, ,

Democrazia malata, parla Bauman

Written by

Democrazia malata, parla Bauman

Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Intervista al teorico della “società liquida”

Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de “l’Espresso” con Bauman per allargarsi però all’attualità politica, dai cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.

Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?

«Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo — la facilità, la rapidità, la disintermediazione — porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te.

Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine — ci si sente connessi con il mondo — e un luogo di “confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole».

Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia…

«È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi, certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi sembra che abbiano mai portato a un’estate».

Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?

«Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le cause delle proteste antisistema vanno cercate invece nella crisi di fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque centimetri più in là.

Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli Stati nazionali sono incapaci di gestirla.

Così oggi i governi sono sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati; dall’altra parte, la realtà globale interdipendente — i mercati, le borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno — impediscono che questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano, ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».

Di qui nascono i movimenti antisistema?

«Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».

E questi sentimenti non si traducono in movimenti?

«Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa.

Io la chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose.

Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».

Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?

«Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere. Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”, mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene, “to do things right”. C’è una grande differenza».

Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?

«“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini. Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso dispregiativo.

No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del “populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della democrazia».

Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?

«Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora.

Destra e sinistra erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono molto meno nella complessità policentrica del presente».

In che cosa consiste questa complessità policentrica?

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano. Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale, dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o “di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti, tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione: oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».

Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra” come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti sono solo effetti ottici?

«Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale, il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia, un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno. Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con Tsipras in Grecia».


(pubblicato in origine su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.i