Autore: panfoli

  • Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale.

    Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale.

    Illustrazione di Jean Julien
    Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale

    di Héctor L. Carral
    traduzione di Diego Mariani


    In un gruppo di amici molti controllano i propri smartphone, mentre sono insieme. Tutti in metro stanno con gli occhi fissi sugli schermi dei loro dispositivi tecnologici. Una coppia che va a dormire insieme, va a letto con i loro iPhones tra le mani. Le persone tengono alti in aria i loro smartphones, per scattare foto di un concerto. Potrei proseguire ancora. La tecnologia, in particolare, gli smartphone, stanno rovinando la societa odierna, rendendoci piu disconnessi dagli altri, permettendoci di interagire con i nostri dispositivi tecnologici invece di farci interagire tra di noi

    Eccetto, per questo.

    Illustrazione di Rosangela Ludovico

    Alle persone piace criticare la societa odierna. Non necessariamente la societa odierna a noi relativa, ma la societa contemporanea nel tempo in cui viviamo. Facile per loro immaginare il passato come un’era perfetta e migliore rispetto al periodo in cui viviamo, ma questo porta ad una visione distorta della realta, come si spiega nell’articolo Romanticizing the Past Makes Us Feel Bad about the Present. Il passato è sempre migliore. E nell’era dell’informazione e della tecnologia, in cui lo smartphone è cosi diffuso, è troppo ovvio incolpare la tecnologia per alcuni problemi nella societa stessa. Certamente, è saggio e ragionevole, fermarsi e riflettere sull’uso che facciamo della tecnologia e sulle critiche dei cattivi comportamenti che ne derivano. Ma credo che giudicare la tecnologia (e ancora, maggiormente gli smartphones) responsabile della rovina dell’interazione sociale, ed in generale di ogni tipo di esperienza, sia sbagliato e fuorviante. Alcuni possono pensare che tutto questo sia presuntuoso, ma non mi importa.

    Se hai usato internet negli ultimi anni (e lo hai fatto), hai probabilmente visto una o piu immagini sulla tua newsfeed Facebook, o sulla dashboard di Tumblr o in altri posti, con un senso di superiorità, dove vengono rappresentate vignette o immagini di come le persone sono schiave della tecnologia oggi, mostrate sempre con i loro dispositivi tecnologici in pubblico. Sto parlando di illustrazioni come questa. O vignette come questa. Oppure di video comequesto. O ancora di articoli come questo o questo. Oppure di progetti fotografici come questo. Ancora, potrei proseguire oltre. Il web è pieno di qualsiasi tipo di lavoro relativo a questo problema, probabilmente perche la gente ci tiene molto. Ma credo che la maggior parte di queste illustrazioni abbia la stessa premessa: lo smartphone sta rovinando la nostra vita (almeno in alcuni contesti questo è il messaggio trasmesso).

    Illustrazione di Jean Julien. The fun people didn’t go away — they’re here and everywhere

    Ogni volta che vedo un contenuto come questo, sento la necessita di esprimere la mia totale disapprovazione, per questo generalmente mi sfogo su Twitter, spesso scrivendo troppo di quello che posso, ed è per questo che ho deciso di scrivere questo articolo. Certamente, questi sono soltanto miei punti di vista (e spero anche di altre persone), come su articoli di altri autori, sui quali commento, quindi si può anche non essere d’accordo con me, ma con gli altri che la pensano diversamente.

    La mia premessa principale è che non penso che gli smartphones ci stiano isolando, distruggendo le nostre vite sociali o rovinando le nostre interazioni. Io vedo gli smartphones come strumenti per la comunicazione. Strumenti che ci danno la possibilità di interagire in modi che prima non erano possibili, collegandoci con le persone in giro per il mondo, tramite Twitter, messaggi istantanei o altri servizi. Qualcuno può affermare che se vuoi interagire con le persone, devi interagire con le persone che sono vicino a te, e questo, è probabilmente vero in alcune situazioni. Ma, in altre occasioni, non riesco a capire perche dobbiamo essere costretti ad interagire con persone fisicamente vicine a noi, invece che interagire con persone con cui vogliamoveramente comunicare in quel momento.

    È davvero sbagliato voler comunicare con un amico lontano usando lo smartphone, invece di interagire con una persona che non mi interessa, che si trova però vicino a me? Oppure leggere i Tweet delle persone che segui su Twitter invece di parlare con un amico in metro? Forse si, è sbagliato, le persone dovrebbero sempre preferire l’interazione sociale a quella digitale. Non sono d’accordo. A parte in occasioni ovvie (meeting di lavoro, conversazione tra persone, ecc.). Credo che le persone debbano poter interagire con chi vogliono, senza essere giudicati da altri perche si stia usando uno smartphone o meno.

    Tutto si riduce lasciando alle persone la possibilità di interagire liberamente utilizzando lo strumento con il quale si trovano meglio in quel momento. Probabilmente un tuo amico, non sta parlando con te perche ha avuto una pessima giornata e preferisce rilassarsi curiosando su Instagram o ascoltare un po di musica. Forse il tuo amico ha tirato il telefono fuori dalla tasca perche gli è appena arrivato un messaggio al quale deve rispondere. Oppure perche si trova in un momento non molto confortevole e prende lo smartphone per evitare quel momento di goffagine, di ansia sociale e tu dovresti rispettarlo. E forse sì, forse alcune persone usano i loro smartphones quando non dovrebbero farlo, e sono dei cretini (o hanno semplicemente fatto un errore, non rendendosi conto che prendere lo smartphone abbia fatto irritare qualcuno), ma credo che sia ingiusto convenire, che tutti, o quasi tutti quelli che usano lo smartphone in pubblico facciano questi errori.

    Photo by John Blanding tweeted by Wayne Dahlberg. It’s trying to convey the idea that this woman is enjoying the experience more than the other people taking photos or recording. I’m not sure those people are really enjoying it less because of their smartphones

    Parte di coloro che fanno critiche su questo problema, colpevolizzano anche i social media in quanto sono integrati al nostro uso standard degli smartphones. Per esempio, vedo un sacco di gente che si lamenta di altri che fanno foto al cibo al ristorante e le caricano su Instagram o su altri social. Non sono completamente d’accordo con la loro critica. È forse sbagliato creare una memoria permanente di un’esperienza che altrimenti sarebbe temporanea, catturando in una foto il lavoro di persone dietro la cucina che hanno fatto un grande sforzo per creare una composizione tanto buona ma anche tanto bella da vedere? Secondo me questo lamentarsi, è il risultato dell’incomprensione di come i moderni social media funzionano.

    Credo che l’utente zimzet su Tumblr spiega questo concetto in modo accurato nei suoi commenti sulle illustrazioni di Jean Jullien che ho usato qui. Sull’argomento relativo al fatto di fotografare il cibo, Zimzet si è espresso in tal senso:

    Sono felice di vedere i miei amici che fanno foto al loro cibo. A me piace fare foto al cibo. Perchè c’è uno chef in cucina che lavora duro per impiattare cose bellissime and in alcune situazioni, le persone lo mangiano immediatamente e rovinano quella bell’immagine. Noi facciamo le foto per preservare quell’immagine e chi cazzo lo sa, se fossi lo chef andrei a cercare su Instagram, sperando di vedere i miei piatti li. Stiamo semplicemente elogiando il duro lavoro di qualcun altro, lavoro che sarebbe generalmente solo temporaneo.

    E io son d’accordo in questo, zimzet conclude:

    La tecnologia non è cosi male. Tu sei solo arrabbiato con te stesso, a causa della tua mancanza di autocontrollo. Tu odi il fatto che le pesone si connettano grazie alla tecnologia. E forse, non ti piace il fatto che le persone si vogliano bene a vicenda, godendosi la vita e sentendosi felici. Questo è un tuo problema, non della tecnologia.

    Anche il social media in se non è cosi malvagio. Non ci rende socialmente isolati gli uni dagli altri. Semplicemente il contrario, esso espande le nostre reti sociali come dimostrato dallo studio di Pew Research Center dove conclude:

    Confrontando coloro che non usano internet con coloro che ne fanno uso, ed usano anche servizi di social media come Facebook, MySpace o Linkedin, hanno delle reti sociali che sono 20% piu diversificate.

    Il report è stato fatto nel 2009, quando i social media non erano diffusi come lo sono ora, ma credo che siano corretti anche oggi. Vorrei inoltre evidenziare quanto detto in questo paragrafo:

    Nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione forniscono nuove impostazioni e un insieme di mezzi di comunicazione che contribuiscono a diversificare le reti sociali delle persone

    I social media e gli smartphones in pratica, contribuiscono soltanto a rendere la nostra esperienza sociale più ricca, collegandoci con le altre persone in modi nuovi. Sono sicuro che molti di voi avranno incontrato un sacco di gente interessante. Ne sono sicuro. Grazie ai social media sono stato in grado di conoscere persone che adesso sono diventati dei miei cari amici. E quando sono in giro, mi piace andare su Twitter e vedere come stanno e cosa stanno facendo, e se ho qualcosa da dire magari che gli potrebbe interessare. Diavolo, ho anche incontrato la mia ragazza su Twitter alcuni anni fa, e sono sicuro che la mia non è un’esperienza isolata, come lo studio precedente dimostra.

    Vignetta del comico Gavin Aung Than

    Immagine che mostra ognugno leggere il giornale invece di parlare con gli altri, di alcuni decenni fa

    Un altro argomento di cui si sente spesso parlare è quello che ho precedentemente menzionato. Le persone che usano i loro smartphones in metropolitana, in bus o sul treno. Questo è mostrato dall’illustrazione all’inizio di questo articolo, o nella vignetta che ho indicato sopra. Questa è quella che ho messo alla fine. Cos’altro potrebbero fare le persone? Cosa farebbero se gli smartphones non esistessero? Parlerebbero tra di loro? Non prendiamoci in giro. Alle persone, in generale, non piace interagire con estranei in questi contesti. Loro non lo facevano neanche prima della venuta degli smartphones; usavano soltanto un altro oggetto, come un giornale ad esempio. In risposta alla vignetta di questo paragrafo, l’utente Tumblr bogleech ha commentato:

    OH guarda quelle ignoranti, patetiche persone di diverse eta, sesso ed etnia, tutti stanno usando quel cavolo di internet sui propri telefoni mentre sono in metropolitana! Santo cielo lo stanno facendo tutti ! Perfino il ragazzo col turbante lo sta usando, proveniente da chissà che diavolo di paese !

    Perche stanno messaggiando con amici o familiari usando i loro smartphones, quando potrebbero interagire con dei completi estranei in un dannato vagone della metropolitana ?

    Colui che ha scritto questo commento tiene chiaramente molto a questo concetto.Bene, nonostante la sua brutalità, credo che debbo convenire con la sua idea che è proprio quello che sto dicendo qui.

    Poi continua:

    La tecnologia digitale soltanto nell’ultimo decennio ha connesso ed educato molte piu menti umane di quanto sia avvenuto nella storia del nostro pianeta

    Questo è persino un miracolo, il fatto che ci permette di fare nuovi amici, condividere le nostre idee, imparare cose nuove, guarire ferite emotive attraverso l’interazione sociale, trovare delle vie d’uscita da alcune situazioni, trovare nuovi posti in cui vivere, trovare un nuovo lavoro, raggiungere i tuoi obiettivi personali, ed in generale raggiungere la felicità con un dannato bottone

    Non devi per forza credere a quanto egli dice. Ci sono dei report e degli studi che provano tutto ciò, come questo o questo.

    Illustration by Jean Jullien. Is it so bad to have the ability to not be alone using our phones?

    In conclusione, penso che si debba smettere di pensare che la tecnologia stia rovinando tutto, rendendoci schiavi di essa, irragionevolmente utilizzando i nostri smartphones tutto il tempo. Sta rendendo le nostre vite migliori, connettendoci alle persone a cui teniamo di piu, indipendentemente dalla distanza alla quale esse si trovano rispetto a noi, collegandoci potenzialmente a tutti i tipi di persone che non avremmo potuto conoscere senza di essa. Quindi smettila di sentirti superiore alle altre persone che usano i loro smartphones, smettila di dire che la nostra vita sarebbe migliore senza la tecnologia, smettila di incolpare la tecnologia per cose dovute a comportamenti umani naturali. Se vedi un immagine come questa che ho allegato qui, e nella quale quello che gli altri cercano di mostrare è come noi “stiamo lasciando alla tecnologia la facolta di distruggere le nostre interazioni sociali e le nostre esperienze”, fermati e rifletti sul perchè le persone usano i loro dispositivi digitali. Inoltre, basta santificare il passato, pensando che la vita fosse migliore prima di tutta questa dilagante tecnologia, vista come una sorta di “neo-luddismo”. La tecnologia è positiva. Ci permette di collegarci in modo fantastico. Non sta sostituendo la nostra interazione. La sta aumentando, Abbracciala.


    Traduzione di Stop saying technology is causing social isolation di Héctor L. Carral


    (Tutti i diritti delle immagini ed illustrazioni utilizzate in questo articolo sono dei corrispettivi autori e proprietari indicati sotto ogni immagine).

  • Bambini dalla luna

    Bambini dalla luna

     

     

    Di tutte le reazioni che ho letto — l’ho già scritto altrove — quella che mi ha colpito di più è stato lo sdegnato e incredibilmente diffuso stupore perché Vendola non ha adottato un bambino da un orfanotrofio: quando la legge italiana, come noto, glielo impedisce proprio perché omosessuale (l’adozione in Italia è consentita solo alle coppie etero sposate).

    Allora ci si può chiedere, volendo, che cosa avrebbe fatto l’ex governatore nel caso in cui la legge glielo avesse consentito: avrebbe scelto l’adozione o comunque la maternità surrogata?

    E qui, appunto, si apre la vera questione.

    Perché forse anche Vendola e il suo compagno, come milioni e milioni di persone, avrebbero comunque desiderato anche un pezzo di genitorialità biologica: considerata dalla maggior parte delle persone più autentica, profonda e completa di quella adottiva.

    Eccola, quindi, la grande battaglia culturale da fare: che ha anche risvolti politici e legislativi, s’intende, ma è prima di tutto di mentalità, di senso comune.

    Come padre di un ragazzino adottato — e biologicamente generato da una coppia a me del tutto ignota e che pure è ogni giorno nei miei pensieri — la mentalità prevalente e il senso comune li ho visti nelle domande che mi faceva mio figlio alle elementari, tornando da scuola: perché mi dicono che tu non sei il mio vero padre? Perché mi chiedono se mi mancano i miei veri genitori?

    Questa cosa del vero — il linguaggio tradisce sempre il senso comune — è lo spettro contro cui ho lottato per 15 anni: e ho spesso fulminato con lo sguardo o fatto a pezzi a parole anche persone che mi volevano bene, quando lo riproponevano, lasciando affiorare anche loro questo senso comune così antico e stronzo.

    Che è figlio di una subcultura, nulla di più: una subcultura duale e avversativa, secondo la quale l’identità filiale dei bambini è costituita esclusivamente da un contesto fatto da due persone, una madre e un padre, i quali sono coloro che l’hanno biologicamente generato.

    Una costruzione culturale, appunto, e non universale: andate ad esempio nelle famiglie patriarcali o matriarcali di mezzo pianeta e scoprirete quanti bambini hanno più figure sia materne sia paterne, e per loro “mamma” e “papà” spesso sono poco più di un prefisso che mettono davanti ai nomi propri di più persone che, nel loro ambito familiare, interpretano queste figure. Non ci sono genitori veri e genitori falsi, ci sono solo persone adulte (una, due più) che crescendo un figlio contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino: più o meno riuscita a seconda di come si sono comportate e relazionate con il bambino queste figure adulte.

    Allo stesso modo, si sa che il figlio adottato costruisce la sua identità sia nel rapporto con i genitori che lo crescono sia in quello (spesso solo immaginario, ma non per questo meno importante) con i genitori biologici, con le sue origini biologiche. Che quindi non vanno negate (altro errore, speculare e contrario rispetto a chi parla di ‘genitori veri’) ma accostate e integrate alle figure dei genitori che lo crescono.

    Tutto questo non è tuttavia moneta diffusa, almeno non ancora. Non è senso comune. L’adozione è quasi sempre vista come una seconda scelta rispetto alla genitorialità biologica. Un rimedio. Un surrogato, a proposito di parole in questi giorni molto usate.

    La grande battaglia culturale è affinché sia sempre meno così.

    La grande battaglia culturale è affinché la genitorialità adottiva non sia più vista dalla maggior parte delle persone come di serie B rispetto a quella biologica.

    Affinché sia vista come una scelta bella in sé, non come rimedio. Bella non solo e non tanto per motivi etici (date le decine di migliaia di bambini che ogni giorno vengono al mondo per sbaglio, per violenza, in condizioni ambientali spaventose, in contesti di disperazione, di fame, di guerre, di sovrappopolazione) ma proprio dal punto di vista egoistico, dal punto di vista di quello straordinario appagamento che sta nell’essere genitori adottivi.

    Proprio così: è bellissimo crescere un bambino che hanno dato proprio a te, che il destino ti ha assegnato affinché tu gli possa dargli il meglio, che la vita ti ha portato in casa affinché tu possa dimostrare a lui, al mondo, all’universo che puoi regalargli infinità d’amore, di chance, di felicità.

    È un’avventura di una bellezza talmente unica e straordinaria che chi ha avuto la fortuna di percorrerla dovrebbe urlarla al mondo perché lo capisse, altro che genitorialità di serie B!

    Prendete ad esempio la spinosa questione della maternità surrogata, venuta alla ribalta prima con la legge Cirinnà e oggi per via di Vendola: lo sapete vero che l’80 per cento delle maternità surrogate sono richieste da coppie eterosessuali? E quante di queste coppie, se fosse culturalmente sdoganata la bellezza assoluta e in sé di una genitorialità adottiva, insisterebbero su una strada che in molti contesti rischia di avere tratti eticamente molto dubbi, come nel caso di donne disperate dei paesi più poveri?

    Intendiamoci, non sto dando lezioncine: nessuno è immune dalla subcultura che vuole la genitorialità adottiva come una seconda scelta. Neppure io, che 15 anni fa ho iniziato il percorso di adozione solo dopo aver visto il mio spermiogramma. È stato dopo, che ho capito quanto è meravigliosamente ricca l’esperienza di un genitore a cui un bambino è arrivato in casa dalla luna.

    Per questo quando oggi incontro dei ragazzi che progettano una famiglia mi viene spesso da dire: se volete dei figli, fate insieme le due cose. L’amore e il modulo in tribunale, intendo. Fatele entrambe e come arriva, arriva.

    Non c’è gerarchia tra i due modi di essere papà e mamma. Non c’è.

    Non so, a me tutto questo viene in mente, dalla discussione sulla Cirinnà fino a quella su Vendola. Questa battaglia per trasformare la mentalità, la zucca. Che se fosse vinta risolverebbe forse almeno una parte delle questioni.

    E porterebbe anche la politica a occuparsi seriamente della questione.

    Perché sì, il problema ha anche risvolti legislativi e sarebbe molto utile se tutta questa polemica servisse a cambiare un po’ le cose.

    Ad esempio, modificando le norme che oggi impediscono di adottare un bambino a chiunque non sia una coppia etero regolarmente sposata. È una sciocchezza, è una legge figlia di una visione crudele secondo la quale è meglio lasciar marcire un neonato in un orfanotrofio ucraino piuttosto che dargli un nido d’amore costituito da un single, da una copia etero non sposata, da una coppia gay.

    E poi: perché i bambini degli orfanotrofi lontani che creano un graduale rapporto affettivo con qualcuno attraverso i programmi di affido temporaneo durante le vacanze poi non possono scegliere, dopo un po’ di anni, se restare a vivere con la/le persona/e a cui si sono progressivamente legate, e che spesso finiscono per rappresentare il vero focolare familiare nel loro cuore? Pensate che importi a qualcosa, a quei bambini, se la/le persona/e con cui vogliono vivere è sposata o no, è etero o no?

    E ancora, a proposito di mercificazione della genitorialità, un Paese decente non dovrebbe venire incontro attraverso robusti sostegni e totali deduzioni fiscali a quelle persone che intraprendono il percorso di un’adozione internazionale, i cui costi arrivano talvolta a superare i 25–30 mila euro, riproponendo quindi quel divide tra ricchi e poveri che oggi costituisce uno degli spunti di polemica più citati per la maternità surrogata?

    Ecco, se il caso Vendola servisse ad aprire un vero dibattito culturale e politico su tutti questi temi, sarebbe già un risultato straordinario.

    Per il resto, auguri veri di felicità al piccolo Tobia, ai suoi due papà e alla mamma che l’ha partorito.

  • François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

    François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

    Vous,
    les chrétiens,
    les Juifs,
    les musulmans,
    les bouddhistes,
    les hindouistes,
    les shintoïstes,
    les adventistes,
    les panthéistes,
    les « Témoins de ceci-cela,
    les satanistes,
    les gourous,
    les mages,
    les sorciers,
    les yogis,
    les qui coupent la peau de la quéquette
    aux petits garçons,
    les qui cousent le pipi aux petites filles,
    les qui prient à genoux,
    les qui prient à quatre pattes,
    les qui prient sur une jambe,
    les qui ne mangent pas ceci-cela,
    les qui se signent par la droite,
    les qui se signent par la gauche,
    les qui se vouent au diable parce que déçus de Dieu,
    les qui prient pour que tombe la pluie,
    les qui prient pour gagner au Loto,
    les qui prient pour que ça ne soit pas le sida,
    les qui mangent leur dieu en rondelles,
    les qui ne pissent jamais contre le vent,
    les qui font l’aumône pour gagner le ciel,
    les qui lapident le bouc émissaire,
    les qui égorgent le mouton,
    les qui se figurent survivre en leurs enfants,
    les qui se figurent survivre en leurs œuvres,
    les qui ne veulent pas descendre du singe,
    les qui bénissent les armées,
    les qui bénissent les chasses à courre,
    les qui commenceront à vivre après la mort…

    Vous tous,
    qui ne pouvez vivre sans un Père Noêl et sans un Père Fouettard,

    vous tous,
    qui ne pouvez supporter de n’être rien de plus que des vers de terre avec un cerveau,

    vous tous,
    qui avez besoin de n’être pas nés pour mourir et qui êtes prêts à avaler tous les mensonges rassurants,

    vous tous,
    qui vous êtes bricolé un dieu « parfait» et « bon » aussi stupide, aussi mesquin, aussi sanguinaire,
    aussi jaloux, aussi avide de louanges que le plus stupide, le plus mesquin, le plus sanguinaire, le
    plus jaloux, le plus avide de louanges d’entre vous,

    vous tous, oh, vous tous,

    FOUTEZ-NOUS LA PAIX!

    Faites vos salamalecs dans le secret de votre gourbi, fermez bien la porte, surtout, et ne cor rompez pas nos gosses.

    Foutez-nous la paix, chiens!

    François Cavanna, [qui doit bien se retourner dans sa tombe! heureusement qu’il nous a quitté avant la boucherie à Charlie]Lettre ouverte aux culs-bénits, Albin Michel, 1994

    “Voi,

    i cristiani,

    gli ebrei,

    i musulmani,

    i buddisti,

    gli scintoisti,

    gli avventisti,

    i panteisti,

    i testimoni di questo e di quello,

    i satanisti,

    i guru,

    i maghi,

    le streghe,

    i santoni,

    quelli che tagliano la pelle del pistolino ai bambini,

    quelli che cuciono la passerina alle bambine,

    quelli che pregano ginocchioni,

    quelli che pregano a quattro zampe,

    quelli che pregano su una gamba sola,

    quelli che non mangiano questo e quello,

    quelli che si segnano con la destra,

    quelli che si segnano con la sinistra,

    quelli che si votano al Diavolo,

    perché delusi da Dio, quelli che pregano per far piovere,

    quelli che pregano per vincere al lotto,

    quelli che pregano perché non sia Aids,

    quelli che si cibano del loro Dio fatto a rondelle,

    quelli che non pisciano mai controvento,

    quelli che fanno l’elemosina per guadagnarsi il cielo,

    quelli che lapidano il capro espiatorio,

    quelli che sgozzano le pecore,

    quelli che credono di sopravvivere nei loro figli,

    quelli che credono di sopravvivere nelle loro opere,

    quelli che non vogliono discendere dalla scimmia,

    quelli che benedicono gli eserciti,

    quelli che benedicono le battute di caccia,

    quelli che cominceranno a vivere dopo la morte…
    Tutti voi,
    che non potete vivere senza un Babbo Natale e senza un Padre castigatore.

    Tutti voi,
    che non potete sopportare di non essere altro che vermi di terra con un cervello.
    Tutti voi,
    che vi siete fabbricati un dio “perfetto” e “buono” tanto stupido, tanto meschino, tanto sanguinario, tanto geloso, tanto avido di lodi quanto il piu’ stupido, il piu’ meschino, il piu’ sanguinario, il piu’geloso, il più avido di lodi tra voi.
    Voi, oh, tutti voi
    NON ROMPETECI I COGLIONI!

    Fate i vostri salamelecchi nella vostra capanna, chiudete bene la porta e soprattutto non corrompete i nostri ragazzi.
    Non rompeteci i coglioni!»

    Lasciateci in pace, cani!
    François Cavanna (uno dei fondatori di Charlie Hebdo)

  • Fine dei giochi per Vladimir Putin?

    Fine dei giochi per Vladimir Putin?

    Pubblicato il 21 gennaio
    di Mattia Bernardo Bagnoli
    ANSA Magazine
    aMag #66


    Russia 2016

    Fine dei giochi per Vladimir Putin?
    Il 2015 è stato l’anno in cui la Russia è tornata alla ribalta sul grande scacchiere internazionale, contribuendo allo storico accordo sul programma nucleare iraniano e aprendo il “fronte siriano”. Ora, però, il crollo del petrolio rischia di far saltare i conti pubblici. E mentre il governo corre ai ripari lavorando a una spending review lacrime e sangue, a rischiare di più è il piano strategico di apertura a oriente varato dal Cremlino.
    «Bisogna essere onesti, l’era del petrolio è finita e la Russia ha perso la sfida con i propri competitor». È il pomeriggio inoltrato di venerdì 15 gennaio e il Gaidar Forum – la Cernobbio russa, tanto per capirci – si avvia alla conclusione. German Gref si ferma a parlare coi giornalisti e le sue parole rotolano pesanti sui block-notes come massi. Questo cinquantenne di origine tedesca, nato in Kazakistan da una famiglia di deportati, non è un professorone qualunque, esperto di tutto ma responsabile di niente, come molti speaker del Forum. È l’amministratore delegato della Sberbank, la prima banca russa (di Stato), e già ministro allo Sviluppo Economico per 7 anni. Insieme ad Alexei Kudrin è considerato – nel bene e nel male – l’artefice della trasformazione economica della Russia dell’epoca Putin. Insomma, è un uomo del sistema – un sistema che da quando il petrolio ha iniziato la sua picchiata rischia parecchio.

    L’anno nuovo ha infatti portato in dono una sfilza di numeri (negativi) da cardiopalma. «Il bilancio pubblico, così come è concepito, è sostenibile con i prezzi del petrolio a 82 dollari al barile», ha spiegato il ministro delle Finanze Anton Sliuanov. Per il 2016, invece, è stato approntato un budget d’emergenza ipotizzando un prezzo medio di 50 dollari. Peccato che l’oro nero viaggia sotto i 30. Stando così le cose, è emergenza nell’emergenza. Il Cremlino ha ordinato degli stress test tenendo presente tre scenari: inferno (25 dollari), purgatorio (35 dollari) e paradiso – si fa per dire – col prezzo del barile fisso a 45 dollari. Il che consentirebbe di considerare più o meno valido il piano attuale.

    Il rublo però è in caduta libera e ha fatto segnare il minimo storico sia nei confronti dell’euro che del dollaro. L’inflazione galoppa al 12,5%. I salari scendono e la qualità della vita peggiora. I fondi di riserva (la Russia ha due fondi sovrani accumulati negli anni di vacche grasse) iniziano ad essere intaccati e se le cose non cambiano potrebbero esaurirsi nel giro di due anni. Tanto che la Banca Centrale ha raccomandato di spingere sul deficit (fino a un tetto massimo di debito pubblico del 25-30% del Pil) pur di preservarli. Ma a quali tassi?

    Comunque vadano le cose, insomma, nel futuro della Russia s’intravede una sola soluzione: tagli. Pesantissimi. E il rischio non è tanto – o meglio, non solo – di ridurre al lumicino le spese correnti, andando così a erodere il tesoretto di popolarità che circonda lo “zar” Vladimir Putin (e in questo senso le proteste per la spending review sul welfare sono già iniziate). No. Ad essere in bilico è soprattutto il piano di sviluppo che il presidente ha in mente per il futuro del Paese: guardare a Oriente.

    Tornando a Gref. Secondo lui la differenza, in termini di ricchezza, fra chi ce la farà a vincere la sfida dell’economia dei saperi e chi resterà confinato nella serie b dello sviluppo, quella dei paesi «downshifter», che si arrangiano, sarà «superiore a quella registrata durante la rivoluzione industriale». Ma, appunto, per il guru dell’economia russa quella sfida è ormai bella che persa. O forse no? Forse il suo grido d’allarme serve per spronare il presidente a non cedere alle sirene e a procedere dritto senza indugi sulla via della modernizzazione, persino fuori tempo massimo.

    Lo zar un piano in testa ce l’ha.
    Ma forse è troppo tardi.

  • L’idea di modernità o società “liquida”

    L’idea di modernità o società “liquida”

    Con questa idea Bauman illustra l’assenza di qualunque riferimento “solido” per l’uomo di oggi. Con conseguenze ancora tutte da capire

     

    La società liquida

    L’idea di modernità o società “liquida” è dovuta, come è noto, a Zygmunt Bauman. Per chi voglia capire le varie implicazioni di questo concetto può essere utile “Stato di crisi” (Einaudi, 18 euro) dove Bauman e Carlo Bordoni discutono di questo e altri problemi.

    La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta post-moderno (peraltro termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente). Il postmodernismo segnava la crisi delle “grandi narrazioni” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine, si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche. Ma per Bordoni anche il postmodernismo è in fase decrescente. Esso era di carattere temporaneo, ci siamo passati attraverso senza neppure accorgercene, e sarà un giorno studiato come il pre-romanticismo. Serviva a segnalare un avvenimento in corso d’opera, ha rappresentato una sorta di traghetto dalla modernità a un presente ancora senza nome.

    Per Bauman tra le caratteristiche di questo presente in stato nascente si può annoverare la crisi dello Stato (quale libertà decisionale rimane agli stati nazionali di fronte ai poteri delle forze supernazionali?). Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.

    Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle “Bustine”) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).

    Crisi delle ideologie e dei partiti: qualcuno ha detto che questi ultimi sono ormai taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano dei voti, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono – e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi i voltagabbana. Non solo i singoli, ma la società stessa vive in un continuo processo di precarizzazione.

    Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Non lo sappiamo ancora e questo interregno durerà abbastanza a lungo. Bauman osserva come (finita la fede di una salvezza proveniente dall’alto, dallo stato o dalla rivoluzione), sia tipico dell’interregno il movimento d’indignazione. Questi movimenti sanno che cosa non vogliono ma non che cosa vogliono. E vorrei ricordare che uno dei problemi posti dai responsabili dell’ordine pubblico a proposito dei black bloc è che non si riesce più a etichettarli, come poteva avvenire con gli anarchici, coi fascisti, con le brigate rosse. Essi agiscono, ma nessuno sa più quando e in quale direzione. Neppure loro.

    C’è un modo per sopravvivere alla liquidità? C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una “vox clamantis in deserto”.

  • Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Democrazia malata, parla Bauman

    Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Intervista al teorico della “società liquida”

    Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de “l’Espresso” con Bauman per allargarsi però all’attualità politica, dai cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.

    Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?

    «Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo — la facilità, la rapidità, la disintermediazione — porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te.

    Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine — ci si sente connessi con il mondo — e un luogo di “confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole».

    Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia…

    «È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi, certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi sembra che abbiano mai portato a un’estate».

    Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?

    «Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le cause delle proteste antisistema vanno cercate invece nella crisi di fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque centimetri più in là.

    Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli Stati nazionali sono incapaci di gestirla.

    Così oggi i governi sono sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati; dall’altra parte, la realtà globale interdipendente — i mercati, le borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno — impediscono che questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano, ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».

    Di qui nascono i movimenti antisistema?

    «Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».

    E questi sentimenti non si traducono in movimenti?

    «Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa.

    Io la chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose.

    Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».

    Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?

    «Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere. Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”, mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene, “to do things right”. C’è una grande differenza».

    Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?

    «“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini. Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso dispregiativo.

    No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del “populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della democrazia».

    Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?

    «Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

    Oggi i vecchi strumenti non funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora.

    Destra e sinistra erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono molto meno nella complessità policentrica del presente».

    In che cosa consiste questa complessità policentrica?

    «Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano. Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale, dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o “di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti, tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione: oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».

    Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra” come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti sono solo effetti ottici?

    «Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale, il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia, un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno. Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con Tsipras in Grecia».


    (pubblicato in origine su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.i

  • LA SCUOLA DEL FUTURO

    LA SCUOLA DEL FUTURO

    Automated Teachers, Augmented Reality And Floating Chairs

    Three illustrators envision the classroom of the future.

    France in the year 2000 (21st century). Future school (1910). Wikimedia Commons.

    Artists have creatively depicted the future for centuries, from the neo-futuristic visions of Syd Mead (best known for his work on Blade Runner,Alien, and Tron) to Hajime Sorayama, whose brilliant futuristic design forAIBO (a robotic dog developed by Toshitada Doi at Sony) garnered the highest design award in Japan and a spot in the Museum of Modern Art’s (MoMA) permanent collections.

    Depictions of propeller-powered ships once littered the creative sky of pamphlets seeking to depict the future. And now that people (in the U.S at least) spendan average of 444 minutes every day looking at screens, the future we imagine is filled with robots and screens. What will the classroom look like 35 years from now? We invited a few illustrators to reflect on it. Here’s what they came back with.

    Josan Gonzalez

    Sabadell, Spain

    Arobot teacher assists students and guides them through the lessons; they learn more directly (it’s also more practical) using virtual reality headsets to take a trip inside the human body, for example, where they discover anatomy and biology in a pretty amazing way. The possibilities are endless. They learn firsthand about flora, fauna, geography, and so on.

    Using robots as teachers doesn’t necessarily mean replacing the human teachers. Handing part of the teaching process to the machines gives teachers more time to prepare and create educational content, monitor each student’s performance, and adapt lessons to individual learning curves.

    Floating chairs — potentially using quantum levitation — help the students move, tilt, and rotate within the space (while using virtual reality). They also provide better ergonomics and enable monitoring of students’ health and physical condition. Automated teachers and virtual reality make classes more dynamic and fun. Students have individual content that is adapted to their own learning progression instead of having the rigid classrooms of today.


    Tim Beckhardt

    New York, New York

    The Ocunet is a decentralized educational virtual-reality streaming network reaching every participating provider using .edu’s state­-of-­the-­art Panoptic headset. As our expanding civilization reaches new frontiers, the Ocunet delivers a universal knowledge experience through the most immersive technology available today.

    Recycling

    The submerged infrastructure of Earth’s former public-education solutions is repurposed as housing for the vast server network that houses the Ocunet.

    Education

    Teachers have been relieved of the stress of child-behavior management present under previous systems. After receiving certification training, educators can now focus their skills on managing the Ocunet—editing our vast database to keep our students fully immersed in the latest curriculum.

    Security

    As with educators, the administrators of the previous methods now have a position designed to fully utilize their skills. At all times, principals process incoming student data while superintendents vigilantly secure the Ocunet against attacks from outside dissidents.


    Sam Chivers

    Wilmington, United Kingdom

    Technology has already completely reshaped the classroom in recent years, and I think it’s set to continue on this trajectory. Although still in it’s infancy, I think augmented reality (AR)—the overlaying of audio and visual computer-generated information onto real-world environments through wearable technology such as Google Glass—could become a truly powerful teaching aid in years come. It will help make concepts that are fairly theoretical, like the human neural system, much easier to grasp. At the same time, it could be really fun and make the classroom of the future more mobile, flexible, and connected.

    The development of holographic technologies could replace or at the very least complement the electronic blackboard, creating 3-D visualizations, and at some point I think this could interact with AR in interesting ways.

    Some things in the classroom should remain constant. No amount of technology can replace the subtle skills of a great teacher.

    Gif by Chris Phillips for Bright.

    Bright is made possible by funding from the Bill & Melinda Gates Foundation. Bright retains editorial independence. The Creative Commons license applies only to the text of this article. All rights are reserved in the images. If you’d like to reproduce this on your site for noncommercial purposes, please contact us.

  • Sarò una buona madre

    Sarò una buona madre

    Così, questo è ciò che ti insegno, figlia, senza volerti commuovere, nè fare della poesia o della letteratura. Ti scrivo ciò che di più importante ho compreso oggi che ho (quasi) trent’anni, in caso io mi dimentichi di poter essere una buona madre per te e i tuoi fratelli e perché tu possa almeno avere una direzione — prima che io ti lasci allo sbaraglio in questo pazzo mondo — dove tu possa farti male per essere intelligente poi. Sentimentalmente intelligente, emotivamente intelligente, professionalmente intelligente, socialmente intelligente, caratterialmente intelligente. Non troppo però, non c’è niente di più eccezionale che essere imperfettamente umani.

    Leggi. Sempre. Tutto. Leggi Philip Roth, Anaïs Nin, Marguerite Duras, Henry Miller, William S. Burroughs e i beat, i foglietti illustrativi dei farmaci, Paul Auster, J.G. Ballard, Simone de Beauvoir, i biglietti del cinema, il The New Yorker, Francis Scott Fitzgerald, Jane Austen, Emily Brontë, le pubblicità sull’autobus, Haruki Murakami, George Orwell, David Foster Wallace, il catalogo Ikea, Walt Whitman, Sylvia Plath, la Bibbia, gli scontrini soprattutto. Leggi qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa ti sarà maestra e ti ritornerà utile in futuro, senza che tu te ne accorga. Poi scegli, fallo con cura, decidi ciò che deve restare, per formarti. In futuro, sarai anche ciò che hai letto.

    La Bibbia è il romanzo di maggior successo nella storia dell’umanità e, come spesso accade in questi casi, attorno al libro si è andata formando una fandom di circa due miliardi e mezzo di persone, chiamate “fedeli”. Condividere una passione con un gruppo è eccitante e arricchisce, ma vacci cauta: si può cadere vittime di indottrinamenti pericolosi, alienanti e folli, come è accaduto nel caso della Bibbia.

    Dio esiste. Non è una persona, non è un’entità astratta comodamente appollaiata su una nuvola di ovatta. È qualsiasi cosa in cui decidi di credere e che ti riempie il cuore e l’anima, che ti dà la forza per vivere con passione ogni nuovo giorno. Sei tu a scegliere che forma dare a quel qualcosa. Non chiamarlo Dio — è rischioso dare un nome a ciò in cui credi — e non confonderlo con la religione nel senso più stretto del termine. Quello che voglio dire è che ciò in cui credi è la tua religione. Frank Lloyd Wright, l’architetto, credeva nella Natura: la Natura era il suo Dio, la sua religione, la sua Chiesa. È a questo che mi riferisco.

    Scrivi ogni giorno. Non perché tu debba diventare una scrittrice o perché qualcuno ti legga. Scrivi per te stessa, anche se pensi di non saperlo fare. Ti aiuta a raccogliere i pensieri, a tenerti insieme, a comprendere, a eliminare le scorie. Scrivere è illuminante e purificante.

    Non restare impaludato nelle amicizie dei tuoi primi diciannove anni — soprattutto se quelle stesse amicizie sono rimaste impaludate entro i confini del quartiere. Mantienile, annaffiale con la giusta quantità di acqua, sono una parte importante della tua crescita, dei tuoi ricordi di infanzia. Ma tu evolvi giorno dopo giorno, basta un niente per farti cambiare improvvisamente, succede nei tuoi modi e nei tuoi tempi. Cerca di non soffrire troppo se cambiando sei sempre più lontana da chi un tempo ti era così vicino. Scegli le persone che vuoi nella tua vita, non adattarti a quelle che hai comodamente trovato in classe il primo giorno di scuola.

    Stai all’erta sulle tue sensazioni. Ti dicono tutto ciò che ti serve sapere per fare le scelte giuste. La più piccola vibrazione negativa in compagnia di qualcuno nascone un messaggio chiaro: allontanatene.

    L’amicizia vera è cosa rara. Ci vuole tempo, impegno, fatica, sforzi, sincerità, sacrifici. Si tratta semplicemente di una forma di amore. Un giorno l’amicizia è tutto ciò che avrai. Diffida di chi ha tanti amici. Quattro o cinque, veri. L’amicizia è sapere di ferire per fare del bene, è correre a casa sua nel pieno della notte di un martedì stressante, solo perché piange.

    L’amicizia con un uomo è possibile. L’amicizia con una donna è complessa, difficile, vulnerabile e necessaria. Può raggiungere lo stato di amore platonico: se lo fa, non lasciarla più andare.

    Non tentare di cambiare le persone, non è compito tuo ed è ingiusto. Se qualcuno non ti piace, non dovrebbe far parte della tua vita.

    Seleziona.

    Sperimenta ogni cosa, tranne le droghe. Non ne ricaverai niente di buono. Rischierai solo la tua salute — mentale e fisica — e potresti realmente rovinarti la vita. Quando si è dentro, non si smette quando si vuole, sempre che si riesca anche solo ad ammettere di dover smettere. Nel migliore dei casi, resti segnata: dentro, fuori, nei ricordi, nei tuoi occhi. È qualcosa di cui non ti libererai mai. Erba buona, un paio di volte l’anno, sì, se ti fa sentire bene.

    Non fumare. Non provarci neanche. È orribile, ed è il vizio dei deboli. I tuoi polmoni si carbonizzanno, la tua pelle invecchia molto più velocemente, i tuoi denti e i tuoi polpastrelli ingialliscono, baciarti è come baciare un posacenere, i capelli si indeboliscono. Spendi un sacco di soldi per il gusto di bruciarli, bruciare il tuo corpo e avere la falsa impressione di apparire agli occhi degli altri più affascinante o vissuta. Non lasciare che qualcosa ti renda schiava. Se hai bisogno di sfogarti, scegli uno sport o un hobby che ti liberino dallo stress, dalla rabbia, dal nervoso. Bevi un bicchiere di vino o due dita di buon whisky. Se hai fame, mangia. Cioccolato. Fondente. Non fa venire i brufoli, né fa ingrassare. Ingrassi solo esagerando, e i brufoli appaiono per tutta un’altra serie di questioni che non hanno a che vedere con il cibo. Fumare è un atto di autolesionismo, niente più né meno di un taglio sul corpo: ci si procura un consapevole danno fisico per sentirsi momentaneamente meglio. Ma la società è una grande contraddizione e le sue incoerenze sono all’ombra di ogni angolo.

    Innamorati, costantemente, di chiunque ti blocchi il respiro solo standoti accanto. Anche se fosse gay — qual sofferenza!. Innamorati ogni giorno, ma non amare prima che tu compia trent’anni. L’amore non è un’emozione, è molto più terreno di quanto tu possa credere. Non amare prima che tu compia trent’anni perché fino ad allora voglio per te emozioni. Vibra e vola insieme alle farfalle nello stomaco. Non si chiamano farfalle solo per quella sensazione di ali sbattute che senti all’altezza dell’ombelico, ma perché vivendo un solo giorno, sono effimere come le emozioni. L’amore, invece, non è temporaneo, bensì eterno. Eppure ti emoziona, lo fa così intensamente che ti sembra di non poter sopravvivere a tanta forza.

    Non idealizzare la persona che scegli di amare. Soprattutto, non lasciare che sia lei a idealizzarti. Le conseguenze potrebbero essere distruttive. All’inizio è facile cadere nella trappola della mitizzazione, è uno stadio, quello iniziale, in cui le imperfezioni dell’altro vengono estremamente polarizzate: o non sopporti il più piccolo neo e la storia si chiude prima di iniziare, o di nei non ne vedi l’ombra, e in men che non si dica sei intrappolata nell’idealizzazione. Mostra le tue debolezze, ti serve coraggio per farlo, per denudarti e lasciare che proprio quella persona per la quale vuoi essere perfetta ti riconosca invece come umana. Se con gli anni continua ad accetterti e sceglie di amarti nonostante la tua vulnerabilità, le tue carenze, le tue ossessioni e le tue mancanze, allora stai costruendo qualcosa di grandioso. Cerca di comprenderlo strada facendo, però.

    L’amore è una scelta, un impegno, spesso un obbligo, è compromessi, è abitudine, è accettazione, è sacrifici, è difficoltà da affrontare e problemi da risolvere, è incondizionato, è dare senza ricevere, è amare la vostra routine. Non sono cinica, ho combattuto a lungo in passato per allontanare tutta la dolcezza e la tenerezza che invece possiedo. Ma so di cosa parlo. Ti prometto che sarà bellissimo così, proprio così come l’ho descritto. Amare è sentire di tornare a casa. Non ti ho detto tutto dell’amore, le parole non gli darebbero giustizia e voglio che la parte migliore resti per te una sorpresa, voglio che sia tu a scoprirlo. L’amore e la salute sono tutto ciò che sogno per te.

    La tua anima gemella potrebbe non essere la persona con cui decidi di costruire una famiglia e che scegli di amare fino alla fine dei tuoi giorni. Lo sarà ugualmente, ma a un livello differente. Come due binari che non si incontrano mai. Forse dovrei spiegarti meglio di cosa sto parlando, ma in questo momento sono troppo coinvolta per darti chiarezza.

    Amare qualcuno del sesso opposto o dello stesso sesso non fa alcuna differenza. La sola cosa che ha importanza è come amiamo, non chi amiamo. In qualunque modo tu senta di dover vivere l’amore, la sessualità e il tuo corpo, è del tutto normale e avrai sempre il mio sostegno.

    Se senti da sempre di essere nata nel corpo sbagliato, cambia il tuo corpo. Diventa uomo. Diventa ciò che sei.

    Non controllare le chilocalorie sulle confezioni degli alimenti, non ha molta utilità. Leggi piuttosto gli ingredienti — ricorda che sono in ordine di quantità — la provenienza della materia prima e la data di scadenza. Mangiare è uno dei piaceri della vita, un piacere inestimabile, e non dovresti davvero rinunciare a niente, almeno per la prima fetta della tua vita. Conosci le tradizioni delle cucine di tutto il mondo, sperimenta, leggi Afrodita di Isabel Allende, godi di cene abbondanti con persone speciali in luoghi che, pur non essendolo, diventeranno tali. Ma ricorda anche che tutto ciò che introduci nel tuo corpo avrà conseguenze — positive o negative — sulla tua salute.

    Osserva. Sempre, tutto. Percepisci anche l’impercepibile.

    Il dolore che provi nel corso della tua vita — non causato da eventi naturali ma dalle azioni delle persone che ami — non è mai realmente provocato da loro, dalla loro cattiveria, immaturità, falsità o ipocrisia. È causato da te stessa. Sei tu a creare la tua stessa realtà. Sono le aspettative che tu hai creato, e riposto in quelle persone, a farti sentire quel dolore disumano. Aspettative che vengono deluse, progetti che sono distrutti, sogni che non puoi più sognare e non riesci più a sognare. Non mettere la tua vita nelle mani di qualun altro. (C’è chi cantava di non mettere la tua vita nelle mani di una band rock’n’roll, ma penso sarebbe molto più saggio. Anzi, sii una groupie per un po’, ma fallo prima dei 24 anni).

    Fai della musica la tua compagna di vita. Portala sempre con te, affidati totalmente a essa, lasciala entrare, lascia che ti sconvolga, che ti riempia, che ti insegni, che ti aiuti, che ti faccia vedere l’invisibile, ricordare il dimenticato e sognare l’inatteso. Vai ai concerti. Inizia dal blues degli afroamericani e da Billie Holiday, poi passa al rock’n’roll, al folk, all’art rock e al rock sperimentale. Prenditi una pausa con del ragtime. Riprendi con il glam rock, prosegui con la new wave, poi l’elettronica tedesca, il post-punk, il rock alternativo, il brit pop, l’indie rock. Inizia con i pionieri di questi generi musicali. Quando sei completa, dedica del tempo all’electropop, al synthpop, alla new romantic, al pop e all’hip hop degli anni ‘90, senza dimenticare la musica dei tuoi tempi: dai importanza alla tua cultura generale, ma lasciala nell’ombra. Ti servirà per trovare i collegamenti.

    I collegamenti sono ciò che di più utile hai a disposizione per creare la tua cultura personale. Parti da un punto e percorri ogni strada che da lì si diparte, portandoti in terre sconosciute. Continua così, segui i collegamenti e godi dell’emozione di quando tutto inizia a prendere forma.

    Non puoi controllare ogni cosa ed è proprio ciò che non puoi controllare che ha un’influenza maggiore sulla tua vita. Accettalo, fa parte dell’essere umani viventi e pensanti.

    La vita offre doni incredibili, ma è anche una serie di problemi da affrontare: risolto uno, ne arriva un altro. Un ciclo interminabile. Non lasciarti scoraggiare, affrontali. Con gli anni ti renderai conto che è solo grazie alle difficoltà se hai le spalle larghe e hai trovato il tuo equilibrio.

    Intorno ai 25 anni partecipa al festival di Glastonbury, al Coachella e al Burning Man. Rifallo intorno ai 35 anni.

    Viaggia. Viaggia, ti prego, fallo. Scopri il mondo, le sue genti e le sue culture, lasciati affascinare e incantare, fatti togliere il respiro, trova la libertà, ascolta storie e poi raccontale, accumula memorie e immagini di terre e visi. Sei vuoi arricchirti, viaggia. Viaggia anche da sola, non so se ci sia qualcosa di altrettanto arricchente. Studia all’estero: comporta sacrifici e difficoltà, ma è una delle scelte migliori che tu possa prendere nella tua vita.

    Non stabilirti in una città prima del tempo. Vivi in almeno tre grandi metropoli del mondo e, se ti è possibile, vivi per un po’ in campagna.

    Vivi da sola per qualche anno prima di condividere una casa con la persona che ami.

    Investi nella tua cultura cinematografica. Se riesci, guarda almeno un film al giorno.

    Non lasciarti corrompere, mai, per nessun motivo. Non venderti, per niente e per nessuno. Non contrarre debiti. Non prestare soldi, e se il tuo cuore ti spinge a farlo, offrili in dono. Sii sempre onestà e sincera, con chiunque. Fallo con educazione e riguardo nei confronti dei sentimenti altrui.

    Sii educata.

    Non allontanarti mai troppo dalla natura. Solo nella natura respiri davvero e puoi sentirti libera. È come tornare in contatto con ogni parte di te dalla quale ti sei disconnessa. Non stare mai più di sei mesi senza vedere il mare — il mare di inverno emoziona incredibilmente. Non stare più di sei mesi lontana dalla montagna, dalle sue pinete, dai suoi cieli, dalla sua vastità. Passeggia nei boschi vicino casa. Siediti in un campo per un pic-nic improvvisato, da sola con un libro o con qualcuno che ami.

    Impara a fare sacrifici e a non ottenere sempre tutto ciò che vuoi.

    I genitori sbagliano, moltissimo, convinti di fare la cosa giusta.

    Sfogati. Se non lo fai, puoi rovinare te stessa e chi ami. Non tenere nulla dentro di te — solo gli sfiziosi innocui segreti. Parlamene, o parlane con tuo padre o cerca entrambi. Parlane con una persona che reputi fidata, ma ricorda che di me e di tuo padre puoi sempre fidarti, puoi appoggiarti a noi senza esitazioni. Non c’è argomento, questione o problema di cui tu non possa parlarci. Ma sei tu a mettere insieme i pezzi, tirare le somme e scegliere indipendentemente.

    Pensare costantemente al passato ti conduce alla depressione. Pensare costantemente al futuro scatena in te un’ansia divoratrice. Concentrati sul presente, non hai nient’altro che il presente.

    Ricorda ciò che di buono e bello gli altri hanno fatto, perché è più facile dimenticarlo per ricordare solo i loro errori e le loro mancanze. Questo succederà anche nei tuoi confronti: non soffrire, non arrabbiarti, piuttosto parlane con gentilezza e ricorda loro come stanno realmente le cose.

    Ascolta. Non limitarti a sentire. Ascolta chi ti sta parlando, se hai a cuore quella persona.

    Non truccarti prima dei sedici anni. Non essere mai volgare.

    La realtà è personale e fittizia, esiste solo in relazione al pensiero umano e c’è molto poco di oggettivo. Ciò che credi, vedi e reputi reale, è frutto delle tue impressioni. Ma non c’è mai una sola prospettiva, i punti di vista sono tanti quante sono le persone. Accetta anche quelli degli altri e metti in discussione i tuoi, solo così arrivi alla giusta risposta.

    Amati, così come sei. Non per questo non devi migliorare giorno dopo giorno. Non appoggiarti mai alla frase e al pensiero: “Sono fatta così”, per giustificare i tuoi errori agli occhi di chi hai ferito.

    Non ferire nessuno. Se accade, chiedi perdono e parla, dai spiegazioni che non siano giustificazioni. Non c’è giustificazione al dolore provocato negli altri.

    Credi sempre fermamente in ciò che fai e dai tutta te stessa. Sii determinata. Credici soprattutto quando tutti intorno a te ti dicono che sei pazza a farlo. Credici quando sostengono che non ti può portare da nessuna parte, che se nessuno l’ha fatto prima di te o non c’è riuscito o l’ha già fatto nel migliore dei modi, è inutile che tu perda tempo, perché fallirai. Se dovessi fallire, non sarà stato inutile e avrai imparato molto: a rialzarti, ad avere determinazione, a non arrenderti, ai motivi per cui non ha funzionato. Capirai anche chi sono le persone che ti hanno sostenuta, e potrai fare a meno di tutte le altre.

    Scopri le città a piedi o in bicicletta. I tuoi occhi e la tua testa possono girare: in alto, in basso, a destra, a sinistra. Muovili, solo così vedi cose che altrimenti non vedresti.

    Sii paziente. Le cose grandiose richiedono tempo. Non scalpitare per raggiungere obiettivi che non possono essere raggiunti se non passo dopo passo, giorno dopo giorno. Se non sai essere paziente, ti abbatti e rinunci.

    Non restare mai senza uno scopo. In ogni stadio della tua vita, abbi qualcosa da raggiungere: un obiettivo professionale, l’instaurarsi di una nuova abitudine, l’abbandono di un vizio, la costruzione di un amore, la risoluzione di un problema… Non restare con le mani in mano aspettando che ciò che desideri cada dal cielo, perché non accadrà. Ragiona, programma, agisci. Non vivere senza passione.

    Studia uno strumento musicale. Non lasciarti scoraggiare dallo studio della teoria e del solfeggio. Accetta e impara le parti noiose, in ogni cosa che fai.

    Fai della tua più grande passione il tuo lavoro. Alzati dal letto ogni mattina con l’entusiasmo di iniziare un nuovo giorno. Anche se ami ciò che ti dà da vivere, non farne la tua vita. Vivere non è lavorare. Lascia spazio per passeggiare, per gli amici, per la famiglia, per un bagno caldo, per preparare una buona cena, per impastare biscotti, e anche per il dolce far niente. Impara a rilassarti.

    Se sarai a capo di un team di persone, ricorda che un grande capo si fa rispettare, ma non mette timore. Un grande capo prima di tutto rispetta e non sottomette. Dovrebbe anche insegnare. Le persone che lavorano per te hanno una vita privata: famiglia, figli, genitori, amici, passioni, problemi, dispiaceri, malattie. Lavora solo con persone di cui ti puoi fidare e non controllarle costantemente, piuttosto chiedi loro di portarti i risultati richiesti e lasciale libere di gestire il proprio tempo come meglio credano. Se ti portano risultati migliori lavorando al parco, lasciali lavorare al parco.

    Non usare l’inganno per raggiungere i tuoi obiettivi.

    Non essere egocentrica, presuntuosa e saccente, anche nelle occasioni in cui sei sicura di saperne più degli altri. Trova il modo di esprimere la tua conoscenza con umiltà. Non devi mai mancare di umiltà, ma credi sempre in te stessa. Forse ti appare come una contraddizione, non lo è, lo capirai.

    Non farti mettere i piedi in testa.

    Fai volontariato.

    Non sorprenderti di parlare più liberamente e profondamente con qualcuno che hai appena conosciuto, o che non conosci affatto. Spesso è così che nascono grandi storie.

    Sbaglia. Se non vuoi farlo, sbaglierai comunque. Fa parte della natura umana, non prendertela con te stessa. Non cercare la perfezione e non cercarla negli altri. Se qualcuno la pretende da te — e non mi riferisco alla perfezione di un lavoro che deve essere tale — quella persona non dovrebbe far parte della tua vita. Impara dai tuoi errori, perché se non lo fai, allora sì, prenditela con te stessa, ma perdonati e vai avanti.

    Piangi.


    Elena Brenna (@_elenabrenna) è una scrittrice ed ex fotografa. Nel 2012 ha co-fondato, e co-diretto fino al 2015, il primo quotidiano online internazionale per gli italiani a Berlino, Il Mitte. Oggi lavora come content manager & strategist per un’agenzia di comunicazione, ha pubblicato indipendentemente il suo primo romanzo, Agnes, e ha fondato il sito web Spunti Di Mezzanotte, di cui è curatrice. La causa LGBT ce l’ha nel cuore.

  • Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Ho spedito così tanti curriculum nella mia vita, e ho ricevuto così poche risposte, che una volta diventata direttore mi sono fatta una promessa: avrei sempre risposto a tutti (anche se con un ritardo medio di 30–40 giorni).

    Faticosamente porto avanti il mio impegno.

    E… deve essersi sparsa la voce (quella lì risponde!), o semplicemente è lo specchio dei tempi: da anni, la mia casella email è destinataria dei sogni di centinaia e centinaia di persone.

    Un popolo variegato, da cui sono emersi i miei più fidati collaboratori, e che mi ha fatto scoprire una grande verità:

    Rispondere a un’autocandidatura è doveroso. Ma è altrettanto doveroso autocandidarsi in maniera efficace.

    Ecco dunque una lista semiseria delle cose da fare (e non fare) quando si manda un curriculum.

    Tutti gli esempi che leggerete sono email realmente ricevute: ho solo reso irriconoscibili i mittenti. Che spero non se ne abbiano a male se li ho usati come esempio in questo excursus sulla difficile arte di farsi ascoltare.

    Partiamo dai fondamentali:

    1) Mai farsi precedere dal proprio cognome:

    «Sono Antonelli Giorgia».

    Specie se il cognome assomiglia vagamente a un nome: la risposta in tal caso rischia di essere: «Cara Antonella…»

    2) Cercare, nei limiti del possibile, di non sbagliare il nome del destinatario, e soprattutto di non confondere la sua azienda con il principale competitor.

    Una volta, una ragazza era partita proprio bene:

    «Gentile signora Monfreda. Leggo sempre con piacere il vostro giornale perché mi fa sognare».

    Ma poi ha pensato di concludere così:

    «Sarebbe per me un’immensa gioia vedere pubblicate le mie poesie su un giornale famosissimo come Vanity Fair».

    3) Evitare i modelli di lettere reimpostati, se non si vuol rischiare un effetto così:

    «Buongiorno, desidero presentarVi la mia autocandidatura presso la Vostra Azienda. Allego per cui una lettera di presentazione e il mio Curriculum Vitae, nella speranza che le mie competenze possano rispondere alle esigenze della Vostra Azienda. Cordialmente».

    4) L’autopromozione è fondamentale. Bisogna essere i primi sponsor di se stessi. Ma senza esagerare.

    Il rischio è di sentirsi rispondere: “posso mandarglielo io il curriculum?” Come ho fatto io, scherzosamente, al mittente di questa email:

    «Essendo medico, specialista in medicina fisica e riabilitazione, specialista in igiene e medicina preventiva, docente universitario attualmente presso gli Atenei di Pinco e Pallino, e collaborando con molte delle più qualificate riviste tecniche del settore…»

    5) D’altra parte non bisogna neppure buttarsi giù:

    «Sono una giornalista ma mi adatto a qualsiasi ruolo»

    Tantomeno mettersi ai saldi:

    «Il motivo per cui le arreco questo disturbo è che, se lo ritenesse opportuno, desidererei, davvero fortemente, collaborare con la rivista Donna Moderna, anche gratuitamente».

    ***

    Ma allora, una buona volta, cosa si deve fare?

    Tanto per cominciare:

    1) Il miglior consiglio per mandare un curriculum è… non mandarlo. Ebbene sì, lo ammetto: ho aperto raramente l’allegato a una mail così congegnata

    Buongiorno Direttore, mi permetto di inviarle il mio curriculum. Qui ne trova una versione online. Spero di cuore in una sua risposta, per ora la ringrazio molto.

    Quel freddo elenco di competenze, miste a pezzi di vita stile telegramma, non è di facile lettura. Meglio raccontarsi con una bella lettera e allegare il cv per ulteriori approfondimenti.

    C’è gente che dice: ho mandato 100 curriculum, neanche una risposta.

    Io controbatto: per inviare un curriculum ti basta un clic. Per leggerlo ed elaborare una risposta sensata occorre almeno un quarto d’ora: lo faccio solo quando sento che c’è stato altrettanto impegno dall’altra parte.

    2) Dimostrare di conoscere a fondo l’azienda per cui ci si candida e i suoi brand. Possibilmente dicendo cose intelligenti.

    Leggo Donna Moderna praticamente sin dalla sua nascita: mia madre, divoratrice di giornali, è stata una delle vostre prime lettrici, e da anni continua ad acquistarvi: ha sempre detto che il vostro è un femminile è stato rivoluzionario, perché per la prima volta ha saputo parlare di donne vere e di cose concrete. Anche il mio lavoro è fatto di cose concrete: da circa 10 anni […]. Mi piacerebbe collaborare con voi, inviandovi proposte di articoli. Vi allego per questo il mio curriculum, e vi chiedo, qualora siate aperti a nuove collaborazioni, a chi di voi posso inviare le mie proposte.

    Chapeau!

    3) Farsi notare, ma senza fuochi d’artificio.

    A volte basta una parola messa lì senza automatismi a svelarti una mente brillante e intelligente… Come una certa fanciulla che un giorno mi scrisse:

    Gentile direttore Monfreda, mi presento. Mi chiamo Lucrezia, ho diciamo trent’anni […]

    4) Per finire, la regola aurea. Presentarsi con la forza delle proprie idee.

    “Il miglior curriculum sono le idee” è una delle lezioni che ho imparato nella mia lunga carriera di inviatrice di autocandidature (e lo spiego qui verso il minuto 2′ 20”).

    Ecco perché ho adorato queste email di presentazione:

    Gentile Annalisa, le scrivo perché è da tempo che ho un’idea in testa: unire insieme libri ed erbe aromatiche.

    Gent.le Direttore, contando sul fatto che una delle doti di un buon giornalista è la sintesi, vado subito al punto: sono una giornalista professionista, mi sono occupata principalmente di cronaca e costume, e vorrei collaborare con Donna Moderna. Qui di seguito alcune proposte e, in allegato, il mio curriculum-vitae.

    Buonasera direttore, mi chiamo Tizio e Caio, sono una giornalista professionista di 33 anni, vivo a Cesenatico. Vorrei proporle alcuni articoli pensando che possano essere d’interesse per il vostro prodotto editoriale, del quale sono un’affezionata lettrice.

    A questo punto ho lanciato la palla: sono pronta non solo a ricevere i vostri curriculum ma a chiacchierare con voi di come scriverli in modo efficace! Forza, fatevi avanti…