Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.
All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone
Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.
Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.
Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.
Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.
In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.
Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.
«Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione inviaORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».
Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.
Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.
Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.
« All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»
Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.
Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.
A venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.
Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.
Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.
Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!
Wikipedia.com è live dal 15 gennaio 2001 — oggi è .org. Sono passati 15 anni da quando Jimmy Wales e Larry Sanger lanciarono ufficialmente il sito, nato dopo una serie di esperienze a cavallo tra il mondo delle directory, delle dotcom e di Nupedia, la prima versione del progetto di Wales di creare un’enciclopedia online, che ancora manteneva nel nome il legame con il progetto GNU e il mondo Linus. Galeotto fu poi l’incontro con Ward Cunningham, il creatore di “wiki”, ossia la tecnologia che permette a chiunque di creare o modificare liberamente qualsiasi pagina di un sito web.
Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia
“Immaginate un mondo in cui chiunque può avere libero accesso a tutto il patrimonio della conoscenza umana. Questo è il nostro scopo.” (Jimmy Wales)
Curiosità: la prima voce creata sul nuovo sito riguardava la lettera “U”, origini, storia e significato della ventunesima lettera dell’alfabeto inglese.
Jimmy Wales, a tutti gli effetti riconosciuto come il fondatore di Wikipedia, la definisce come “un’enciclopedia multilingue, redatta da autori volontari e, cosa ancor più importante, sottoposta a libera licenza.”
La linea editoriale, se così si può chiamare, è quella del Neutral Point Of View,NPOV, che “cerca di presentare idee e fatti in modo da mettere d’accordo sostenitori e detrattori”. Può sembrare ovvio o banale per un’enciclopedia, ma risponde a una forte domanda di contenuti imparziali e attendibili, merce rara oggi come agli albori della rete.
Ma quello che veramente definisce Wikipedia, quello che ci fa capire la sua straordinaria rivoluzione, è il lavoro dei wikipediani.
“Wikipedia non è affatto un’innovazione tecnologica: è un’innovazione sociale.” (Andrew Lih)
La cultura hacker e il modello open-editing
Perché fosse possibile un’enciclopedia libera, aperta, neutrale e tempestiva — tempestiva nel catalogare ogni avvenimento non appena se ne abbia notizia, punto di forza cruciale per il successo dell’operazione — è stato fondamentale il radicamento di Wikipedia nella cultura hacker.
Il principio per cui la condivisione del know-how fra pari produce innovazione per tutti si traduce in quello per cui la condivisione libera del sapere è alla base dell’aumento della conoscenza umana.
Nell’etica hacker il presupposto della condivisione è l’apertura, intesa come un vero e proprio metodo per ispezionare il lavoro altrui al fine di apprezzarlo, di acquisire nuove conoscenze, di mettersi alla prova, di collaborare, di migliorarlo nell’interesse di tutti.
È esattamente questo il metodo alla base del funzionamento di Wikipedia: il sito permette a chiunque di intervenire e modificare ogni voce, quindi ogni azione può essere facilmente annullata dagli altri membri della comunità.
In questo sistema, risulta più facile correggere gli errori piuttosto che “punire” chi sbaglia, si crea quindi un’asimmetria che premia i membri della comunità più produttivi e collaborativi, contro troll e vandali di varia natura, senza limitare la libertà di nessuno.
“Sono più necessari i partecipanti delle regole.” ( Larry Sanger)
Lo dimostra la regola IAR, Ignore All Rules, introdotta da Larry Sanger: “se le regole ti rendono nervoso e demoralizzato, e non desideroso di partecipare al wiki, allora ignorale e torna al tuo lavoro.”
Proprio da questa cultura nascono i due famosi mantra di Wikipedia: “Be Bold” e “So Fix it”, ormai stampati sulle t-shirt da nerd di tutto il mondo.
Be Bold
“Si cerchi dunque di non essere timidi nel modificare le voci, perché il piacere di contribuire non richiede per forza di raggiungere la perfezione, nonostante questa sia l’obiettivo ultimo dell’enciclopedia. Non ci si preoccupi eccessivamente di combinare eventuali pasticci: tutte le versioni precedenti di una voce vengono salvate, per cui è impossibile danneggiare Wikipedia in maniera irreparabile. Ma ci si ricordi che, allo stesso modo, tutto ciò che si scrive sarà conservato per i posteri.” (Wikipedia)
Nella cultura di Wikipedia anche solo un abbozzo di voce rappresenta un stimolo e un incitamento che serve a far intervenire altri contributori, per espandere e migliorare la voce stessa.
“Be Bold”, “sii audace”, non è quindi un incoraggiamento generico, ma il motore individuale capace di generare un effetto a catena positivo per la comunità.
“Il termine stigmergia è stato coniato da Pierre-Paul Grasse per descrivere come le vespe e le termiti costruiscono strutture complesse lavorando in modo collettivo; come osserva Istvan Karsai, il termine descrive la situazione in cui è il risultato di un lavoro precedente, piuttosto che la comunicazione diretta fra i costruttori, a spingere [e a dirigere] le vespe nell’esecuzione di un lavoro successivo.”
Secondo Andrew Lih, esperto di Wikipedia e della censura di Internet nella Repubblica Popolare Cinese, questo meccanismo di comunicazione implicita che avviene modificando il proprio ambiente è un modello abbastanza utile per descrivere Wikipedia, intesa come una colonia virtuale di formiche. Il sito non avrebbe potuto crescere così rapidamente senza che si fosse provveduto a combinare in modo efficace l’effetto stigmergico, basato sulla registrazione delle modifiche nell’ambiente, con i canali di comunicazione esplicita.
So Fix It
Wikipedia nasce agli albori del web 2.0, quando i contenuti della rete iniziano ad essere prodotti direttamente dagli utenti. Questo creava un po’ di sconcerto ai primi, nuovi utenti di Wikipedia, che spesso chiedevano ai membri più anziani di fare delle modifiche senza rendersi conto di poterle fare in prima persona. È nato così il tormentone del “sofixit” (“allora aggiustalo”), in risposta alle prime ingenue domande dei newbie, ma ha finito per rappresentare la prassi per cui all’interno della comunità ci si debba sporcare le mani in prima persona, senza rimanere in attesa di soluzioni elaborate.
Come si dice, se non sei parte della soluzione sei parte del problema.
La rivoluzione di Wikipedia
Come si definisce e s’identifica un esperto? Che cosa merita di finire in un’enciclopedia? Che cosa spinge i wikipediani a lavorare sodo su un progetto gratuito? Che cosa è rimasto del progetto originale e come si è evoluto?
Per rispondere a queste e a molte altre domande, ma anche solo per leggere un bel libro, La rivoluzione di Wikipedia di Andrew Lih, Codice Edizioni, 2010.
Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?
Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.
A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?
In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti
Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.
Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.
Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione
Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.
Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.
La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità
In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.
Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.
Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.