Autore: panfoli

  • “Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto” (di Oleg Orlov)

    “Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto” (di Oleg Orlov)

    Le forze oscure che, dopo il crollo dell’impero sovietico, sognavano una rivincita totale e a poco a poco si impadronivano della Russia negli ultimi mesi hanno festeggiato la propria vittoria. Questa guerra ha consegnato l’intero paese nelle loro mani

    24 Dicembre 2022 alle 11:36


    Memorial Italia pubblica il seguente testo di Oleg Orlov,
     copresidente del Centro per i diritti umani Memorial, vincitore nel 2022 del Nobel per la pace. Il testo originale è stato pubblicato dal blog Mediapart che ringraziamo per la concessione dei diritti. La traduzione è di Luisa Doplicher. Scritto un mese prima che Memorial ricevesse il Nobel per la pace, da Mosca Oleg Orlov, dissidente russo e copresidente del Centro dei diritti umani Memorial, descrive in questo testo una Russia in cui le persone sono ridotte a zombie e dove la propaganda di stato, negando l’esistenza stessa del popolo ucraino e della sua cultura, presenta i chiari sintomi del fascismo. Questo testo è il primo di una serie nata dalla collaborazione tra il Club de Mediapart e una rete di dissidenti della Russia attuale.

    La guerra sanguinosa scatenata in Ucraina dal regime di Putin non si limita a perpetrare l’assassinio di massa degli abitanti e la distruzione delle infrastrutture, dell’economia e della cultura di quel paese meraviglioso. E nemmeno si tratta soltanto della violazione delle basi stesse del diritto internazionale.

    È anche un duro colpo al futuro della Russia.

    Le forze oscure che, dopo il crollo dell’impero sovietico, sognavano una rivincita totale e a poco a poco si impadronivano della Russia – quelle che mai si stancavano di soffocare la libertà di espressione, di reprimere la società civile e di annientare un sistema giudiziario indipendente – negli ultimi mesi hanno festeggiato la propria vittoria.

    Vi potreste chiedere: ma quale vittoria? Dopotutto, sui fronti dell’Ucraina le cose non vanno affatto bene per le truppe russe. È vero, ma all’interno della Russia quelle stesse forze hanno vinto definitivamente.

    Questa guerra ha consegnato l’intero paese nelle loro mani. Da molto tempo volevano scrollarsi di dosso ogni freno. Non auspicano il ritorno del sistema comunista, benché qualcuno di loro si dichiari favorevole. Apprezzano il sistema ibrido che si è instaurato in Russia negli ultimi vent’anni: per metà feudalesimo e per metà capitalismo di stato corrotto fino al midollo. Eppure, mancava ancora qualcosa…

    Che cosa? L’impressione che il sistema fosse concluso. Adesso lo è. Adesso possono proclamare apertamente e senza vergogna: “Un popolo, un impero, un capo!”. Senza la minima vergogna.

    In breve, volevano il fascismo e l’hanno ottenuto.

    Il paese che trent’anni fa aveva preso le distanze dal totalitarismo comunista è ripiombato in un altro totalitarismo, quello ormai fascista.

    Molte persone non sono d’accordo con me: “Ma dove lo vedi, il fascismo?”. Dov’è il partito di massa che ha fondato il sistema ed è superiore allo stato stesso? Ti sembra che Russia Unita (il partito di Putin, N.d.R.), una banda di burocrati, possa somigliargli? E dove sono le organizzazioni di massa che inquadrano tutti i giovani?

    Per prima cosa, le iniziative per ridurre i giovani a zombie e creare organizzazioni che li inquadrino ideologicamente non battono sicuramente la fiacca. Inoltre, il fascismo non è soltanto l’Italia di Mussolini o la Germania nazista (tra l’altro, oggi in Russia è prassi comune contrapporre il fascismo «buono» al nazismo «cattivo»); ci furono anche l’Austria prima dell’Anschluss, la Spagna di Franco e il Portogallo di Salazar. Ogni regime fascista aveva caratteristiche diverse e specifiche. E la Russia degli ultimi anni di Putin sarà di certo inclusa in questo elenco. 

    Esistono varie definizioni di fascismo. Nel 1995, su richiesta del presidente Boris El’cin, l’Accademia delle scienze russa ha elaborato la seguente: “Il fascismo è un’ideologia e una pratica che affermano l’esclusiva superiorità di una data razza o nazione e proclamano l’odio interetnico, giustificano la discriminazione contro i membri di altri popoli, negano la democrazia, affermano il culto del capo, utilizzano la violenza e il terrore contro gli oppositori politici e ogni tipo di dissidenza, e giustificano la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali”.

    Secondo me, ciò che avviene in Russia corrisponde in tutto e per tutto a questa definizione. Si contrappone la Russia al presente, al passato e al futuro degli stati circostanti (soprattutto di quelli europei); si afferma la superiorità della cultura russa (dove l’aggettivo non va inteso in senso etnico, ma imperiale); si nega l’esistenza stessa del popolo, della lingua e della cultura dell’Ucraina… tutto ciò è ormai la base della propaganda di stato. Quanto a negare la democrazia, affermare il culto del capo e sopprimere la dissidenza, non c’è niente da dimostrare, è una cosa che salta agli occhi…

    Di chi è la colpa se la Russia è diventata fascista? La risposta più semplice sarebbe: di Putin. Non si può negare che la sua responsabilità sia notevole; ci sono però molte altre persone che, magari senza volerlo, gli hanno spianato la strada.

    Le masse aspiravano all’impero, all’uomo forte, al mito di Stalin. Opinioni rintracciabili sia “in vetta”, fra le élite che dirigono il paese (dipendenti pubblici, forze di sicurezza, deputati, dirigenti di aziende pubbliche e oligarchi) sia “in fondo”, tra i più poveri. Tra quelli che hanno Mercedes, yacht e castelli, e tra chi non ha neanche il bagno in casa. A tutti, però, il sistema autocratico di Putin nega qualunque diritto.

    Ai primi non interessava combattere l’arbitrarietà di questo sistema; con un governo diverso non avrebbero mai avuto i vantaggi materiali di cui godono. Ma per compensare questa deplorevole mancanza di diritti, ci voleva qualcosa in cambio: l’impressione di avere un potere assoluto sui loro “nemici”, di poter sfuggire, almeno in questo ambito, a qualsiasi controllo… fatto salvo quello del Capo. Volevano considerarsi una classe di nuovi aristocratici, eletti dalla Storia e dalla Provvidenza a guidare il paese. Ma si sono ritrovati qualche bastone tra le ruote: i miseri resti della libertà di espressione, il giornalismo investigativo nelle sue varie declinazioni, i militanti per i diritti umani e i guastafeste che riuscivano a far scendere la gente in piazza ogni tanto. E anche alcuni membri delle élite che la pensavano diversamente e volevano conservare qualche parvenza di legalità liberale nell’amministrazione del paese.

    Il secondo gruppo, le persone “in fondo” alla gerarchia, non credevano affatto alla possibilità di avere la meglio in un eventuale scontro: a confermarglielo bastava la loro stessa vita, durissima, e cos’era successo ai loro genitori e nonni.

    Chi ha beneficiato della breve parentesi di relativa democrazia negli anni ’90 ne è rimasto scottato: intorno tutto cambiava, le scelte andavano fatte in prima persona e in circostanze difficili, cosa insolita e spiazzante. Queste persone hanno trasmesso ai figli i loro timori: i cambiamenti sono sempre in peggio. Bisogna sempre contare sulle autorità, sui superiori. Al massimo si possono scrivere petizioni e reclami da inoltrare ai dirigenti.

    Queste persone non saranno forse la maggioranza, ma costituiscono un gruppo significativo; la società civile russa si è rivelata incapace di fornire loro spazi e strumenti necessari a lottare per i propri diritti. Credo, inoltre, che gli stessi attivisti per i diritti umani abbiano a volte assunto un atteggiamento paternalista… Quando qualcuno si rivolgeva a noi, non lo trattavamo come un compagno di lotta, ma come “cliente”; cercavamo di aiutarlo, ma era raro che ci mettessimo a spiegargli quali fossero gli obiettivi di quella lotta.

    Di conseguenza, i “clienti” ricevevano un aiuto gratuito, tornavano a fare la loro vita, e alle elezioni seguenti votavano di nuovo le persone indicate dai superiori. Compensavano privazioni e mancanza di diritti sentendosi parte di qualcosa di grande, un ingranaggio dell’enorme macchinario di un impero che si stava ricostituendo. 

    Il regime di Putin soddisfaceva alcuni bisogni simili, ma non ancora del tutto.

    La guerra è stata quindi un grande obiettivo unificatore. Dopo tanti anni, è rinato un vecchio slogan: “Tutto per il fronte, tutto per la vittoria!”. L’opposizione è stata spazzata via, la poca libertà che restava è stata eliminata, pronunciare in pubblico termini come liberalismo e democrazia senza aggiungere una parolaccia presenta i suoi rischi. La “vetta” e il “fondo” della gerarchia si sono riuniti in un’estasi di patriottismo e di… odio per l’Ucraina indipendente.

    Certo, l’estasi non coinvolge la maggioranza dei russi, tutt’altro, ma vi si riconoscono in parecchi.

    Fino a poco tempo fa, però, per istinto di autoconservazione, la maggioranza preferiva semplicemente chiudere gli occhi su ciò che succedeva. “Protestare è pericoloso, non si può cambiare niente, e blaterare sugli eccessi compiuti dai nostri in Ucraina riuscirà soltanto a tenerci svegli la notte e a deprimerci”. È meglio far finta di credere a ciò che dicono in tv e, anzi, provare a crederci sul serio.

    Un comportamento che, probabilmente, è il più diffuso in qualsiasi regime fascista.

    Una minoranza minuscola cerca di reagire. Un movimento che si oppone alla guerra e ha i suoi prigionieri politici, i suoi eroi.

    Gli attivisti continuano a difendere i diritti umani quasi in clandestinità: forniscono mezzi legali per evitare la mobilitazione e il reclutamento, stilano elenchi di prigionieri politici, procurano loro gli avvocati, forniscono assistenza giuridica e umanitaria ai rifugiati provenienti dall’Ucraina e fanno in modo che possano arrivare in Europa.

    È però inevitabile che la difesa dei diritti umani venga stravolta, in un paese in cui la legalità non esiste più. Oggi i russi che se ne occupano si trovano nella stessa posizione dei dissidenti d’epoca sovietica, loro predecessori. Cercare di farsi conoscere al pubblico russo ed estero diventa un obiettivo primario. Il dissidente russo Sergej Kovalëv, grande difensore dei diritti umani che ha trascorso dieci anni nei gulag, aveva questo motto: “Fai ciò che devi e vada come vada”; oggi è più vero che mai.

    Quanto durerà, tutto questo, in Russia?

    Chi può dirlo…

    Il futuro del nostro paese si decide nei campi dell’Ucraina.

    Se le truppe russe vinceranno, il fascismo si radicherà definitivamente in Russia. E viceversa…

    Nel mese scorso, l’”estasi” di cui sopra ha iniziato piano piano a sfumare nello smarrimento generale: com’è possibile che il nostro esercito, grande e invincibile, venga battuto su tutti i fronti?

    I postumi della sbornia sono sempre pesanti. E possono essere gravi.

    Molto dipende dai paesi dell’Europa centrale e occidentale. È naturale che ogni persona sana di mente preferisca la pace alla guerra. Ma la pace a qualsiasi prezzo? L’Europa ha già cercato di mantenere la pace tentando di rabbonire un aggressore. Conosciamo tutti il risultato catastrofico di quei tentativi. 

    Per di più, una Russia fascista vittoriosa diventerà inevitabilmente una seria minaccia per la sicurezza dei suoi vicini e di tutta l’Europa.

  • No-vax, considerazioni

    No-vax, considerazioni

    Il giornale La Repubblica titola “Il vaccino, è vero, protegge poco o nulla dall’infezione, ma è sempre un’arma molto efficace ”contro la ‘malattia grave””, con che base scientifica quindi buona parte della popolazione italiana è stata emarginata?

    Vedi, il problema non è la base scientifica. Il problema è la psicologia.

    Io potrei fornirti una sfilza di studi scientifici che mostrano i dati sull’efficacia dei vaccini anti-covid contro il contagio dalla variante originale e dalla delta. Potrei anche mostrare tutti i dati sull’occupazione delle terapie intensive in mezzo mondo, la cui saturazione rendeva fondamentale l’abbassamento della quantità di malati gravi, per cui era importante che ci si vaccinasse anche solo per evitare di occupare altri posti letto.

    Ma sarebbe inutile.

    Se io mostrassi un articolo preso da una rivista scientifica che dimostra che i vaccini hanno avuto una buona efficacia contro i contagi nel 2021 e parte del 2022, e un’ottima efficacia contro la malattia grave sempre, la risposta che susciterei nel novax di turno sarebbe una delle seguenti:

    • Mi direbbe che quella non è “vera scienza”, magari corroborando tale tesi con un link ad un post su Facebook o ad un video su YouTube che dimostrino ciò che debba intendersi per “vera scienza”.
    • Elencherebbe dati di segno opposto, ma senza fonti. Una eventuale richiesta in tal senso non verrebbe mai soddisfatta, o al massimo otterrebbe un altro post su Facebook o un altro video su YouTube.
    • Mi citerebbe le parole di Tizio, che è uno scienziato famoso e che sta spesso in televisione. Come mi permetto io, che non sono nessuno, di dire il contrario di quello che dice l’esimio Tizio? Ovviamente il tentativo di seguire lo stesso ragionamento, ignorandone quindi la palese fallacia, ed elencare una sfilza di scienziati famosi che la pensano al contrario di Tizio sortirebbe l’unico effetto di ascriverli tutti seduta stante alla comunità degli stipendiati da Bigfarma.
    • Mi rimanderebbe ad articoli scientifici pubblicati su riviste di quart’ordine che risultano noti esclusivamente in ambienti novax e dei quali nessuno nella comunità scientifica ha mai sentito parlare a causa della loro totale irrilevanza. Gli unici scienziati a conoscenza di uno studio del genere sono di solito quelli che l’hanno scritto e quelli che tipicamente hanno pubblicato un successivo articolo di aspra critica o smentita nei confronti del primo. Tale articolo, però, oltre ad essere del tutto sconosciuto tra gli scienziati, lo è pure tra i novax.
    • Mi farebbe un elenco di politici italiani che hanno detto questo e quello e perciò sono degli infami traditori della patria, e quindi io mi devo vergognare. Qui il mio problema è che difficilmente capisco a cosa ci si riferisca, perché di solito sono concetti travasati direttamente da titoli di quotidiani italiani rispetto ai quali pratico il più assoluto disinteresse. Vengo quindi sommerso da un torrente di dissonanza cognitiva nel tentativo di far comunicare le informazioni scientifiche rispetto all’efficacia di un vaccino somministrato su tutto il pianeta per combattere una pandemia, con quello che avrebbe detto Speranza da Floris un anno fa a proposito del green pass italiano. Davanti ai miei occhi chiusi si incrociano istogrammi di Science con selfie di Salvini, le formule dei modelli epidemiologici di Nature con i titoli a otto colonne dedicati a una vigilessa no-vax da “La Verità”. E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni e la presente e viva. Ma più le morte.
    • Mi accuserebbe di aver subìto il lavaggio del cervello da parte dei media. Giusto a titolo di esempio citerei quella volta in cui fui accusato di essermi fatto rincretinire a furia di televisione anziché informarmi dalle fonti scientifiche. Detto a un ricercatore che all’epoca viveva dentro un campus universitario, stava lavorando ad una meta-analisi della letteratura scientifica sul covid, e la cui televisione prendeva solo canali arabi.
    • Mi coprirebbe direttamente di insulti.

    Tutto questo verrebbe avanzato mediante commenti tendenzialmente sgrammaticati e PARZIALMENTE IN MAIUSCOLO, perché con le lettere grosse il sistema si combatte meglio.

    Quello che difficilmente otterrei sarebbe una critica nel merito. Non vorrei pensarlo, ma ahimè temo che il motivo principale sia la mera incapacità dell’accanito interlocutore di leggere e comprendere uno studio scientifico, oltretutto in inglese. Che sarebbe anche una cosa normale, visto che parliamo di letteratura specialistica. Il problema è che questo diventa sufficiente perché il fiero sovvertitore di greggi assuma che in quell’articolo debbano esserci scritte solo fregnacce, mentre quel tizio che fa le stories su Instagram sì che parla chiaro.

    Ecco, queste sono le principali motivazioni per cui non ripeterò per l’ennesima volta quali siano le basi scientifiche di cui si parla nella domanda. Non ritenendo che la domanda stessa sia posta con l’intento sincero di imparare qualcosa, ma piuttosto con quello di provocare un ennesimo battibecco ideologico, temo che mi ritroverei immerso fino al collo in uno dei casi elencati sopra.

    E a ‘na certa il navigar non m’è mica tanto dolce, in questo mare.

  • Spunti su pandemie

    Spunti su pandemie

    1957 – L’influenza “Asiatica”

    • a cura di Flavio Parente
    • Medico in Formazione Specialistica in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli Studi di Genova
      • pubblicata il 25/05/2022

    Nel febbraio 1957, un nuovo virus dell’influenza A (H2N2) emerse in Asia orientale, innescando la pandemia di “influenza asiatica” [1].

    Il virus H2N2 era composto da un riassortimento di un virus influenzale umano e del virus dell’influenza aviaria A, avvenuto presumibilmente nel Guizhou, nel sud della Cina [1] [2][3] [4] [5]. 

    Segnalato per la prima volta a Singapore nel febbraio 1957, si diffuse a Hong Kong nell’aprile e nelle città costiere degli Stati Uniti nell’estate dello stesso anno [1] [2].

    A diversi mesi dalla comparsa del nuovo patogeno, furono segnalati numerosi casi di infezione, specialmente nei bambini, negli anziani e nelle donne incinte [6]: l’impennata dei contagi risultò in un’ondata pandemica che colpì l’emisfero settentrionale nel novembre 1957 [6].

    Riguardo le manifestazioni cliniche di malattia, alcuni individui infetti manifestavano solo sintomi minori, come tosse e febbre lieve, mentre altri presentavano complicazioni potenzialmente letali come la polmonite [6] [7].

    La pandemia di influenza Asiatica fu tra le più letali della storia [8]: nonostante la scarsità dei dati disponibili si stima, infatti, che il numero di morti sia stato tra 1 e 4 milioni in tutto il mondo e solo in Italia si contarono 70.000 vittime [9].

    L’Asiatica fu la seconda grande pandemia influenzale verificatasi nel XX secolo, dopo la pandemia influenzale del 1918-19 e prima della pandemia influenzale del 1968 [6].

    Nel 1960 il ceppo umano pandemico H2N2 subì una serie di modifiche genetiche minori, secondo il processo noto come deriva antigenica, producendo epidemie periodiche [6].

    Dopo 10 anni di evoluzione, il virus dell’influenza del 1957 scomparve, sostituito attraverso lo spostamento antigenico da un nuovo sottotipo di influenza A, H3N2, che diede origine alla pandemia influenzale del 1968 [6] [10].

    Il rapido sviluppo di un vaccino contro il virus H2N2 e la disponibilità di antibiotici per il trattamento delle infezioni secondarie limitarono la diffusione e la mortalità della pandemia del 1957 [6].

    Fonti / Bibliografia
    1. CDC
    2. L’influenza aviaria-istruzioni per l’uso, Ministero della Salute
    3. Pennington, T H (2006). “A slippery disease: a microbiologist’s view”. BMJ. 332 (7544): 789–790. doi:10.1136/bmj.332.7544.789. PMC 1420718. PMID 16575087.
    4. “Pandemic Influenza Risk Management: WHO Interim Guidance” (PDF). World Health Organization. 2013. p. 19. Archived (PDF) from the original on 21 January 2021.
    5. Tsui, Stephen KW (2012). “Some observations on the evolution and new improvement of Chinese guidelines for diagnosis and treatment of influenza”. Journal of Thoracic Disease. 4 (1): 7–9. doi:10.3978/j.issn.2072-1439.2011.11.03. ISSN 2072-1439. PMC 3256544. PMID 22295158.
    6. Britannica
    7. Jackson C. History lessons: the Asian flu pandemic. Br J Gen Pract. 2009;59(565):622-623. doi:10.3399/bjgp09X453882
    8. Viboud C, Simonsen L, Fuentes R, Flores J, Miller MA, Chowell G. Global Mortality Impact of the 1957-1959 Influenza Pandemic. J Infect Dis. 2016 Mar 1;213(5):738-45.external icon

    1918-1919 – La “Spagnola” in Italia

    • a cura di Prof. Eugenia Tognotti PhD
    • Full Professor of History of Medicine and Human Sciences University of Sassari, Italy.
      SISUMed- Società Italiana di Scienze Umane in Medicina – Roma – La Sapienza.
      • pubblicata il 02/03/2021
      • aggiornata il 14/01/2022

    L’attenzione verso la prima pandemia del XX secolo si è risvegliata in questi ultimi mesi, spinta dall’esigenza di approfondire le condizioni che fecero da sfondo ad uno degli eventi più letali del mondo moderno, la pandemia influenzale del 1918-19, passata alla storia col nome di “Spagnola”.

    Sebbene la penisola iberica non avesse niente a che fare con l’origine della tremenda malattia, non essendo tra i paesi belligeranti, i giornali, non sottoposti alla pesante censura di guerra, pubblicarono le notizie sulla misteriosa malattia, sbarcata in Europa nella primavera del 1918 1. Fu così che, con grande disappunto degli spagnoli, il loro Paese fu per sempre associato alla pandemia, che, in tre diverse ondate, in meno di due anni, attraversò il mondo come un uragano, rappresentando uno dei maggiori disastri sanitari degli ultimi secoli, superata solo per morbilità e mortalità dalla Morte Nera (la peste del Trecento, ndr).

    Stando alle stime più attendibili, in soli sei mesi, tra la fine di ottobre e l’aprile del 1919, colpì 500 milioni di persone (poco meno di un terzo della popolazione mondiale del tempo), uccidendone circa 50, secondo le stime più caute. In Italia, che fu il paese più colpito in Europa, insieme al Portogallo, le vittime furono 600 mila e negli Stati Uniti 675.0002.La prima ondata si manifestò in un campo militare americano nella primavera del 1918. Portata in Europa dalle truppe in arrivo dagli Stati Uniti, si diffuse velocemente in Francia, Inghilterra, Italia. Durante la primavera ebbe un carattere mite, non diverso dalla normale influenza stagionale che i medici conoscevano da sempre e attribuivano al maligno influsso degli astri e alla loro sfavorevole congiunzione. La prima definizione, infatti, si deve allo storico fiorentino ‘Matteo Villani’ che, nel 1358, spiegava con le “costellazioni e aria fredda un’Influenza che aveva colpito poco meno che tutti i corpi umani della città e distretto di Firenze e delle circostanti vicinanze”3.

    L’ondata primaverile, mite, non diversa dalle solite influenze stagionali, non mise dunque in allarme i medici. Vincolati da un Decreto dell’ottobre del 1917, che puniva severamente chi provocava allarme, deprimendo lo spirito pubblico, nelle settimane cruciali dell’epidemia, i giornali tacevano sulla preoccupante escalation di quella strana influenza. Del resto, in estate parve scomparire. Nella tarda estate, a partire da agosto- settembre ricomparve però con la forza di un uragano devastante.

    La malattia si manifestava bruscamente “con lieve catarro del naso” ed era caratterizzata “da senso di molestia alla gola, da stanchezza, da dolori vaghi a tutto il corpo”. Seguivano rapidamente la febbre, alta, in molti casi, testimoniavano i medici “preceduta da brivido o accompagnata da forte mal di capo, l’arrossamento degli occhi che male sopportano la luce, la tosse stizzosa, molte volte perdita di sangue dal naso”. Forse per non allarmare la popolazione, non si parlava delle possibili e frequentissime complicazioni, responsabile dell’alta mortalità: tracheobronchiti, bronchiti acute, catarri soffocanti, polmoniti lobari, ecc. Ad essere colpiti furono soprattutto i giovani adulti (20-40 anni), piuttosto che gli individui avanti con l’età4.

    La scienza medica brancolava nel buio. Le luminose certezze accumulate nell’ultimo ventennio dell’Ottocento con la “rivoluzione batteriologica” si dissolvevano come nebbia al sole, mentre infuriava una delle più micidiali epidemie di tutti i tempi: la malefica “semenza del morbo” restava avvolta nel mistero : appariva sempre più chiaro che l’Haemophilus influenzae isolato nel contesto della precedente pandemia del 1889-90 da un allievo di Koch, Richard Pfeiffer non era l’agente causale dell’Influenza, mentre cominciava ad avanzare l’ipotesi di un agente infettivo di dimensioni infinitesimali – ‘un virus ultra-filtrabile’5. Ad uccidere – spiegavano tutti – non era l’influenza in sé, bensì le complicazioni pleuropolmonari. Non esisteva profilassi: il consiglio divulgato dalle autorità sanitarie6 e dai numerosi ‘avvisi’ pubblicati dai giornali, era di “evitare il contagio e di praticare grande pulizia delle mani, delle cavità nasali, della bocca”.

    La tremenda Spagnola trovava le popolazioni in condizioni di debolezza e prostrazione, dovute ai lunghi anni di guerra7. Ma trovava anche strutture sanitarie al collasso. Buona parte dei medici, degli infermieri e dei farmacisti si trovava al fronte, mancavano le medicine e persino i generi di prima necessità per i malati e i convalescenti. Le sparse informazioni parlano di cure a base di tintura d’oppio canforata, di acido fenico, di iniezioni di percloruro di mercurio. Negli ospedali si ricorreva, secondo i casi, a iniezioni ad alte dosi di canfora, al siero anti-pneumococcico, alla somministrazione di fenolo e mentolo. Tra la fine di settembre e i primi di ottobre , si susseguirono le misure profilattiche adottate dai sindaci e dagli ufficiali sanitari , sulla base delle circolari del ministro dell’Interno: individuazione dei focolai epidemici; isolamento, se possibile, dei malati, anche negli ospedali, dove erano proibite le visite; chiusura delle scuole, eliminazione dei contatti con i malati e con possibili infetti; riduzione al minimo di riunioni pubbliche in locali chiusi come teatri e cinematografi; disinfezione accurata e pulizia di case, uffici pubblici e chiese8.

    Morti d’influenza dal 1917 al 1922.
    Morti d’influenza dal 1917 al 1922.

    I vescovi impartirono ordini severissimi ai parroci perché non trascurassero la disinfezione di banchi e confessionali. Era proibito suonare le campane a morto: il lugubre rintocco che scandiva la giornata nelle grandi città come Milano e Roma- dove i morti, a metà ottobre, si contavano a centinaia – era ritenuto deleterio per ‘lo spirito pubblico’. L’orario di chiusura di bettole, osterie e rivendite di generi alimentari era fissato per le ore 21, mentre era prorogato l’orario di chiusura delle farmacie. Tutte le feste patronali erano sospese. Le strade erano invase dall’odore di acido fenico. Medici e infermieri dovevano usare una mascherina di garza. Manifesti e giornali traboccavano di consigli per evitare l’influenza: evitare i luoghi affollati e gli ‘agglomeramenti’, osservare la più scrupolosa igiene individuale, lavarsi le mani, non sputare, un’abitudine allora diffusissima in tutti gli strati sociali. Molti presero a fumare nella convinzione che il fumo uccidesse “i germi dell’influenza”. Altri intensificarono le bevute, con l’idea che l’alcol allontanasse la malefica malattia. Adottata nelle grandi città degli Stati Uniti, la quarantena e le altre restrizioni non furono adottate in Italia, dove lo stato di guerra esigeva la libera circolazione di uomini e mezzi.

    Mentre cresceva l’attesa della fine del sanguinoso conflitto, una serie di proibizioni – provenienti da sindaci, medici provinciali, prefetti – modificò nel profondo la vita quotidiana della gente: proibito recarsi a visitare gli ammalati, andare in chiesa, portare le condoglianze alle famiglie dei defunti, un uso radicato nelle tradizioni popolari, seguire i funerali.

    Al calare della notte i circoli, i caffè, le bettole chiudevano i battenti facendo precipitare nel buio le strade della città. Da un giorno all’altro, anche aree lontane dalla zona di guerra, le popolazioni civili furono sottoposte ad una rigida disciplina, quasi militare. Nelle farmacie la gente faceva la fila per acquistare chinino e aspirina. L’impegno profuso dai giornali nel minimizzare e l’assoluto silenzio sulle reazioni popolari, non riesce a nascondere del tutto l’ansia, lo sgomento e la paura, l’impatto di misure che modificavano il vissuto della gente.

    Nella prima decade di novembre del 1918, mentre nei laboratori, i ricercatori sperimentavano il fallimento dei tentativi di preparare un siero immunizzante efficace con cui eseguire esperimenti sugli animali ed applicazioni terapeutiche, la pandemia sembra allentare la presa, dopo aver attraversato l’Italia come un uragano, facendo fare un balzo del 21 per mille alla mortalità ordinaria nelle regioni più colpite (Lazio, Sardegna, Basilicata, Calabria). Ma nell’inverno 1918-19, favorita forse anche dagli ‘agglomeramenti’ provocati in novembre dalle grandi manifestazioni di piazza di folle festanti per la fine della guerra e la firma dell’armistizio- si verifica una ‘terza ondata’ più mite, legata anche al fatto che come per altri ceppi influenzali, l’influenza doveva essere diventata più attiva nei mesi invernali. Infine, verso la metà del 1920, a circa due anni dal suo esordio, quel ceppo mortale di influenza sembra scomparire, anche se non abbiamo dichiarazioni solenni o memorabili sull’uscita di scena di ‘quel morbo così funesto per l’umana gente’ – per riprendere le parole del direttore del Laboratorio batteriologico della Sanità pubblica, Bartolomeo Gosio.

    Che, in una pubblicazione sugli Annali d’Igiene (1922)9 ammette che ‘per fortuna dell’umanità’ era venuto ‘in gran parte a mancare il materiale clinico d’indagine’, anche se era ‘da temersi purtroppo che la semenza del morbo non fosse spenta’. Cosa che suscitava l’inquietudine di igienisti e patologi, impegnati a discutere, nel 1921-22, se ‘i parossismi’ più o meno accentuati di quel biennio fossero ‘epidemie di ritorno’. Si può però dire che la fine della Spagnola si verificò, a due anni di distanza dal suo esordio: il virus aveva circolato in tutto il mondo, infettando così tante persone da ridurre il numero di nuovi ospiti suscettibili perché il ceppo influenzale diventasse di nuovo una pandemia. Si calcola che un terzo della popolazione mondiale avesse contratto il virus che verrà isolato solo nel 1933. Stando alle ultime ricerche10, quella catastrofe fu provocata da un virus A/HIN1 di probabile origine aviaria, completamente nuovo per la popolazione umana, che quindi non aveva difese nei suoi confronti. Nel 2005, un gruppo di ricerca ha annunciato su Science e Nature di aver determinato con successo la mappatura del genoma, grazie al recupero dal corpo di una vittima sepolta nel permafrost dell’Alaska e da campioni di soldati americani morti di Spagnola.

    L’esperienza del passato è quanto mai importante nell’affrontare un tema come quello delle pandemie influenzali, eventi che si ripetono nel tempo, senza dimenticare che i fenomeni epidemici ricorrono spesso con le stesse modalità, anche se non in maniera del tutto simile. Il susseguirsi delle diverse ondate epidemiche della Spagnola, dalla più mite alla più grave, propone un possibile andamento naturale delle epidemie. Le lezioni del passato sono preziose e le conoscenze acquisite dalla ricostruzione storica degli eventi pandemici rappresentano un punto di riferimento, restando però pronti – come c’insegna l’attuale pandemia causata da un altro virus che il mondo sta affrontando – a far fronte a dinamiche nuove, bizzarre e inattese, perché anche i virus modificano i loro comportamenti in un mondo globale e in continua evoluzione.

    Fonti / Bibliografia
    1. A.W. Crosby, Influenza, in K.F. Kiple, ed., <i>The Cambridge World History of Human Disease</i>, Cambridge University Press, New York, 1993, pp. 807-811.
    2. Alcune fonti parlano di 25, altre di 50 milioni, altre ancora si spingono ad ipotizzare 100 milioni. Cfr. W. Beveridge, L’influenza. L’ultimo grande flagello,Roma 1982.Johnson NPAS, Mueller J. Updating the accounts: global mortality of the 1918–1920 “Spanish” influenza pandemic. Bulletin of History of Medicine 2002, n.76, pp. 105–15.
    3. E.Tognotti, La ‘Spagnola in Italia’, Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo, Milano, 2015, 2 ed.
    4. E. Tognotti, Influenza pandemics: a historical retrospect, J Infect Dev Ctries, 2009 Jun 1;3(5):331-4.
    5. G. Kolata, Epidemia. Storia della grande influenza del 1918 e della ricerca di un virus mortale,Milano 2000, p. 9.
    6. Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Sanità, Istruzioni popolari per la difesa contro l’influenza,Roma 1918,p. 5.
    7. I più autorevoli clinici del tempo erano convinti che, «avendo la guerra contribuito a fiaccare la resistenza organica delle popolazioni (era) responsabile dei caratteri di gravità che l’epidemia aveva assunto». Questa stessa opinione era stata espressa in Svizzera dove, secondo alcuni, la malattia si era virulentata nei campi degli internati, soggetti a privazioni e sofferenze». Cfr. L. Verney, Sulla profilassi dell’influenza,in «Il Policlinico», 5 gennaio 1919 (XXVI), fasc. 1, p. 8.
    8. Cfr. per l’organizzazione sanitaria «al fine di un efficace sistema di protezione della salute pubblica», Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Sanità Pubblica, Atti Amministrativi (1910-20), bb. 178 bis, 179.
    9. B. Gosio, A. Missiroli, Ricerche sul potere tossigeno del bacillo di Pfeiffer in rapporto alla patogenesi dell’influenza,in «Annali d’Igiene»,, fasc. 1, 1922.
    10. A.H. Reid, T.G. Fanning, J.V. Hultin, and J.K. Taubenberger, Origin and evolution of the 1918 “Spanish” influenza virus hemagglutinin gene, Proceedings of the National Academy of Science, 1991, 96: 1651-1656.
  • Il popolo di nessuno

    Il popolo di nessuno

    A) Sul piano politico interno, in Italia più che altrove accade la messinscena della teatrocrazia con la specifica che c’è un doppio potere del teatro. C’è il potere del teatro che viene inscenato rappresentando i dati di realtà e il potere che si esprime direttamente nella realtà intesa come teatro della vita. A ciascuno è dato di esprimersi nell’una o nell’altra forma.

    B) La politica non vive nella realtà del teatro. Aleggia la sua vanagloria nel teatro della realtà, in quel teatro di autoreferenzialità che prende a pugni la realtà delle cose, simulandola maldestramente, e dove nessun attore conta qualcosa fuori dalla scena.

    La politica nell’era del suo sfinimento non è più in grado di sussulti eroici. Non dipende dall’incapacità degli attori. Dipende dalla realtà della scena della democrazia contemporanea. In essa il potere del popolo si esercita tanto più quanto il rappresentante esercita solo un metapotere di facciata.

    C) Un tempo c’era il popolo democristiano o fascista o comunista.

    Ora c’è solo il popolo di nessuno. Il popolo di nessuno coincide con la popolazione.

    La politica gli è indifferente e questa indifferenza

    non esprime un assenza di desiderio di libertà, ma al contrario una ricerca affannosa di essa. Il popolo di nessuno desidera essere libero ma vive la sua libertà al di fuori della sfera politica.

    L’indifferenza verso il potere politico non è percepita dal popolo di nessuno come una limitazione della propria libertà; è viceversa percepita come la forma superiore di libertà nelle democrazie contemporanee.

    D) Le libertà sono vieppiù scisse dal potere politico. Non è più il potere politico a decidere quali forme di libertà può tollerare, ma sono le libertà diffuse della popolazione che decidono quali forme di potere politico tollerare. Il potere è avvertito come ostile appena supera la sua soglia di indifferenza verso le libertà della popolazione. E) Ciò che conta ai popoli di nessuno non è quello che avviene nelle sfere dei diritti politici, ma in quelle dei diritti civili. I diritti politici sono un semplice

    passpartout per garantirsi, quando occorre, i diritti civili.

    F) I diritti civili sono la forma superiore di protagonismo delle masse contemporanee che partecipano così alla vita collettiva nonostante l’indifferenza verso il resto della sfera politica.

    G) Chi, con le vicende del covid o del climate change, teme un collasso della democrazia prende

    un abbaglio. Nella sospensione di alcune regole democratiche della politica contemporanea non c’è nessuno stato d’eccezione da reincarnare come uno stolido infinito avatar di Karl Schmidt. In quel presunto collasso c’è l’orgasmo della democrazia.

    H) Il potere del popolo di nessuno – sempre orrifico, come qualsiasi potere di qualcuno – muta le forme della democrazia, ne mette in mora alcune e ne esalta altre onde adattarsi allo stato della diffusione spazio temporale dei poteri.

    I) La democrazia – quel potere che permette i privilegi di parte con il formale consenso di tutti – è viva proprio perché alcuni suoi istituti appaiono morti.

    L) I partiti, per esempio. Chi ne ha nostalgia? Come dice il loro nome, fanno gli interessi di una parte, ma le parti della contemporaneità sono troppo fluide per essere rappresentate stabilmente. Infatti, i partiti trionfano e collassano in tempi rapidissimi. Il loro trionfo è già nella caduta.

    M) Fin quando sopravvivono, per sopravvivere, i partiti residui fanno ciò che devono fare. Non essendo in grado di decidere, sono costretti a fare ciò che la realtà delle cose ha già deciso. Prendono decisioni non conformi alle idee, che mancano o sono sempre emendabili, ma alla possibilità di racimolare qualche, per quanto fatuo, consenso. Sono attratti da quel consenso che li ossigena e subito dopo li fa

    morire.

    N) Chi non ha problemi di consenso, Draghi e i suoi avatari, esercita un ruolo efficace fintanto che, e solo se, è in grado di porsi anziché come ostaggio delle parti, al di là e al di sopra di esse.

    O) Draghi e i suoi avatari non esistono in rappresentanza dei partiti ma come espressione delle istituzioni.

    P) Draghi e i suoi avatari riflettono il primato in questa fase storica delle istituzioni rispetto alla politica e ai politici.

    Q) Ciò che sta profondamente cambiando è il regime politico che chiamiamo democrazia. Diversamente da altri periodi storici, il potere tanto più si esercita diffusamente tanto meno necessita che questo esercizio venga rappresentato dalla mediazione politica classica. Dal primo lato, dall’esercizio del potere diffuso, i regimi attuali, in particolare in Europa, sono iperdemocratici. Dal secondo lato, appaiono sempre più ipodemocratici. Il funzionamento del regime politico più diffuso nella contemporaneità – che per comodità si chiama ancora democrazia – esige nel contempo massima diffusione del potere e massima concentrazione della decisione formale a condizione che l’uno e l’altra non vadano in corto circuito.

    R) C’è un gran peana sulla crisi della democrazia

    che si riflette nella perdita di ruolo dei votati e dei partiti. I partiti sono divenuti un simulacro della democrazia. Il simulacro dei partiti esigerebbe che la democrazia esistesse perché ci sono e fintanto che i partiti esistono. Occorre invece registrare che la democrazia vige nonostante i partiti. Le istituzioni anziché collassare ricevono linfa dalla necrosi dei partiti.

    S) I legislatori fanno meno le leggi di quanto le leggi fanno i legislatori. L’Italia rimane una repubblica parlamentare nonostante il Parlamento abbia un ruolo sempre più marginale e il Parlamento approvi decisioni prese in buona parte altrove.

    T) Un altro simulacro della democrazia è diventato il voto. Siccome si vota si è in un regime di democrazia. Questo è il pensiero comune. E a un superiore numero di votanti corrisponde un maggiore gradiente di democrazia. Questo è il corollario.

    Eppure, la realtà dice altro. Dice che senza alcun bisogno di votare, si conoscono in ogni momento le opinioni del popolo di nessuno. Si vota per necessità e per ritualità.

    Ma non è nelle forme più o meno massive in cui si esprime il voto che si possono intuire benessere e malessere delle democrazie.

    V) Quando votano tutti vuol dire che c’è paura di qualcuno, quando votano in pochi vuol dire che c’è

    indifferenza verso l’esito delle elezioni, indifferenza che significa

    assenza di paura. Nell’astensione dal voto il popolo di nessuno dice: non ho paura.

    Tutto sommato, nell’astensione politica non c’è una crisi di fiducia, ma al contrario la consapevolezza che, comunque vadano le cose, chiunque sia eletto, i semafori continueranno a funzionare, la macchina istituzionale governerà la sua inerzia.

    Z) L’indifferenza verso la politica è una forma di libertà, un lusso, che le società democratiche avanzate si possono permettere.

    ZZ) Il voto è diventata una forma di consumo. Si vota se se ne sente la necessità e fino a quando quel voto viene ritenuto abile a qualcosa.

    ZZ..) Il voto usa e getta esprime una sensibilità diffusa al consumismo della politica.

    Il voto oltre il consumismo è una forma di dipendenza. Il voto come forma di dovere, come feticcio, che il popolo di nessuno avverte sempre meno.

    ZZ.. ) Un tempo, ciascuno aveva bisogno del voto per sentirsi, almeno un po’, sovrano. Ora, è il sovrano che ha bisogno del voto, per sentirsi, ancora un po’, re.

  • Teatrocrazia della Repubblica

    Teatrocrazia della Repubblica

    In Italia nasce la diarchia dell’uno. Contro ogni principio giuridico, i due poteri su cui si è appoggiata l’architrave della democrazia degli ultimi lustri rimangono formalmente differenti ma vengono unificati nello stesso nome.

    La contemporaneità irride i canoni consunti del diritto e della politica. Le regole costituite, i protocolli del diritto e della politica prevedono che il Presidente del Consiglio non possa ricoprire anche la carica di Presidente della Repubblica.

    Nella matematica della realtà l’uno non può diventare due così come il due non diviene uno.

    Nella realtà formale l’Italia non ha ciò che è già nella realtà delle cose.

    Il fatto è che, comunque vada, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica sono Mario Draghi.

    La realtà formale si srotola secondo la Teatrocrazia di platonica memoria. La realtà delle cose invece accade su un piano parallelo, quello di una matematica virtuale in cui si contempla la possibilità che al di là di divenire formalmente l’uno o l’altro –

    Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica – Mario Draghi sia già l’uno e l’altro, uno e bino – Presidente del Consiglio e Presidente della

    Repubblica.

    Per ricoprire le due cariche è indifferente che egli venga eletto Presidente della Repubblica o rimanga alla Presidenza del Consiglio. Chiunque eletto formalmente nella carica non ricoperta da Draghi è un suo avataro.2

    Se anche le due cariche non risultano formalmente ricoperte da lui, sono comunque suoi avatari. L’avataro di Draghi, sia ben inteso, non risponde al suo comando. Non è né un suo clone né un suo ologramma. Draghi, egli medesimo, infatti, è un avataro di Draghi. L’avataro di Draghi ha poco a che fare con le identità posticce dove proliferano improbabili credenze, regni soporiferi e supereroi della frustrazione.

    L’avataro di Draghi nasce dalla realtà dinamica della storia contemporanea la cui vivescenza brilla proprio dove più appare sfinita.

    Il due dell’uno non è l’uno reincarnato. È l’uno che appare anche in forma di due o di tre. In questo caso, è Draghi sia se si chiama come lui, sia se assume altro corpo e nome.

    È ridicolo quando a una singola persona vengono attribuiti i meriti o le infamie di un’intera comunità. Lei, quella persona, a meno dei deliri egoici sempre partoribili, sa bene di essere un avataro di ciò che è inscritto nel suo nome, dell’azione storica che interpreta

    più o meno degnamente. In lei si esprime ciò che intere comunità balbettano sul palcoscenico della storia. Lei, quella persona, pur balbettando e 2 Chiamiamo avataro l’ubiquitaria forma di chi mantiene i suoi caratteri essenziali anche quando muta corpo o nome. L’avataro non è uguale all’originale sia perché l’originale esso stesso di continuo muta sia perché pur nell’ubiquità due cose uguali non esistono.

    incespicando come ha fatto il 17 febbraio 2021 Draghi da Presidente del consiglio chiedendo la fiducia – ricordate? “… in questo momento due milioni sono ricoverati in terapia intensiva” – deve semplicemente risultare, nonostante i propri spasmi e le proprie meschinità, all’altezza di quella storia inscenata davanti ai suoi occhi.

    Draghi e i suoi avatari assumono le forme di un accadere storico che li prescinde incarnandoli. Il vero avataro di Draghi, ciò che lo muove in ogni istante, ha un nome: Italia mundi. L’Italia che non appartiene solo a se stessa ma al mondo intero.3

    La realtà è teatro. Il teatro della realtà non può prescindere dalla realtà, ma è costretto a stargli sempre o troppo avanti o troppo indietro. Vi sono le retroguardie e le avanguardie. La politica sta in retroguardia, asfittica e impotente. Le cose stanno in avanguardia.

    In avanguardia ci sono le Istituzioni, c’è Draghi Presidente del Consiglio e Draghi Presidente della Repubblica. In retroguardia ci sono i politici, i partiti, e il parlamento.

    Nessuno vuole Draghi alla Presidenza della Repubblica, ma siccome nessuno è in grado di decidere chi altro eleggere si finisce per votarlo o si vota un suo avataro.

    Nel caso di un moto improprio, dell’elezione di un partigiano non avataro di Draghi, l’eletto si adegua presto a lui o va a schiantarsi tra Scilla e Cariddi dell’Europa.

    Non è semplice pusillanimità italica. La politica in ogni parte del pianeta è incapace di agire. Reagisce tardi e a fatica solo sul baratro.

    Draghi e i suoi avatari non prenderebbero forma se nella realtà del teatro politico contemporaneo non fossero accadute grandi trasformazioni. In particolare, sul piano internazionale:

    1) Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia suo malgrado svolge un ruolo centrale nell’UE.

    2) L’austerità, anche grazie al generale Covid, non intossica più l’aria europea.

    3 Per questo concetto si rimanda a Europa Mundi, rilasciato da pianetica.org nel settembre 2021

    3) Per effetto di una perdurante inadeguatezza, gli Usa non sono in grado di tenere un profilo d’equilibrio nella situazione internazionale. Il caso Ucraina è eclatante. Eppure, in quel contesto l’avataro di Draghi avrebbe già una proposta: è inutile che l’Ucraina entri nel moribondo involucro della Nato –

    la Russia ha un buon pretesto a chiedere che non vi entri – a condizione che l’Ucraina possa, quando lo vorrà e quando ne avrà i presupposti, entrare nella UE. Nei territori contesi, il modello Alto Adige – riconoscimento delle specificità lingustiche, privilegi anziché discriminazioni nell’appartenere a un Paese d’altra lingua – è pronto ad assicurare pace e prosperità della frontiera.

    4) Tutti gli attori geopolitici che disgraziatamente ancora sgomitano per avere un peso maggiore nelle gerarchie mondiali necessitano di un punto oblativo di contatto e di mediazione. Questo punto oblativo sempre più chiaramente si chiamerà: Europa. Ne hanno bisogno la Russia, la Cina, gli Usa, il mondo intero.

    5) Le crisi planetarie devastanti e ricorrenti non possono essere affrontate secondo gli interessi delle singole parti. Emerge sempre più chiaramente che nessun interesse particolare può essere coltivato prima e contro l’interesse planetario.

    6) Sugli aspetti fondamentali, gli interessi dell’Europa, dunque dell’Italia, coincidono con gli interessi planetari. Europa mundi è Italia mundi.

    7) Ne consegue che all’Italia tocca giocare in Europa lo stesso ruolo che compete all’UE nel resto del pianeta.

    8) In questo momento storico allo spazio geografico chiamato Italia tocca un ruolo mai avuto dai tempi della massima unità di Augusto o della massima frammentazione dei Comuni. Un essere per il mondo al di là della particolarità dell’essere. Ecco la singolarità d’avanguardia – personale, spaziale, temporale

    – ai tempi della Pianetica4.

    Per il concetto di Pianetica si rimanda al libro in uscita: Pianetica, di Pino Tripodi e Giuseppe Genna, Milano 2022

  • Prima dello gnomologio tanatologico.

    Prima dello gnomologio tanatologico.

    Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre

    bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.

    L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama

    forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il

    calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.

    Il cambiamento climatico.

    L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.

    La confusione è sovrana.

    Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.

    Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.

    Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.

    Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.

    Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?

    Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .

    Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.

    Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.

    Siamo in disaccordo nella filìa.

    Un attimo stiamo parlando.

    Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.

    Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.

    Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.

    Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.

    Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che

    siamo noi.

    Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.

  • Res Ponso Abili

    Res Ponso Abili

    Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.

    Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.

    Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –

    e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.

    Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della

    morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.

    La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.

    Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.

    Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.

    La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.

    È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.

    C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.

    In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.

    È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.

    Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.

    È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.

    Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.

    Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.

    Vuoti di responsabilità pieni di diritti.

    La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.

  • Suicidio eutanasia

    Suicidio eutanasia

    Morte di Stato

    Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte. Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.

    Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.

    Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.

    In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema

    di definire il sostantivo.

    Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.

    Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.

    Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.

    Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.

    Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.

    Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento

    della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.

    Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.

    Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.

    Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:

    Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.

    Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.

    L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.

    Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.

    Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.

    Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.

    L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.

    Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.

    Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.

    Dallo stato di morte alla morte di Stato

    Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.

    In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili

    e ad atroci agonie.

    Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.

    La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.

    Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia –

    se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.

    Lo Stato della morte

    Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.

    Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura

    – suicidio o eroismo.

    Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.

    Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.

    In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.

    Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una

    battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.

    La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.

    Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna

    ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.

    Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.

    L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?

    La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata,

    è sempre un abominio.

    Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.

    Esiste la buona morte?

    Ma: esiste la buona morte?

    La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.

    Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.

    1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.

    2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a

    comminarla è lo stesso Stato.

    3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?

    4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?

    5) Quale libertà vale più di altre libertà?

    Suicidio assistito e analgotanasia

    Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.

    Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.

    Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?

    Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.

    Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.

    Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.

    Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.

    Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.

    Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.

    Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.

    La differenza tra suicidio e suicidio assistito è

    abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.

    Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può

    affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.

    Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.

    Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.

    La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.

    In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi

    deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.

    Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.

    Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.

    Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.

    Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.

    Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.

    Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.

  • Europa mundi – Pianetica

    Europa mundi – Pianetica

    Europa non è europea. Lo dice il mito.

    L’Europa non è solo europea. Lo chiarisce la storia.

    La geografia lo mostra: Europa è pregna di sconfini che rendono ardui e mutevoli i tentativi di definirla in una sua fisicità. E i mari e l’Atlantico, a suon di flutti, ora la dividono ora la uniscono al suo restante mondo.

    L’Europa è uno spazio alquanto indefinito che smargina il tempo e sopporta le sue slabbrature.

    In summa, l’Europa, che è anche europea, ha nei suoi geni i caratteri di Europa mundi.

    L’Europa esiste solo in quanto è Europa mundi. L’Europa del mondo.

    L’esplodere della crisi afghana ha reso baliosi e incontinenti i lamenti sull’inconsistenza militare dell’Europa, sulla necessità che essa crei un esercito proprio, rafforzi in armi la sua difesa, si metta al pari delle altre grandi potenze per giocare un ruolo analogo nei destini del mondo contemporaneo. Tali posizioni, prive di contraddittorio, nuocciono non solo all’Europa ma al mondo intero e mettono seriamente in pericolo i suoi abitanti.

    Per offrire una diversa chiave al problema, è utile chiedersi:

    Cos’è l’Europa?

    Qual è la sua forza?

    Dove inizia, dove finisce, quando e come si definisce? È uno spazio politico o è una politica dello spazio?

    La politica vive nell’imperituro imbarazzo di misurare l’Europa. Quanto è grande?

    Quanto è piccina?

    L’ossessione per la precisione tiene l’errore in agguato.

    Eppure, è possibile, forse anche conveniente, prendere le misure dell’Europa in modo non autistico, concependole come espressioni di relazione tra l’Europa e il suo mondo che è Europa solo se è l’intero mondo.

    Le misure dell’Europa come unità di relazione anziché come identità assoluta permettono di concepirla grande in grazia della sua piccolezza militare e piccina quando manifesta pruriti di grandezza.

    Al contrario di ciò che il canone politico ritiene, la forza dell’Europa sta nella sua debolezza militare, la sua consistenza strategica è direttamente proporzionale all’inconsistenza dei suoi armamenti, il suo benessere non è limitato dalla sua scarsa forza bellica ma è seriamente messo in pericolo dalla sua,

    per ora solo accennata, volontà di potenza.

    Inoltre, se l’Europa provasse a superare il gap militare con le altre grandi potenze, quanto tempo impiegherebbe? Con quali costi? E nella corsa agli armamenti, non finirebbe dissanguata come l’URSS?

    Ogni soggetto politico ritiene sempre valida l’equazione potere militare=forza economica.

    Ogni soggetto politico desidera aumentare la sua sfera d’influenza ritenendo così di

    ottenere enormi vantaggi competitivi.

    Le sfere d’influenza un tempo cristallizzavano le gerarchie di potere planetario. Ora sono ingiallite mummie dell’impotenza globale.

    Ma l’Europa non è un soggetto politico pari agli altri. L’Europa unita – una prima, larvale espressione dell’Europa a venire – deve il suo potere alla sua flebile potenza bellica. L’Europa unita non nasce da una grande vittoria militare, ma dall’infamia della più grande sconfitta.

    L’Europa unita è resa possibile solo dall’abbraccio tra nemici inceneriti dalle proprie guerre dopo secoli di contesa del medesimo spazio.

    La politica è tarda di memoria. Eppure chiunque, nell’ultimo tempo, abbia puntato sull’intervento militare, ha ricevuto solo reiterate umiliazioni sul campo,

    ottenendo in più solo svantaggi in termini di penetrazione economica e di controllo delle aree geografiche interessate. Di contro, i paesi al riparo dalla competizione militare e dai suoi immensi costi di protezione, hanno avuto ritmi di sviluppo prodigiosi.

    Le macerie sono il mercato ideale per le armi ma il mercato delle armi da almeno un secolo è un’infinitesima parte del mercato totale.

    I mercanti di armi non sono solo stolti assassini, sono anche dei pessimi mercanti.

    Anche l’Europa ha i suoi Afghanistan: tra gli altri, la Siria e la Libia dove più paesi che si pretendono europei hanno pensato stoltamente di inzupparsi nel torbido sicuri di ottenere notevoli vantaggi.

    Dal Vietnam alla Libia, passando per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, gli attori politici del mondo intero si comportano come vivessero ancora ai tempi di Machiavelli. Ma le regole della guerra sono nel frattempo completamente mutate.

    Le vere guerre del presente non si vincono con le armi, anzi si perdono con esse.

    Per vincere davvero una guerra nello spazio terrestre bisogna evitare accuratamente di usare le armi. Solo chi ci riesce può ritenersi vittorioso.

    I contendenti di una guerra a base d’armi sono

    sconfitti già prima di iniziare a combattere indipendentemente dall’esito militare del conflitto.

    Le armi sono solo zavorra di cui liberarsi se si vuole volare.

    È in ambiente extraterrestre lo spazio prediletto delle guerre prossime venture.

    Nello spazio extraterrestre e nel giuoco. Il rapporto tra giuoco e guerra si è invertito.

    Un tempo il giuoco simulava la guerra. Ora è la guerra a simulare il giuoco. Non è più il giuoco a preparare gli umani alla guerra, ma al contrario, la guerra a preparare gli umani al giuoco.

    Per l’economia globale l’esercizio delle armi ha un effetto molto più inibitorio che benefico.

    Per esportare la qualsiasi cosa non servono le armi. Le informazioni in forma di idee, di spettacolo, di bit, di denaro e di relazioni bastano e avanzano.

    Il multipolarismo, il bipolarismo o l’impero non funzionano più. Resistono come antichi retaggi di una storia consunta. Sconfitta irrimediabilmente dalle sue stesse armi.

    L’Europa non è condannata a rimanere un soggetto politico, ma a divenire un vettore pianetico.

    L’Europa vettore pianetico. Cosa vuol dire? Vuol dire che, proprio in virtù della sua inconsistenza militare, l’Europa è costretta a guardare il pianeta da

    altra prospettiva.

    Non come parte in ansia di conquistare il tutto, ma come parte di un tutto interamente da definire e da condividere, oggi, domani e sempre.

    Il carattere dell’Europa è oblativo. Il suo disinteresse è nell’interesse del mondo intero.

    L’Europa per riconoscersi ha bisogno di specchiarsi nel pianeta.

    Ogni altro luogo non può che guardare all’Europa se l’Europa si sottrae allo sguardo proprietario.

    Il Pianeta è uno spazio aperto in cui chiunque è in grado di giocare la sua parte a condizione che tutti possano giocare senza carte truccate dalle armi.

    Non ha senso tentare di esportare la democrazia o di imporre i propri valori. Essi, se hanno sensibilità, affetti e forza diffusiva, si impongono da sé senza bisogno di agenti autoritari e armati a esportarli.

    I valori dell’Europa, ammesso che qualcuno riesca con precisione a definirli, non sono migliori o peggiori di altri. Ciascuno li vede tali solo se indossa gli occhiali dell’identità che rendono ciechi anche i falchi.

    Non c’è bisogno di modelli. Il pianeta si modella secondo le sue volontà che sono

    molteplici, come i suoi valori, e sempre in discussione poiché in perenne gestazione.

    Riconoscersi peggiori o migliori è l’atto principiale del disastro.

    L’Europa non aspira a nessun primato.

    L’Europa è prima in ogni cosa come ogni altra cosa.

    Prima tra tutti i primi resi tali solo se si abbandona la folle voglia di diventare primi degli ultimi o primi fra gli ultimi.

    Non avere alcun primato da salvaguardare o da rivendicare è la condizione fondamentale per divenire primi anche tra non pari. Per divenire prima in tal guisa l’Europa non può che abdicare alla forza militare rendendo così più forte il pianeta sia nel suo insieme sia in ogni singola parte.

    Ciò che si prospetta non è un mero modello pacifista. La pace è la condizione agognata di ogni guerra. Guerra e pace sono gemelli siamesi. Nella contesa chiunque è colpevole tranne i disertori e gli abdicanti.

    La geopolitica dell’Europa fa cilecca.

    La politica, nata in quello spazio definito Europa, qui ha mostrato il suo fallimento.

    Non c’è governo della polis senza governo del pianeta. Ma il governarsi del pianeta non è affare di comandanti militari, di condottieri, di produttori d’armi.

    L’Europa ha bisogno di difendersi. Ma la sua più grande difesa non sono gli eserciti, il nucleare, le armi. La sua difesa massima è l’intelligenza. L’intelligenza che è l’esatto contrario dell’intelligence. Non sono i servizi segreti a tenerla in salvo. Sono invece

    i servizi evidenti.

    Intorno al covid, alle questioni monetarie e al cambiamento climatico Europa mundi ha iniziato molto timidamente a intravedersi.

    Se il pianeta è libero, l’Europa lo sarà. Se il pianeta è salvo, l’Europa non mancherà di godere della sua salvezza. Se il pianeta è ricco, l’Europa non si trastullerà nella miseria.

    L’Europa è la placca dell’idea di mondo necessaria per bloccare la deriva politica di questo come di ogni altro spazio incontinente.

    Europa mundi è terra, oceano, cielo. Europa mundi è in Asia, è Africa. Europa mundi è sponda del mondo intero. È il mondo nuovo di ogni mondo. Ed è il mondo di ogni nuovo mondo.

  • Il comunismo

    Il comunismo

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24