Autore: panfoli

  • Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    L’Austria è un Paese piccolo e domenica hanno votato meno di 4 milioni di persone, di cui un milione e 300 mila per Norbert Hofer, il candidato nazionalista e identitarista. Poca roba: quindi, in teoria, su di lui potremmo fare spallucce.
    Su di lui così come sul fatto che negli Stati Uniti il candidato alla presidenza dei Repubblicani sia Donald Trump. O che in Francia aumentano ogni giorno le probabilità che la Le Pen arrivi almeno al ballottaggio. O (anche) che in Italia la destra ex berlusconiana sia sempre più rappresentata dal duo Salvini-Meloni. Per non dire di tutti gli altri movimenti populisti (In Italia il M5S)  , in crescita in quasi tutta Europa.

    Se invece pensiamo che il fenomeno ci riguardi, dopo l’anatema potremmo anche cercare di capire perché tanta gente vota da quelle parti. Magari aiutandoci dando un’occhiata ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici contemporanei, quelli che stanno dietro quest’ondata. E con qualche riferimento storico.
    Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ad esempio, scoppiò in Inghilterra quel fenomeno che passa sotto il nome di luddismo, dal mitico Ned Ludd: personaggio forse neppure esistito, ma a cui veniva attribuita la prima distruzione di un telaio meccanico. È possibile che Ludd fosse uno degli artigiani che nel 1770 avevano preso d’assalto la casa e le macchine di James Hargreaves, il tizio che aveva inventato lo “spinning jenny”: quel dispositivo a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili per volta. Il telaio meccanico, appunto.
    L’introduzione di strumenti industriali in quel periodo stava trasformando radicalmente e abbastanza in fretta l’organizzazione del lavoro precedente. In particolare i tessitori del Lancashire vedevano crollare i prezzi dei loro prodotti e quindi avevano solo la chance di trasformarsi in operai (a bassissimo reddito e in condizioni di lavoro disumane) mettendosi al servizio proprio dei nuovi telai, cioè gli stessi che ne avevano causato la proletarizzazione. Abbastanza normale che volessero distruggerli a randellate.
    Quello che sta succedendo nel mondo all’inizio del XXI è un fenomeno di portata anche maggiore rispetto all’introduzione dei telai meccanici e delle macchine a vapore. E ha ragioni di fondo tecnologiche ed economiche.

    Mai come adesso assistiamo a un mutamento rapido delle relazioni di produzione, lavoro rarefatto e parcellizzato, voucher, piattaforme di manodopera liquida, a cottimo o all’ora.
    Ma le trasformazioni tecnologiche di oggi sono anche quelle che costringono ogni singolo produttore di qualsiasi cosa, nel pianeta, a concorrere con qualsiasi altro produttore della stessa cosa nel resto del pianeta. E quelle che hanno consentito le esternalizzazioni delle produzioni nei Paesi in cui il lavoro orario costa molto meno.
    O semplicemente, pensate ad altri e più banali cambiamenti tecnologici: quelli che, con i satelliti e Internet, hanno portato l’Occidente nelle case di un miliardo di africani, creando quindi il desiderio-bisogno di lasciare il proprio villaggio di fango e capre per venire qui da noi.
    E occhio perché ancora più “disruptive” saranno le trasformazioni che ci aspettano: l’intelligenza artificiale è ancora nella sua età infantile, rispetto all’incidenza che porterà nelle relazioni produttive nei prossimi due o tre decenni. La sharing economy anche. E forse nessuno ha davvero idea dell’impatto sulla produzione della stampa in 3D, oggi vista dai più come un’eccentrica curiosità, ma che invece è un altro pezzo della nuova rivoluzione industriale.
    Spiegava qualche giorno fa Bernard Guetta (vedi articolo allegato infondo al post), proprio parlando dell’ascesa dei parafascismi in Europa e Usa, che oggi «ai salariati non resta che scegliere tra il persistere di elevati tassi di disoccupazione e l’accettazione di un’ininterrotta erosione dei diritti acquisiti». Sicché «sulle due sponde dell’Atlantico si è venuta a creare un’enorme angoscia sociale, terreno fertile per Trump e le estreme destre europee». E sia Trump sia Marine Le Pen, i vari Grillo e Salvini, sia i loro analoghi «propongono di tornare al protezionismo, vedono nei Paesi emergenti il nemico, sono ostili verso l’immigrazione. Tutti, in sintesi, provano nostalgia per i tempi in cui l’Occidente era formato da Stati forti, che non soffrivano la concorrenza di Paesi dalle tutele sociali inesistenti»
    Già. Perché a fronte dei cambiamenti contemporanei e in arrivo, ci si può comportare in due modi.
    Il primo è appunto quello che vediamo ogni giorno nei discorsi di Trump o Salvini: metaforicamente, prendere a randellate i telai meccanici. Cioè, oggi, immaginare o creare muri, rinfocolare identità nazionali. Nostalgia, come dice Guetta.
    Il secondo è capire invece che i nuovi telai meccanici invece sono qui per restare, ci piaccia o no: e quindi rivolgere ogni sforzo per rovesciare il modo in cui vengono gestiti e usati oggi dai poteri economici e politici. Cioè nell’interesse di pochissimi, per accumulare e accentrare capitale.
    Proprio come 200 anni fa, del resto.
    A proposito: i luddisti erano probabilmente ingenui, ma non così stupidi da non capire — dopo i primi anni di rabbia accecata — che il problema stava soprattutto nelle condizioni di lavoro e di vita a cui erano costretti dai proprietari dei nuovi telai. «Fate che i superbi cessino di opprimere gli umili e Ludd rinfodererà la spada», diceva una canzone luddista diffusa in Inghilterra al tempo. La loro inutile rivolta sarebbe quindi finita se le cose per loro fossero migliorate: in termini di orari, reddito, oppressione dagli “umili” da parte dei “superbi”.

    Il compito che abbiamo oggi, certo, è spiegarlo a chi vota Grillo, Trump, o Salvini, o Le Pen o Norbert Hofer.
    Ma soprattutto è spiegarlo ai superbi di oggi, che di tutto questo sono la causa vera.

    Il futuro roseo del nuovo fascismo

    Non dobbiamo cadere preda della paura sbagliata: di Donald Trump non preoccupa il fatto che possa conquistare l’investitura repubblicana, perché sarebbe molto improbabile per lui riuscire a insediarsi alla Casa Bianca. Negli Stati Uniti gli elettori “indipendenti” – quelli decisivi di centro – non voteranno per lui, perché sono tutto salvo che estremisti.

  • Vi spiego i benefici della nuova Costituzione. Parla il prof. Clementi

    Vi spiego i benefici della nuova Costituzione. Parla il prof. Clementi

    Dopo l’esito della consultazione del 17 aprile, le attenzioni politiche e mediatiche si spostano ora sul referendum confermativo della riforma costituzionale. Ecco l’opinione di Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia che nel 2013 ha fatto parte della Commissione dei saggi istituita da Giorgio Napolitano ed Enrico Letta

    Nonostante un Parlamento altamente diviso e frammentato, figlio del risultato elettorale del 2013, fatto di vinti più che di vincitori,Renzi è riuscito a costruire una maggioranza rispettando la procedura dell’articolo 138 della Costituzione e a far approvare una riforma costituzionale che migliorerà la qualità della democrazia in Italia”. Il costituzionalista Francesco Clementi non ha dubbi: con l’ultimo sì – martedì scorso alla Camera – è stato varato un testo destinato a portare il nostro Paese allo stesso livello delle “miglioriliberal-democrazie europee”. Clementi – che insegna Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia e alla School of Government della Luiss e che nel 2013 ha fatto parte della Commissione dei saggi istituita da Giorgio Napolitano ed Enrico Letta – sottolinea, in primo luogo, il metodo scelto per mandare in porto la riforma: “Si è pienamente rispettata la procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138 della Costituzione, senza scorciatoie, essendo da sempre correttamente quella l’unica vera strada obbligata da percorrere.

    Professore, esistevano strade alternative per arrivare all’approvazione definitiva?

    Negli ultimi decenni non sono mancati i tentativi di aggirare la norma costituzionale, di eluderla di fronte alla fatica e ai rischi politici che quel lungo e complesso percorso prevede. Solo attraverso quella strada obbligata – che appunto costringe a maggioranze larghe e a passaggi parlamentari ripetuti e pure rigidamente distanti tra loro – si poteva trovare la forza di superare le rilevanti e gravi difficoltà politiche emerse dopo le elezioni del 2013, tali da costringere le Camere a rieleggere, prima volta nella storia del nostro Paese, il Presidente della Repubblica uscente.

    C’è già un vincitore?

    Considerati il quadro di contesto e le premesse politiche di partenza, questo è senza dubbio un successo. Il merito è certamente del Parlamento e dei parlamentari che l’hanno voluta, a partire dai senatori. Evidentemente, si tratta di un successo anche per il Governo, il quale è nato – è bene ricordarlo – proprio per affrontare con la dovuta risolutezza la sfida delle riforme mettendoci la faccia. Una scelta di trasparente responsabilità, fatta senza cercare alibi e senza voler “galleggiare” sopra le riforme per rimanere in carica, come si è invece visto molte volte nella storia di questo Paese.

    C’è però un pezzo del Parlamento che contesta duramente la riforma.

    La sesta e ultima votazione di martedì scorso ha dimostrato che si possono fare le riforme rispettando riga per riga la Costituzione, anche se ciò costa fatica, comporta rischi e accende polemiche e dibattiti nel Paese, provocando conseguenze politiche anche rilevanti. Le cose fatte bene, in genere, cominciano per bene. Questa, a me pare, un ottimo esempio.

    C’è però chi accusa il governo di aver fatto questa riforma a colpi di maggioranza. Come si risponde a questa critica?

    Considerate le premesse, torno a dire che la strada era obbligata: si sono rispettate, punto per punto, le maggioranze previste dalla Costituzione per la sua riforma, quelle indicate dal Costituente. Lo ribadisco: non si è elusa la strada, la si è percorsa a viso aperto. E questo è un fatto davvero da non sottovalutare nel tempo della crisi della rappresentanza politico-parlamentare. Capisco che nelle sei votazioni sono emerse maggioranze disomogenee tra loro, frutto dei movimenti della politica e delle difficoltà di una rappresentanza parlamentare ancora – in non pochi casi – in cerca d’identità e di nuovi leaders. Ma ciò, nel rispetto formale del dettato costituzionale, conferma l’eccezionalità e il valore – vorrei dire – storico del voto. Per il nostro Paese si dischiude la possibilità di approvare quello che, altrove, è regola democratica da sempre.

    Perché – a suo modo di vedere – questa riforma ha valore storico?

    Per rendersene conto basta rileggere due discorsi chiave di questi ultimi tre anni. Il primo l’ha pronunciato Giorgio Napolitano – il 22 aprile 2013 di fronte alle Camere riunite il giorno del suo secondo insediamento – a memento delle ragioni della prosecuzione della legislatura proprio in funzione di riforme necessarie e non più eludibili. Più di recente – per sottolineare gli effetti di una eventuale e mancata conclusione della transizione istituzionale italiana – il discorso che il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha fatto il 21 dicembre scorso alle alte cariche dello Stato: in esso, il Presidente della Repubblica rilevava come “il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere”. Mi auguro che ogni dibattito, da qui ad ottobre, avrà come premessa almeno la lettura di questi due testi.

    Lei ha detto che questa riforma migliorerà la qualità della democrazia. Per quale motivo?

    Perché affronta i principali problemi che da decenni vengono sottolineati da ogni partito o schieramento politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tempo che cambia.

    Di quali problemi sta parlando?

    Il primo è il bicameralismo paritario che tutto è tranne che perfetto. Grazie a questa riforma – come accade in tutti i bicameralismi delle moderne democrazie – ci sarà una Camera che rappresenterà l’indirizzo politico, ossia il circuito della forma di governo in senso stretto, e l’altra Camera – il Senato – che rappresenterà invece la morfologia istituzionale del Paese, ossia la sua forma di Stato. I problemi che saranno risolti, però, sono molteplici.

    Quali sono?

    Ci sarà un miglioramento della qualità della legislazione, tanto nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla decretazione d’urgenza ai referendum propositivi e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro ordinamento. E, ancora, entrerà in Costituzione lo statuto delle opposizioni, a connotare ulteriormente la fine dell’alternativa ideologica in favore dell’alternanza programmatica, regolamentata e trasparentemente garantita, lungo l’asse maggioranza/opposizione. Ciò inoltre consentirà di dare un volto preciso a quello che si deve considerare a buon diritto come un “governo in attesa”. Per non parlare poi, della semplificazione istituzionale, dal Cnel che sparisce alle province che vengono de-costituzionalizzate. O del nuovo rapporto – più responsabile anche sul fronte dell’autonomia di spesa – tra lo Stato e le Regioni. Infine, come ultima annotazione, segnalo che per la prima volta entra nella nostra Costituzione il termine trasparenza. Un fatto che non sarà improduttivo di effetti.

  • Il fascismo eterno (Umberto Eco)

    Il fascismo eterno (Umberto Eco)

     

    Nel 1942, all’età di dieci anni, vinsi il primo premio ai Ludi Juveniles (un concorso a libera partecipazione coatta per giovani fascisti italiani – vale a dire, per tutti i giovani italiani). Avevo elaborato con virtuosismo retorico sul tema: “Dobbiamo noi morire per la gloria di Mussolini e il destino immortale dell’Italia?” La mia risposta era stata affermativa. Ero un ragazzo sveglio. Poi nel 1943 scopersi il significato della parola “libertà”. Racconterò questa storia alla fine del mio discorso. In quel momento “libertà” non significava ancora `liberazione”. Ho passato due dei miei primi anni tra SS, fascisti e partigiani, che si sparavano l’un l’altro, e ho imparato come scansare le pallottole. Non è stato male come esercizio. Nell’aprile del 1945 i partigiani presero Milano. Due giorni dopo arrivarono nella piccola città dove vivevo. Fu un momento di gioia. La piazza principale era affollata di gente che cantava e sventolava bandiere, invocando a gran voce Mimo, il capo partigiano della zona. Mimo, ex maresciallo dei carabinieri, si era messo coi badogliani e aveva perso una gamba in uno dei primi scontri. Si fece vedere al balcone del comune, appoggiato alle sue stampelle, pallido; cercò con una mano di calmare la folla. Io ero lì che aspettavo il suo discorso, visto che tutta la mia infanzia era stata segnata dai grandi discorsi storici di Mussolini, di cui a scuola imparavamo a memoria i passi più significativi. Silenzio. Mimo parlò con voce rauca, quasi non si sentiva. Disse: “Cittadini, amici. Dopo tanti dolorosi sacrifici… eccoci qui. Gloria ai caduti per la libertà.” Fu tutto. E tornò dentro. La folla gridava, i partigiani alzarono le loro armi e spararono in aria festosamente. Noi ragazzi ci precipitammo a raccogliere i bossoli, preziosi oggetti da collezione, ma avevo anche imparato che la libertà di parola significa libertà dalla retorica. Alcuni giorni dopo vidi i primi soldati americani. Erano afro-americani. Il primo yankee che incontrai era un nero, Joseph, che mi fece conoscere le meraviglie di Dick Tracy e di Li’ Abner. I suoi fumetti erano a colori e avevano un buon odore. Uno degli ufficiali (il maggiore o capitano Muddy) era ospite nella villa della famiglia di due mie compagne di scuola. Ero a casa mia in quel giardino dove alcune signore facevano crocchio intorno al capitano Muddy, parlando un francese approssimativo. Il capitano Muddy aveva una buona educazione superiore e conosceva un po’ di francese. Così, la mia prima immagine dei liberatori americani, dopo tanti visi pallidi in camicia nera, fu quella di un nero colto in uniforme giallo-verde che diceva: “Oui, merci beaucoup Madame, moi aussi j’aime le champagne…” Sfortunatamente mancava lo champagne, ma dal capitano Muddy ebbi il mio primo chewing-gum e cominciai a masticare tutto il giorno. Di notte mettevo la cicca in un bicchiere d’acqua, per tenerla in fresco per il giorno dopo. In maggio, sentimmo dire che la guerra era finita. La pace mi diede una sensazione curiosa. Mi era stato detto che la guerra permanente era la condizione normale per un giovane italiano. Nei mesi successivi scoprii che la Resistenza non era solo un fenomeno locale, ma europeo. Imparai nuove, eccitanti parole come “reseau”; “maquis”, “armée secrete”, “Rote Kapelle” “ghetto di Varsavia”. Vidi le prime fotografie dell’Olocausto, e ne compresi così il significato prima di conoscere la parola. Mi resi conto da che cosa eravamo stati liberati. In Italia vi sono oggi alcuni che si domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul corso della guerra. Per la mia generazione la questione è irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e psicologico della Resistenza. Era motivo d’orgoglio sapere che noi europei non avevamo atteso la liberazione passivamente. Penso che anche per i giovani americani che versavano il loro tributo di sangue alla nostra libertà non era irrilevante sapere che dietro le linee c’erano europei che stavano già pagando il loro debito. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che il mito della Resistenza era una bugia comunista. E’ vero che i comunisti hanno sfruttato la Resistenza come una proprietà personale, dal momento che vi ebbero un ruolo primario; ma io ricordo partigiani con fazzoletti di diversi colori. Appiccicato alla radio, passavo le mie notti – le finestre chiuse, e l’oscuramento generale che faceva del piccolo spazio intorno all’apparecchio l’unico alone luminoso – ascoltando i messaggi che Radio Londra trasmetteva ai partigiani. Erano al tempo stesso oscuri e poetici (“Il sole sorge ancora”, “Le rose fioriranno”), e la maggior parte erano “messaggi per la Franchi”. Qualcuno mi bisbigliò che Franchi era il capo di uno dei gruppi clandestini più potenti dell’Italia del Nord, un uomo dal coraggio leggendario. Franchi divenne il mio eroe. Franchi (il cui vero nome era Edgardo Sogno) era un monarchico, così anticomunista che dopo la guerra si unì a gruppi di estrema destra, e venne anche accusato di aver collaborato a un colpo di stato reazionario. Ma che importa? Sogno rimane ancora il sogno della mia infanzia. La liberazione fu un’impresa comune per gente di diverso colore. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che la guerra di liberazione fu un tragico periodo di divisione, e che abbiamo ora bisogno di una riconciliazione nazionale. Il ricordo di quegli anni terribili dovrebbe venire represso. Ma la repressione provoca nevrosi. Se riconciliazione significa compassione e rispetto per tutti coloro che hanno combattuto la loro guerra in buona fede, perdonare non significa dimenticare. Posso anche ammettere che Eichmann credesse sinceramente nella sua missione, ma non mi sento di dire: “Okay, torna e fallo ancora.” Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare solennemente che “loro” non debbono farlo più. Ma chi sono “loro”? Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse. Se il fascismo di Mussolini si fondava sull’idea di un capo carismatico, sul corporativismo, sull’utopia del “destino fatale di Roma”, su una volontà imperialistica di conquistare nuove terre, su un nazionalismo esacerbato, sull’ideale di una intera nazione irreggimentata in camicia nera, sul rifiuto della democrazia parlamentare, sull’antisemitismo, allora non ho difficoltà ad ammettere che Alleanza Nazionale, nata dal MSI, è certamente un partito di destra, ma ha poco a che fare col vecchio fascismo. Per le stesse ragioni, anche se sono preoccupato dai vari movimenti filonazisti attivi qua e là in Europa, Russia compresa, non penso che il nazismo, nella sua forma originale, stia per ricomparire come movimento che coinvolga una nazione intera. Tuttavia, anche se i regimi politici possono venire rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni. C’è dunque ancora un altro fantasma che si aggira per l’Europa (per non parlare di altre parti del mondo)? lonesco disse una volta che “solo le parole contano e il resto sono chiacchiere”. Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi. Lasciatemi dunque chiedere perché non solo la Resistenza ma tutta la seconda guerra mondiale sono state definite in tutto il mondo come una lotta contro il fascismo. Se rileggete “Per chi suona la campana” di Hemingway, scoprirete che Robert Jordan identifica i suoi nemici coi fascisti, anche quando pensa ai falangisti spagnoli. Permettetemi di lasciare la parola a Franklin Delano Roosevelt: “La vittoria del popolo americano e  dei suoi alleati sarà una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta” (23 settembre 1944). Durante gli anni di McCarthy, gli americani che avevano preso parte alla guerra civile spagnola venivano chiamati “antifascisti prematuri” – intendendo con ciò che combattere Hitler negli anni quaranta era un dovere morale per ogni buon americano, ma combattere contro Franco troppo presto, negli anni trenta, era sospetto. Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”? Mein Kampf è il manifesto completo di un programma politico. II nazismo aveva una teoria del razzismo e dell’arianesimo, una nozione precisa della entartete Kunst, `”arte degenerata”, una filosofia della volontà di potenza e dell’ Ubermensch. Il nazismo era decisamente anticristiano e neopagano, allo stesso modo in cui il Diamat (la versione ufficiale del marxismo sovietico) di Stalin era chiaramente materialista e ateo. Se per totalitarismo si intende un regime che subordina ogni atto individuale allo stato e alla sua ideologia, allora nazismo e stalinismo erano regimi totalitari. Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L’articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l’Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello “stato etico e assoluto” che Mussolini non realizzò mai completamente. Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza. Dio era evidentemente distratto. In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini. Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania. Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire una alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi. Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, “in stato quintessenziale”. Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy (1) .

    Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla Chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato? Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un “duce” di tirare avanti sottobraccio a un “re” cui offerse anche il titolo di “imperatore”. Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica “sociale”, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine. Ci fu una sola architettura nazista, e una sola arte nazista. Se l’architetto nazista era Albert Speer, non c’era posto per Mies van der Rohe. Allo stesso modo, sotto Stalin, se Lamarck aveva ragione non c’era posto per Darwin. Al contrario, vi furono certamente degli architetti fascisti, ma accanto ai loro pseudocolossei sorsero anche dei nuovi edifici ispirati al moderno razionalismo di Gropius. Non ci fu uno Zdanov fascista. In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un’arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo); e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l’arte per l’arte e le nuove esperienze dell’arte d’avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso. Il poeta nazionale era D’Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d’esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell’eroismo – con l’aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù. Quando il fascismo si identificò con l’impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell’Accademia d’Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto. Molti dei futuri partigiani, e dei futuri intellettuali del Partito Comunista, vennero educati dal GUF, l’associazione fascista degli studenti universitari, che doveva essere la culla della nuova cultura fascista. Questi club divennero una sorta di calderone intellettuale in cui le nuove idee circolavano senza nessun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle. Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall’interno della torre d’avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell’ottimismo e dell’eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante. Gramsci venne messo in prigione fino alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto). L’immagine incoerente che ho descritto non era dovuta a tolleranza: era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica. Ma era una “sgangheratezza ordinata”, una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi. Siamo ora giunti al secondo punto della mia tesi. Ci fu un solo nazismo, e non possiamo chiamare “nazismo” il falangismo ipercattolico di Franco, dal momento che il nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anticristiano, o non è nazismo. Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di “fascismo” quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di “gioco”. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche “somiglianza di famiglia”.

      1             2            3            4

    abc        bcd        cde        def

    Supponiamo che esista una serie di gruppi politici. Il gruppo 1 è caratterizzato dagli aspetti abc, il gruppo 2 da quelli bcd, e così via. 2 è simile a 1 in quanto hanno due aspetti in comune. 3 è simile a 2 e 4 è simile a 3 per la stessa ragione. Si noti che 3 è anche simile a 1 (hanno in comune l’aspetto c). Il caso più curioso è dato da 4, ovviamente simile a 3 e a 2, ma senza nessuna caratteristica in comune con 1. Tuttavia, a ragione della ininterrotta serie di decrescenti similarità tra 1 e 4, rimane, per una sorta di transitività illusoria, un’aria di famiglia tra 4 e 1. Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l’imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare “Ur-Fascismo” (2), o il “fascismo eterno”. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.

    1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E’ sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo.

    2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della (6) modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L’illuminismo, l’età della Ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.

    3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell azione per l’azione. L’azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “Porci intellettuali”, “Teste d’uovo”, “Snob radicali”, “Le università sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali, erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.

    4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.

    5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’UrFascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.

    6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo, in cui i vecchi “proletari” stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.

    7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E’ questa l’origine del `nazionalismo’: Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. In America, ultimo esempio dell’ossessione del complotto è rappresentato dal libro The New World Order di Pat Robertson.

    8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano il “popolo dei cinque pasti”: mangiavano più spesso degli italiani, poveri ma sobri. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l’un l’altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare con obiettività la forza del nemico.

    9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’età dell’Oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione.

    10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa.

    11. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un eroe. In ogni mitologia “eroe” è un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo è la norma. Questo culto dell’eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era: “Viva la muerte” . Alla gente normale si dice che la morte è spiacevole ma bisogna affrontarla con dignità; ai credenti si dice che è un modo doloroso per raggiungere una felicità soprannaturale. L’eroe Ur-Fascista, invece, aspira alla morte, annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica. L’eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri.

    12. Dal momento che sia la guerra permanente sia l’eroismo sono giochi difficili da giocare, l’UrFascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un fioco difficile da giocare, l’eroe UrFascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.

    13. L’Ur-Fascismo si basa su un “populismo qualitativo” : In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l’UrFascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai `putridi” governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: “Avrei potuto trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli.” Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.

    14. L’Ur-Fascismo parla la “neolingua”. La “neolingua” venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell’Ingsoc, il Socialismo Inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow.

    Dopo aver indicato i possibili archetipi dell’Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comperare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c’erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre, dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito d’Azione, Partito Liberale. Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito Nazionale Fascista. Stavo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento che ero un ragazzo sveglio, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all’altro. Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica. Queste parole, “libertà”, “dittatura” – Dio mio – era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do ancora la parola a Roosevelt: “Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del fascismo crescerà nel nostro paese” (4 novembre 1938). Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”. E permettetemi di finire con una poesia di Franco Fortini:

    Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati

    Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati

    Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati

    Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati

    Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini

    Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini

    Ma noi s’è letto negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà

    Ma l’hanno stretta í pugni dei morti La giustizia che si farà.

    (1) Usato attualmente in logica per indicare insiemi “sfumati”, dai contorni imprecisi, il termine fuzzy potrebbe essere tradotto come “sfumato”, “confuso”, “impreciso”, “sfocato”.

    (2) Ur-Fascismo, o “fascismo eterno”, ossia il fascismo nella sua intima essenza. Il prefisso “Ur-” viene dal tedesco ed è utilizzato per indicare la variante primigenia del concetto a cui si accompagna, la sua versione archetipica. Ur-Fascismo è quindi un idealtipo, un insieme di elementi che in numero variabile sono rintracciabili nelle diverse forme di fascismo instaurate in molte parti del mondo nel XX secolo.

     
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    Qui sotto, la critica del giornalista

    Mario Bernardi Guardi

    con un “non tanto velato” attacco personale.

    http://tabularasa.altervista.org/1995/4_guardi.htm

  • Il tweet di Trump su Bruxelles

    Il tweet di Trump su Bruxelles

    Nelle concitate e tristi ore che seguono i drammatici fatti di Bruxelles, ci sono molti esempi di comunicazioni empatiche, che portano una goccia di partecipazione emotiva sana e di utile lucidità al mare mosso dell’emozione collettiva. E ci sono comunicazioni come il tweet di Trump, che ci raccontano una storia diversa.

    Non so quante dosi di pensiero di Trump ci siano nel tweet e quante dosi siano del suo staff. Non è neanche così utile sapere il dosaggio esatto, dato che una campagna elettorale è un sistema compatto in cui le idee trovano eco coerente, per cui una frase appartiene comunque alla campagna, che sia pensata dal candidato, dal suo addetto stampa o da un gruppo di politologi.

    Il tweet di Trump su Bruxelles — In italiano — Medium

    Nella sintesi di un tweet, si può notare una parte consistente dell’impostazione della campagna di Trump. Prima di tutto, come fa notare Emanuele Menietti, nel tweet di Trump “non una parola di vicinanza o cordoglio, niente”. Non c’è alcun cenno di empatia, neanche un minimo di vicinanza con la città colpita. Il grugno duro della campagna non cede neanche di fronte a fatti drammatici.

    Avranno forse pensato che il cordoglio sia troppo formale e stonerebbe per una campagna impostata su una comunicazione apparentemente diretta e che si vanta di non aver peli sulla lingua, in cui una certa rudezza di toni e lontananza dalla formalità sono considerati premianti.(Dopo qualche ora, Trump ha espresso il suo cordoglio, pur chiudendo il tweet con un roboante: “This madness must be stopped, and I will stop it”).

    Oltre al tono, sono le frasi scritte nel tweet a essere significative. La prima frase è indicativa: “Do you all remember how beautiful and safe a place Brussels was”. È ragionevole pensare che solo una minoranza dell’audience americana cui si rivolge la comunicazione sia stata a Bruxelles e conosca davvero la città.

    L’espressione “Do you all remember” è quindi iperbolica. Qualcuno dei lettori del tweet ricorderà qualcosa, qualcuno avrà nozioni meno che essenziali sulla città, ma non “you all remember”. La comunicazione così congegnata mette chi legge nella situazione di ritenere normale due caratteristiche (“beautiful and safe”) di una città di cui probabilmente avrà solo informazioni sommarie. Il ricevente si sente parte di un pensiero comune che, in realtà, non è affatto diffuso e comune come sembra (per il semplice motivo che non è parte delle conversazioni usuali e delle verità inoppugnabili, ma parte delle nozioni dibackground).

    Un dato di fatto normale — una bella e tranquilla città —viene gonfiato in modo sproporzionato: “Do you all remember”. A suo modo, questa frase rispecchia la campagna di Trump (non è certo il primo nelle elezioni americane), che tende a elaborare la realtà in modo elastico.


    Una parte dell’elettorato che si affida a Trump (non tutto l’elettorato, naturalmente: il corpo elettorale è sempre più complesso e variegato di ciò che sembra) sente di poter partecipare al dibattito politico perché questo gli viene offerto dalla campagna di Trump in modo semplice e smontato in modo da poter essere elaborato senza fatica.

    Non la semplicità di spiegare bene le faccende del mondo, bensì la facilità da scorciatoia di far sentire una persona parte del “Tutti sanno che”, del “Tutti conosciamo”.

    Normalmente, per poter valutare un messaggio e capire cosa aggiunga a ciò che sappiamo, ci si domanda implicitamente “Cosa conosco già rispetto all’informazione che mi viene data? Cosa conosco della città citata?”. Però in alcuni potrebbe attivarsi un meccanismo diverso: se è scontato che tutti pensano X e io non ho mai avuto modo né di affermare né di negare X, allora significa che anch’io penso X. È come se uno avesse sempre pensato X, senza essersene reso conto.

    Se sono certo di un fatto, sono più robusto (anche se non invincibile) rispetto all’opinione contraria degli altri. Ma se non ho certezze approfondite di un fatto (ad esempio, non sono mai stato in una data città) ciò che gli altri danno per scontato tende a diventare la mia opinione, magari con la tendenza ulteriore a considerare tale opinione scontata, immemore del fatto che fino a qualche minuto prima quel pensiero non era neanche presente.

    Il “Do you all remember”, con il suo appellarsi a tutti e con il suo citare il ricordo (come se fosse qualcosa di depositato da tempo nella nostra mente) ha questo senso di ineluttabile conoscenza diffusa.


    Da notare il beautiful messo prima di safe. Che Bruxelles in queste ore sia stata meno sicura rispetto al passato è dato condiviso (con tutto l’augurio, naturalmente, che torni a essere una città sicura). Da quella testa di ponte, si edifica il ponte completo con un dato che è considerato altrettanto indiscutibile e opinione comune, ossia il beautiful. E così, “Do you all remember how beautiful and safe a place Brussels was” crea, in una frase, un oggetto di senso completo e assodato.

    Il was finale toglie il terreno sotto i piedi e afferma— in modo altrettanto lapidario — che quell’oggetto di senso non c’è più. Così come la comunicazione fa apparire chiara la sua esistenza, altrettanto palese è la sua assenza: was. La frase successiva finalizza il cambio di scena ineluttabile della situazione: “Not anymore, it is from a different world!” Anche in questo caso, si aggiunge un carico iperbolico: “from a different world!”

    Èun modo di comunicare che non cerca elaborazioni che vadano oltre le (presunte) verità lapalissiane che la comunicazione stessa pone alla base di sé; verità lapalissiane che vengono negate con altrettanto vigore, per creare un cortocircuito che diventa apparentemente una logica inoppugnabile.

    Pur vero che si tratta di un tweet, che non consente molte articolazioni. Ma è un esempio di pensiero strutturato per polarizzazioni assolute, in cui l’assoluto non è qualcosa di astratto: si selezionano anzi come poli dei concetti semplici che tutti possano capire, caricandoli di una sproporzionata verità assoluta.

    Il tweet di Trump non è l’unico esemplare, né la sua campagna è l’unica ad adottare questo stile. Una parte della comunicazione complessiva che ci circonda ha lo stesso tono di “scontatismo” che non aiuta a pensare, ma che si limita a sollecitare reazioni altrettanto piatte. È compito di noi lettori e riceventi andare oltre e leggere con maggiore articolazione, per restituire alla realtà la sua irriducibile complessità.

  • Referendum estrazioni gas/petrolio in mare

    Referendum estrazioni gas/petrolio in mare

    Considerazioni trovate in rete PRO/CONTRO

    E se proprio fossi costretta, voterei NO.

    Ho letto tutti i vostri post sulle trivelle. Ho guardato tutte le sfilate delle immagini più o meno toccanti e più o meno simpatiche (l’ultima delle quali, “trivella tua sorella”, oltre che essere sfacciatamente maschilista, è stata proprio un epic fail, complimenti agli ideatori!). Immaginavo già che alcuni dei più famosi brand italiani arrivassero anche ad approfittare del momento caldo per le proprie campagne pubblicitarie (ed ecco infatti che “le uniche trivelle che ci piacciono” hanno per protagonisti un fusillo di pasta che si tuffa nel ragù e un cavatappi che affonda nel sughero di un nero d’avola). Mi rendo conto di quanto possa essere abbastanza facile restare impressionati da una campagna di Greenpeace che ci fa vedere le immagini del povero gabbiano tutto sudicio di petrolio che tenta disperatamente di aprire le ali. Ci vengono le lacrime agli occhi, vero? Ma siccome sono chiamata a dare un voto e mi piace pensare e agire con la mia testa, ho deciso di prendermi del tempo per informarmi e andare oltre le immagini e le informazioni che fonti “orientate” ci propinano in rete, soprattutto in materia ambientale, visto il tipico vizio che hanno certe campagne ambientaliste di puntare i piedi e otturare le orecchie. E quello che ho trovato in rete mi ha molto stupita. Sono partita da un paio di articoli (Il Post e Le Scienze) per poi approfondire saltellando da link a link fino a farmi un’idea mia che, per necessità di chiarezza, sento il bisogno di condividere.
    Premetto che ho molto a cuore l’ambiente ma rifiuto la definizione di ambientalista (parola che come “fondamentalista” e “integralista” denota un estremismo spesso privo di qualsiasi tipo di raziocinio). E no, non sono un geologo che lavora in piattaforma, sono un geologo disoccupato che manco ci pensa ad andare a lavorare in piattaforma, per carità. E non ho nessuno in famiglia che lavora alla Eni. Insomma nessun interesse personale nelle mie opinioni.
    Lasciando stare le motivazioni occupazionali (in caso di vittoria del SI, circa settemila lavoratori impiegati nel settore perderebbero il posto di lavoro, motivo per cui diversi sindacati si sono schierati a favore del NO) e le motivazioni economiche (dismettere gli impianti prima del tempo significa chiaramente un costo enorme per le spese di ammortamento, perché vuol dire non usare quell’impianto per l’intera vita operativa per cui era stato progettato) voglio discutere di seguito i motivi per cui non andare a votare nella speranza che non venga raggiunto il quorum, mi sembra la soluzione “più sostenibile”:
    1) Lo stop che prevede il referendum riguarda più il gas metano che il petrolio. In Italia il petrolio, l’oggetto più demonizzato dalle campagne “No-Triv”, viene estratto per la maggior parte a terra e non in mare. Gli impianti che saranno oggetto del referendum estraggono fondamentalmente metano, che sebbene fossile, è una fonte di gran lunga meno dannosa del petrolio e ancora per molti versi insostituibile (attualmente il 54% dell’offerta energetica mondiale). In questa pagina del sito dell’Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse, vi è l’elenco completo delle piattaforme oggetto del referendum (quelle entro i limiti delle 12 miglia), la loro profondità di estrazione (dato spesso sottovalutato, ma molto importante) e il tipo di combustibile estratto. Nonostante Greenpeace si faccia portavoce di immagini con ragazzi in costume da bagno ricoperti di catrame e poveri pennuti starnazzanti nel petrolio, scorrere velocemente l’elenco degli impianti farà capire brevemente come la percentuale di impianti a GAS sia in netta maggioranza rispetto a quelli a OLIO. Questo si traduce con una sola frase: Siamo disinformati e pronti ad abboccare a qualsiasi cosa, basta che sia green.
    2) la vittoria del SI porterà inevitabilmente alla costruzione di altri impianti. La costruzione di piattaforme entro le 12 miglia è vietata per legge dal 2006 (comma 17 dell’art. 6 del D.Lgs 152/06) e su questo possiamo stare sereni. La vittoria del SI non potrà, però, impedire alle compagnie di spostarsi e costruire nuovi impianti poco oltre questo limite. Praticamente con il SI quello che vogliamo dire alle compagnie e: << Sentite, anche se avete ancora un botto di gas da estrarre in questo giacimento, chiudete tutti i rubinetti e spostatevi più lontano oppure andatevene in un altro paese >>. Si, significa questo, ridotto ai minimi termini. La compagnia allora potrà scegliere se non cambiare stessa spiaggia stesso mare, dismettere l’impianto entro le 12 miglia e farne, per esempio, uno nuovo a 12,5 miglia (li dove nessuno potrà lamentarsi di nulla) oppure andare a cercare giacimenti altrove, sulla terraferma o in altri paesi. Ma inevitabilmente, altri impianti saranno costruiti e altri saranno potenziati, per sopperire al fabbisogno energetico. Se vietiamo l’utilizzo degli impianti esistenti, da qualche altra parte questo gas dovremo andarlo a prendere, no?
    3) La vittoria del SI non scongiura un rischio ambientale, anzi, contribuisce ad aumentare l’export petrolifero e quindi anche l’inquinamento. Ora, immaginiamoci un disastro ambientale, un grave incidente a una piattaforma petrolifera posizionata “correttamente” e cioè oltre il limite delle 12 miglia. Pensate davvero che un miglio, 5 miglia o anche 20 miglia possano fare la differenza? Sarebbe comunque una catastrofe e nessun vascello di Greenpeace o panda del WWF potrà correre avanti e indietro e fare da barricata all’avanzare del petrolio verso le coste. In più lo stop delle piattaforme esistenti si tradurrebbe in un maggiore traffico di petroliere che vanno a spasso per i nostri mari per portarci i combustibili che noi abbiamo deciso di non estrarre più ma di cui avremo ancora bisogno. Petroliere alimentate a petrolio, che trasportano petrolio e che possono esplodere o essere soggette a perdite e sversamenti. Senza dimenticarci che, sempre in Adriatico, anche la Croazia e la Grecia trivellano e, in futuro, potrebbero attingere ai giacimenti che l’Italia abbandonerà in caso di vittoria del SI. Insomma, a livello di rischio ambientale non cambia proprio nulla.
    4) La vittoria del SI non si traduce in una politica immediata a favore delle energie rinnovabili che a conti fatti da sole non possono ancora bastare. Cosa vi aspettate, che all’indomani della cessazione delle attività nelle piattaforme, l’Italia magicamente si sosterrà solo con le rinnovabili? Siamo d’accordo che l’utilizzo dei combustibili fossili non sia una pratica sostenibile. Ma appunto per questo bisognerebbe puntare non alla costruzione di altri impianti, bensì allo sfruttamento residuo di quelli già esistenti che devono fare da supporto alle energie rinnovabili sempre più in crescita ma non ancora autonome. In un futuro (credo ancora troppo lontano) si auspica l’utilizzo esclusivo di energie rinnovabili ma ciò deve essere fatto un passo alla volta, con la consapevolezza che un periodo di “transizione” è fisiologico e l’utilizzo delle fonti fossili, soprattutto del gas, ci dovrà accompagnare in questo passaggio. In poche parole, se togliamo il gas e il petrolio dobbiamo essere in grado di sostenere subito “la baracca” in un altro modo altrettanto efficiente. Le stesse Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e WWF hanno detto: “quello che serve per difendere una volta per tutte i nostri mari è il rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa e una moratoria di tutte le attività di trivellazione a mare e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale volto alla protezione del clima e rispettoso dei territori e dei mari italiani”. Ok, siamo d’accordo, ma nel frattempo che definiamo il Piano energetico, l’Italia come vivrà?
    5) Il referendum è illeggittimo, fa leva sulla disinformazione dei cittadini e sulla cattiva immagine che una trivella ha nell’immaginario comune. Non è un referendum lo strumento più adatto per risolvere un tema così complesso e così tecnico. O meglio, potrebbe esserlo se fossimo tutti degli esperti di coltivazione d’idrocarburi, ma non lo siamo. Trivellare non vuol dire necessariamente essere contro le politiche green, anzi, la normativa di settore è piuttosto severa e restrittiva nei confronti delle concessioni e degli adempimenti a cui le compagnie devono prestare attenzione.
    6) Non è vero che la presenza degli impianti abbia ostacolato il turismo… Se così fosse, il litorale romagnolo (dove ci sono il maggior numero di impianti) non registrerebbe ogni stagione i flussi turistici che sono invece ben noti. Così anche la Basilicata. In poche parole il turista da peso ad altre cose, e non alla presenza delle piattaforme.
    7) …e non è vero neanche che l’estrazione di combustibili dal sottosuolo può innescare terremoti come quello avvenuto anni fa in Emilia. Questa è un’argomentazione piuttosto tecnica di cui non auguro la lettura integrale nemmeno al mio peggior nemico, ma se volete trovate le conclusioni del rapporto a pagina 56 e successive di questo documento.
    8) La vittoria del SI contribuirà allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo. Dal momento che nel giro di qualche anno verranno dismesse le nostre piattaforme e che il passaggio verso le rinnovabili è ancora qualcosa di molto lento, la vita continua e noi dovremo pur accendere i fornelli di casa e per farlo ci servirà ancora del metano. Metano che le compagnie si dovranno andare a cercare da qualche altra parte e che ci venderanno (a costi più cari, ma questa è un’altra storia che ricorda tanto quello che successe per il nucleare). E noi lo compreremo questo metano, lo compreremo più caro ma con la coscienza più pulita perché siamo ambientalisti e abbiamo detto che il nostro mare “non si spirtusa”. Il nostro mare, appunto. Per fortuna arriva Claudio Descalzi, amministratore delegato Eni che, a braccetto di Renzi, già un paio d’anni fa esclamava soddisfatto: << In Mozambico l’Eni ha fatto la più importante scoperta di gas della sua storia: 2.400 miliardi di metri cubi di gas che consentirebbero di soddisfare il bisogno degli italiani per trent’anni >>. Inutile dire quanto poco gliene possa fregare del gas agli abitanti del Mozambico, loro che non hanno nè fornelli né automobili. Noi quindi ci prendiamo da loro gas e petrolio e loro si prendono solo gli eventuali rischi più qualche spicciolo che andrà nelle casse del governo locale. Molto comodo essere ambientalisti così, evvero?
    Io sinceramente non mi sentirei a posto con la coscienza a votare SI e poi accendere i fornelli con il gas che viene non dall’Adriatico (no per carità, il nostro mare va tutelato) ma dal Mozambico che accoglie le compagnie petrolifere che noi abbiamo cacciato, accollandosi il rischio ambientale perché ha solo gli occhi per piangere e nessun potere contrattuale per dire “no, noi le vostre trivelle qui non le vogliamo”.
    Quindi mi auguro semplicemente che chi deciderà di votare SI abbia un comportamento ineccepibile dal punto di vista energetico. Questo non significa solo fare la differenziata e andare in bicicletta. Significa essere pronti, per coerenza personale, a rinunciare all’indomani del referendum a qualsiasi forma di utilizzo dei combustibili fossili. Significa non possedere né auto né moto che non siano elettriche; significa non viaggiare né in aereo né in nave; significa avere una casa totalmente sostenuta da rinnovabili, con stufe a pellet o i raggi infrarossi; significa non comprare tantissimi prodotti che fanno parte della nostra vita quotidiana e per la produzione dei quali vengono usati combustibili fossili. Insomma, significa essere degli integralisti energetici, avere uno stile di vita molto più che green. Ma quanti, tra quelli che voteranno SI hanno una condotta del genere?
    Per chi volesse leggere le altre ragioni del NO e altri articoli, qui troverà anche troppo.

    E io voterei SI.

    1) Lo stop che prevede il referendum riguarda più il gas metano che il petrolio.
    – Il fatto che siano prevalentemente gicimenti di gas non significa che sia una produzione priva di rischi. Per tuo approfondimenti ti allego uno studio (http://www.lbst.de/…/EP-ENVI-02_Shale-Gas_PE-464425…) Da cui estrapolo solo una frase:
    Gli attuali diritti di esplorazione ed estrazione di gas e olio dovrebbero essere riesaminati in considerazione del fatto che i rischi e gli oneri ambientali non sono controbilanciati da potenziali benefici poiché la specifica produzione di gas è molto limitata. E’ uno studio interessante.

    2) la vittoria del SI porterà inevitabilmente alla costruzione di altri impianti.
    – Questo mi sembra un tuo assunto immotivato, soprattutto per l’inevitabilmente. Realizzare un nuovo impianto è costosissimo e deve valerne la pena, vista la previsione delle risorse stipate sotto i nostri mari e visti gli iter tecnico/burocratici da superare non è detto che questa immediatezza ci sia. Già due compagnie hanno rinunciato ai loro permessi di ricerca.

    3) La vittoria del SI non scongiura un rischio ambientale, anzi, contribuisce ad aumentare l’export petrolifero e quindi anche l’inquinamento.
    – Mi semrba chiaro che chi sostiene il SI è perfettamente consapevole che un’eventuale vittoria non scongiuri il rischio ambientale. Il fatto che il referendum sia limitato ad esprimersi su questa domanda è dovuto a molteplici fattori. Alcuni legati ad un iter democratico, altri all’esatto opposto.
    Siamo convinti che la vittoria del SI riduca il rischio ambientale sia in modo diretto, sia in prospettiva politica.

    4) La vittoria del SI non si traduce in una politica immediata a favore delle energie rinnovabili che a conti fatti da sole non possono ancora bastare.
    – Anche in questo caso è chiaro che non si tradurrà in una politica immediata a favore del rinnovabile. Sarà un indirizzo politico forte se 25 milioni di persone dimostreranno il loro interesse verso la sostenibilità.
    Sui conti fatti non so che conti hai fatto. Oggi la Germania produce il 60% dell’energia in modo sostenibile e ci sono piccole città nello stesso stato in cui il 100% è energia pulita. Mi sembra che si possa fare una conversione di rotta anche in Italia. La Germania in 20 anni ha fatto miracoli e non diciamo la solita cosa degli italiani che non sono in grado che poi chi è in grado va a farlo all’estero.
    http://www.fotovoltaicosulweb.it/…/in-germania-il-60-di…

    5) Il referendum è illeggittimo, fa leva sulla disinformazione dei cittadini e sulla cattiva immagine che una trivella ha nell’immaginario comune.
    Il référendum non è illegittimo è stato chiesto con l’iter previsto dalla legge e dalla costituzione.
    In Italia l’unico sturmento per contrastare leggi che non rispecchiano la volontà popolare è il referendum abrogativo. E’ più che legittimo dunque, e non fa leva sull’immaginario, fa leva sulla volontà di un vasto gruppo di persone che crede in qualcosa e spera che più della metà degli aventi diritto di voto la pensi come loro.
    Tu fai bene a dire la tua e a far riflettere gli elettori ma l’illegittimità è un’altra cosa. Ad esempio è illegittimo che oggi il governo stia facendo una legge che non tiene conto del risultato del referendum sull’acqua.

    6) Non è vero che la presenza degli impianti abbia ostacolato il turismo…
    Non puoi citare la riviera Adriatica parlando del mare. I romagnoli sono dei geni come imprenditori e hanno puntato tutto su discoteche e divertimento, proprio perché il mare da quelle parti non è l’attrazione principale. Hai mai sentito qualcuno parlare del mare cristallino di Rimini?
    Detto questo penso che la confusione nasca perché ci si limita a citare la parola turismo. Quanti tra i turisti che cercano un mare pulito sono attratti dalle trivelle offshore. Quanto del turismo balneare Italiano è legato alla qualità delle sue coste dal punto di vista paesistico e naturalistico? I dati ci sono se vuoi li cerco per te Emoticon smile

    7) …e non è vero neanche che l’estrazione di combustibili dal sottosuolo può innescare terremoti come quello avvenuto anni fa in Emilia.
    La questione è davvero troppo tecnica e ci sono studi che dicono una cosa o il contrario. Non metto bocca. Io sono preoccupato del contrario…di cosa può causare un terremoto con le trivelle in mare. In particolare nell’area del Canale di Sicilia c’è un’intensa attività vulcanica che nel 1830 ha fatto emergere un’isola che poi si è risommersa. Abbiamo costruito un sacco di edifici su terreni franosi e poi ci siamo lamentati dei crolli. Del senno di poi son piene le fosse.

    8) La vittoria del SI contribuirà allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo
    Questa è una tua visione, io lego la presenza del petrolio alla presenza delle guerre quindi mi auguro che all’abbandono del petrolio corrisponda una riduzione dei conflitti. Giusto per dare una visione romantica in contrasto ad una catastrofica.

    Per finire mi sento di dire che l’integralismo non è mai la strada giusta. La sotenibilità in natura come nella società è legata all’equilibrio di diversi fattori. L’equilibrio tra economia, ambiente, temi sociali e temi istituzionali.
    Io nella questione trivelle per come è ora questo equilibrio non lo trovo. Trovo interessi economici di pochi come al solito.

    Risposta alla risposta

    1) conosco l’articolo, e non ho mai detto che non ci sono rischi, ma questi sono inferiori al petrolio. L’informazione, soprattutto quella che passa per immagini, che è stata fatta in rete ha puntato molto sul “nero” sull’immagine del petrolio che ricopriva tutto. Quindi mi è sembrato giusto puntualizzare il fatto che si tratta soprattutto di metano (quello che fino agli anni 90 “ci dava una mano”). Ma si sa…un’immagine vale più di mille parole e fa più presa sul cuore della gente. Fosse per me si dovrebbero limitare al massimo anche le ricerche e le trivellazioni per le estrazioni di gas metano. Infatti continuo a ripetere e insisto su come sia più opportuno continuare a sfruttare quello che già c’è, fino a quando c’è, e nel frattempo spendere tutto quello che è nelle nostre capacità per lo sviluppo delle rinnovabili.

    2) non sta scritto da nessuna parte che altri impianti verranno costruiti, ma non è garantito neanche il contrario. Ma siccome ci sono diversissime richieste di permessi di ricerca, è sicuro più che verosimile che altre concessioni verranno date. Le compagnie che hanno rinunciato non hanno di certo rinunciato in vista del referendum, ma evidentemente in seguito a un bilancio costi/benefici che pesava troppo dalla parte dei costi. Semplicemente si saranno spostati altrove. Oppure pensiamo di aver così tanta voce in capitolo da contrastare queste superpotenze? E neanche che certi colossi si spaventino di fronte agli iter burocratici che devono affrontare. Fatto sta che quello che non estraggo in un posto, dovrò andare a estrarlo in un altro posto (e qui mi riferisco alle parole di ENI in riferimento al Mozambico).

    3) Se dai un’occhiata in rete troverai che i maggiori incidenti sono legati più al trasporto del petrolio, che alla sua estrazione. Solo che nel primo caso si tratta di inquinamenti più piccoli e frequenti, molti dei quali neanche fanno notizia, nel secondo caso si tratta di picchi che “fanno notizia”, e molta presa sulle coscienze. Ma sono deleteri e distruttivi entrambi. Solo che che nel caso in cui le piattaforme rimanessero operative, il traffico in mare sarebbe minore. Inoltre il rischio di incidenti, come il caso del Messico, della DeepWater, come ti ho già detto, è pressocchè nullo. La DeepWater infatti operava a 1500 metri sotto il livello del mare, motivo per cui i “soccorsi” per riparare la falla sono durati giorni e il risultato è stata una catastrofe. Le nostre piattaforme invece sono raggiungibili con “maschera e pinne” (trovandosi dai 9 metri fino a un massimo di circa 100, e si, in quel caso ci vogliono i sommozzatori, ma non sono profondità irraggiungibili.).

    4) il Governo conosce già bene l’interesse degli italiani alle rinnovabili. C’è da domandarsi se anche lui (il governo) ha le stesse intenzioni. Il punto semmai è abbassare i costi, investendo in sviluppo tecnologico. Qui però la questione è più ideologica e lo spiegavo alla fine del post. E potrei chiederti, ad esempio, se tu possiedi una macchina elettrica. Se la risposta è no, e se non intendi comprarla nell’immediato, io credo che il segnale non possa arrivare. Perché un conto è mettere una X su un foglio di carta, un altro conto è comportarsi di conseguenza, rinunciando subito, dal 18 aprile, agli idrocarburi. Idem per i riscaldamenti a casa, per l’acquisto di materiali contenenti plastica eccetera eccetera. Da noi ci sono delle realtà virtuose, ma sono delle piccole oasi, in un mare infinito. Certo che la Germania ha fatto miracoli nel campo delle rinnovabili, ma se permetti, lo stile di vita di un tedesco è anni luce avanti rispetto a quello di un italiano. Siamo diversi e diversi, purtroppo, sono i governi (dai, dobbiamo davvero parlare di politica, mi viene da piangere!). Inoltre ci sono molte altre realtà virtuose, vedi ad esempio la Norvegia che sono virtuosissime, ma che non rinunciano comunque a trivellare e esportare petrolio (Statoil su tutte).

    5) Con la parola “illeggittimo” mi sono espressa malissimo e ammetto che se avessi avuto idea che questo mio post avrebbe avuto tanto clamore, non l’avrei scritto ieri notte alle due, ma sarei stata molto più attenta a un sacco di dettagli. Intendevo dire che è una bufala il modo in cui è posto, non c’è assolutamente informazione, o meglio c’è informazione solo sui motivi del SI. Anche su fb, migliaia di pagine e gruppi per il si e nessuno della controparte. Mi metto nei panni della persona qualunque, che fino a ieri non sapeva cosa fosse una trivella, e chiaramente non posso far altro che abbracciare le idee dei SI. Però ancora prima dell’arma del referendum, lo strumento più importante che possediamo è la libertà e il cervello, con la prima siamo liberi di informarci autonomamente in rete, e con il secondo pensiamo. Tu stesso sul tuo profilo rivendichi il diritto di non spiegare, per motivi di spazio e di semplicità, tutti i punti e di affidarti alla facilità di lettura delle immagini. E capisci bene che se vedo una splendida tartaruga che nuota felice in un mare cristallino, un sacco di persone saranno portate a votare si senza spendere neanche un minuto a leggere oltre o a informarsi. Chi sostiene il no, il supporto delle immagini purtroppo non ce lo può avere. Cosa mettiamo una trivella e un cuoricino? Dai….
    6) Il fatto che i romagnoli siano dei geni è fuor di dubbio perché riescono ad avere più bandiere blu loro, con il mare color topo, che noi, con le bahamas in casa. Di sicuro il colore del loro mare non dipende dalle piattaforme. In ogni caso Non importa come arrivino al risultato, ma è errato dire che ci sia stato un calo del turismo. Ho fatto l’esempio dellìEmilia perché è quella con più impianti. Ma andiamo in Sicilia, non credo che abbiamo problemi di turismo. Quando sentirò il primo turista che dirà : No, in Sicilia non vengo perché ci sono le trivelle, vi farò sapere”.
    7) Si chiama Isola Ferdinandea, circa 8 metri di profondità, bellissima e regno dei subacquei. Ma le due realtà convivono già da circa sessantanni, terremoti ce ne sono stati e di incidenti nessuna traccia.
    8) Il punto 8, proprio questo punto, che tu argomenti in maniera così sbrigativa, è proprio quello che più mi fa arrabbiare. Perché siamo tutti ambientalisti si, ma con il culo degli altri. Io non ci sto. E del Mozambico non ne sto parlando io, ne hanno parlato Renzi e l’amico suo di Eni.

    L’integralismo è proprio quello che io condanno, nel mio post. E tu, purtroppo, continui a non capire la mia posizione. Eè proprio perché io voglio un mondo più sostenibile che mi sento di votare No. Sostenibilità significa lasciare ai nostri figli il mondo nelle condizioni in cui noi lo abbiamo ricevuto dai nostri genitori, e non peggiore. E io continuo a pensare fortemente che la vittoria del SI non risolverà il problema. Anche il NO non lo risolverà, ma con il SI, in più ci sarà lo “spreco”.

  • Comunita Apiaria (o apesca) in quel della Cornacchia

    Comunita Apiaria (o apesca) in quel della Cornacchia

    Appresa la ferale notizia della chiusura della discarica, le api, preoccupate del loro futuro, cercano umani disposti a fornire sostegno psicologico.

    Invitano tutti coloro che hanno sempre apprezzato il loro speciale “Miele al profumo di discarica” a costituire una società pubblica dotata di apposito consiglio di amministrazione costituito da veri esperti in materia.

     

  • Barbaro e disumano è chi li respinge

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    http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/cultura/2016/03/15/foto/va_online_il_sir_thomas_more_l_opera_in_cui_shakespeare_difende_i_migranti-135531700

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  • Battaglia sul glifosato l’erbicida della birra che divide l’Europa

    Battaglia sul glifosato l’erbicida della birra che divide l’Europa

    glisofato

    Battaglia sul glifosato l’erbicida della birra che divide l’Europa

    Per l’Oms è cancerogeno ma l’Ue potrebbe rinnovare l’autorizzazione. Malgrado l’allarme lanciato da Parigi

    ELENA DUSI, la Repubblica • 26 Feb 16

    Perfino la Colombia, a maggio del 2015, ha smesso di usarlo per distruggere le piantagioni di coca. L’Oms, il 20 marzo, aveva infatti classificato il glifosato – l’erbicida più diffuso al mondo – come «probabilmente cancerogeno per l’uomo». A smentirla, almeno parzialmente, era arrivata il 12 novembre del 2015 l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare di Parma: «È poco probabile che la sostanza sia tossica per il Dna o aumenti il rischio di cancro negli uomini».

    Tossico o no, il glifosato è sicuramente un argomento scivoloso. E la Commissione Europea – chiamata nei prossimi giorni a rinnovare il permesso per l’utilizzo dell’erbicida nel territorio dell’Ue per altri 15 anni – è già entrata nel mirino delle associazioni di cittadini. Trentadue gruppi ambientalisti italiani, riuniti nel movimento “Stop glifosato”, due giorni fa hanno scritto al governo chiedendogli di schierarsi per il divieto. Contro il rinnovo dell’autorizzazione al diserbante si è espressa, dieci giorni fa, anche il ministro dell’ambiente francese Ségolène Royal, che ha chiesto all’Agenzia di sicurezza sanitaria di Parigi di vietare il glifosato se mescolato con altre sostanze chimiche ”adiuvanti”: in particolare le tallowamine, già vietate anche in Germania.

    La Commissione, che sarà chiamata a prendere la sua decisione fra il 7 e l’8 marzo, sembra in effetti orientata ad autorizzare il glifosato purché non in combinazione con le tallowamine. Sulla decisione di Bruxelles potrebbe però pesare la notizia del ritrovamento di alcune tracce dell’erbicida nelle 14 marche di birra tedesche più vendute, secondo un’analisi commissionata dal gruppo ambientalista “Munich Environmental Institute”. Le quantità riscontrate, secondo l’associazione tedesca, supererebbero il limite di 0,1 microgrammi per litro previsto per l’acqua potabile, anche se l’Istituto federale tedesco per la determinazione del rischio ha escluso possibili effetti sulla salute. In Francia minime quantità di glifosato sono state rintracciate anche in una marca biologica di assorbenti femminili.

    Il glifosato, secondo una ricerca pubblicata su Environmental Sciences il primo febbraio, è l’erbicida più diffuso al mondo, con 8,6 miliardi di chilogrammi spruzzati nel 2014. La sostanza è usata, tra gli altri, dalla Monsanto per il suo “Roundup”, il diserbante associato alle sementi geneticamente modificate “Roundup Ready”. Ed è proprio a partire dall’introduzione delle coltivazioni ogm, nel 1996, che il prodotto ha registrato un boom di consumo. La ricerca di Environmental Sciences fa notare che due terzi del glifosato usato nei campi statunitensi sono stati spruzzati negli ultimi dieci anni. A gennaio 2016, riferisce la Reuters, la Monsanto ha fatto causa allo stato della California che aveva proposto di inserire il glifosato nella sua lista delle sostanze cancerogene.

    ______________________________________________________________________________

    Il glifosate fu brevettato come erbicida dalla Monsanto Company nel 1974, multinazionale specializzata in biotecnologie agrarie, sementi e leader mondiale nella produzione di alimenti Ogm;  agisce bloccando  nutrienti minerali essenziali per la vita di piante, microorganismi e animali e, anche se era stato presentato come una sostanza rapidamente biodegradabile e non tossica, è invece ampiamente diffuso nell’ambiente insieme al suo metabolita Ampa. Il glifosate altera gli ecosistemi con cui entra in contatto e compromette la stabilità dei terreni, riduce  la biodiversità  e contribuisce in modo determinante al dissesto idrogeologico: la sempre più frequente franosità in coincidenza di eventi metereologici è anche conseguenza della carente azione di assorbimento da parte della cotica erbosa – distrutta dall’erbicida – e della lisciviazione del terreno. Glifosate ed Ampa sono le sostanze maggiormente presenti nelle acque italiane, come segnala il rapporto Ispra e purtroppo ricercate sistematicamente solo in Lombardia. Di recente anche in Toscana è stata ricercata questa sostanza su un centinaio di campioni di acque destinate al consumo umano ed è emerso che; “l’erbicida glifosate, per quanto ricercato in un numero limitato di campioni a causa della complessità del metodo di analisi, è stato rilevato in una percentuale elevata di analisi, anche superiori a 1 microgrammo/litro”.

    RAI.IT NEWS AGRICOLTURA

    UE, RINVIATA DECISIONE SUL GLIFOSATO. DUBBI SUI RISCHI PER LA SALUTE Lo slittamento della decisione sul rinnovo dell’autorizzazione al commercio dell’erbicida più venduto al mondo è arrivato dopo le pressioni di Italia, Francia, Ong e gruppi dell’Europarlamento Tweet Erbicida (gettyimages) Agricoltura, a rischio tutte le coltivazioni Agricoltura europea minacciata dal riscaldamento climatico Ogm, Parlamento Ue approva norma sulla libera scelta degli Stati Coltivare Ogm è ancora vietato, respinto un ricorso al Consiglio di Stato 09 marzo 2016 La Commissione Europea non ha ancora preso una decisione sull’autorizzazione alla vendita del glifosato, l’erbicida più usato al mondo. Nonostante quattro anni di studi e 90mila pagine di documenti, la Commissione ha rinviato la scelta. Uno slittamento dovuto ai dubbi sulla sicurezza per la salute. Ci sono pareri discordanti sul rischio di cancerogenicità dell’erbicida: per l’autorità Ue per la sicurezza alimentare (Efsa) “è improbabile che sia cancerogeno” mentre per l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) è “probabilmente cancerogeno”. Bruxelles non intende rinunciare a una decisione entro giugno quando scadrà l’autorizzazione in corso: ha chiesto così agli esperti dei 28 stati UE di inviarle per il 18 marzo le proposte di modifica che auspicano siano apportate al testo in discussione. La questione sarà di nuovo sul tavolo del prossimo comitato europeo in programma il 18 e 19 maggio, ma la riunione potrebbe essere anticipata. Il no al glifosato è sostenuto dall’Italia, dalla Francia e dall’Olanda, ma anche da diversi gruppi politici del Parlamento europeo, dai Socialdemocratici ai Verdi, fino alle Ong. La Germania e altri Stati hanno detto che in caso di voto si sarebbero astenuti.   Il ministro per le Politiche Agricole, Maurizio Martina, quello della Salute, Beatrice Lorenzin, e il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, sono d’accordo sul superamento dell’utilizzo del glifosato. “Ancora prima della discussione europea sul glifosato abbiamo iniziato un lavoro coordinato con le Regioni per incentivare pratiche agronomiche più sostenibili – ha commentato Martina in un’intervista a Repubblica – Nella scelta degli obiettivi prioritari di spesa dei fondi europei, infatti, abbiamo destinato oltre 2 miliardi alla produzione integrata che ci consentirà anche di percorrere la strada dell’azzeramento dell’uso del glifosato entro il 2020”. Sul glifosato l’Italia non ha “nessuna posizione ideologica – aggiunge il ministro – il glifosato è un prodotto utilizzato in tutta Europa e per questo serve una decisione comune che non penalizzi nessun singolo Paese. Noi lavoriamo per un suo superamento. In generale, negli ultimi 10 anni l’uso di pesticidi in italia si è ridotto del 45%. Il segno che i nostri agricoltori hanno già iniziato a fare scelte precise”. Le organizzazioni agricole hanno messo le mani avanti: “In una situazione di forti importazioni low cost – ha detto Coldiretti – è necessario che l’eventuale divieto riguardi coerentemente anche l’ingresso in Italia e nell’Ue di prodotti stranieri con residui di glifosato”. Confagricoltura ha invitato alla prudenza. “Prima di togliere l’autorizzazione ad un erbicida come il glifosato servono certezze scientifiche, altrimenti si crea solo un danno ai produttori e all’ambiente”.   – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Ue-Rinviata-decisione-sul-glifosato-Dubbi-sui-rischi-per-la-salute-b1ad2220-f8a2-417e-bbc5-f38b2960eb97.html

    http://www.repubblica.it/ambiente/2016/04/13/news/europarlamento_chiede_ridurre_a_7_anni_autorizzazione_glifosato_l_erbicida_piu_usato_al_mondo-137559100/?ref=HREC1-11