla nouvelle droite di Alan De Benoist, il cosiddetto gramscismo di destra che ha avuto l’abilità di teorizzare per primo alcune degli elementi oggi al cuore del Fascismo Mainstream, ma anche e soprattutto gli errori della sinistra.

    Da una parte quella che l’autore, aumentando il concetto di sacralizzazione della memoria della Shoah teorizzato dalla ricercatrice Valentina Pisanty, chiama “Religione Antifascista di Stato”. Una fossilizzazione del pensiero che «si è trovata a difendere il mondo così come lo conosciamo. È diventata un’ideologia conservatrice, utile a confermare la realtà così com’è, una foglia di fico morale per l’inconsistenza della democrazia liberale, per l’impotenza di un sistema politico ormai esautorato dal capitalismo finanziario».

    Dall’altra l’adesione totale e totalizzante della sinistra occidentale ai precetti non tanto del libero mercato, cui già era iscritta, quanto della sua variante austriaca con il portato della sua nefasta ideologia. Per di più tradotta in ordinamento giuridico come hanno spiegato benissimo Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi 2013). Un percorso cominciato negli anni ‘90 con i vari Clinton e Blair che hanno portato la sinistra occidentale a essere incapace di reagire alle varie crisi del capitale del 2008 e del 2011.

    E siamo alla seconda questione: come riconoscere il Fascismo Mainstream – cioè il nuovo e spaventoso fascismo che imperversa in modo apparentemente innocuo nei programmi televisivi in prima serata e nei post su Facebook dello zio sorrentiniano – oltre le sue rappresentazioni più plastiche ed evidenti, ovvero nelle sue forme di governo e nel proliferare di attentati di estremisti di destra per nulla solitari e sempre più connessi e organizzati?

    Valerio Renzi individua le fondamenta della dottrina del Fascismo Mainstream in due capisaldi, o come acutamente rilevava lo storico Furio Jesi per il fascismo, in due “miti”: il differenzialismo e il politicamente corretto. Due termini d’uso talmente comuni da sembrare ormai neutri, ma che racchiudono invece una molteplicità di ideologie tossiche, pericolose e aberranti.

    Il differenzialismo è un razzismo all’apparenza non biologico ma culturale, introdotto dalla nouvelle droite, che al mito del “sangue” sostituisce quello del “suolo”. Non ci sono più, o non ci sono solo, o ci sono ma non lo si dice, razze inferiori biologicamente, più stupide o più cattive, con le quali non ci si deve mischiare. Ma ci sono razze diverse, con bisogni e desideri diversi, che non dobbiamo assimilare ma che dobbiamo “aiutare a casa loro”. Inutile approfondire come sia il “noi” privilegiato della parte di mondo che detiene il 99% della ricchezza globale, dopo averla estratta e depredata all’altra parte, a decidere come sia meglio che gli “altri” restino lì dove sono.

    Il politicamente corretto è invece quella foglia di fico, quella mistificazione della realtà dietro cui si nasconde, come spiega molto bene la giurista Kimberlé Crenshaw, l’attacco dei privilegiati all’intersezionalità, ovvero la rivendicazione dell’impossibilità di scindere le oppressioni di classe, genere e razza. Ecco che il maschio bianco, nei secoli proprietario dei mezzi di produzione, della terra, delle donne e degli schiavi – perché ogni fascismo nasce sempre e solo per difendere la proprietà e il sistema sociale ed economico che la garantisce – sentendosi minacciato accusa l’esistenza di una fantomatica dittatura, quella del “politicamente corretto”.

    Ribaltando completamente il senso comune, negando decenni di conquista di diritti attraverso le lotte, secondo i proprietari che si sentono minacciati vivremmo oggi in tempi bui, in cui non si possono più insultare le minoranze, infierire contro chi è più debole di noi, altrimenti si erigerebbe una terribile censura orchestrata da fantomatiche lobby di femministe, di non bianchi, di omosessuali. Inutile approfondire, anche qui, come dietro queste fantomatiche lobby che impediscono ai fascisti di essere tali si celi sempre l’antica e innominabile idea che a governare il mondo ci siano loro: gli ebrei.

    Avendo accolto il concetto di “Fascismo Mainstream” proposto dall’autore come cassetta degli attrezzi per comprendere il presente, e avendo stabilito come questo sia la forma di governo più semplice e facilmente attuabile per governare la catastrofe, agli essere umani dotati ancora di un minimo di buona volontà resta un solo compito: individuare le manifestazioni di questo inedito pensiero reazionario non tanto nelle sue rappresentazioni più becere ma in quelle apparentemente più innocue, in chi professandosi liberale attacca la fantomatica dittatura del politicamente corretto, in chi da sinistra blatera di “esercito industriale di riserva” per giustificare il suo odio nei confronti dei migranti e ricacciarli indietro. E sarebbe il caso di riconoscere queste persone per quelle che sono: i nuovi fascisti.