Autore: panfoli

  • Il discorso di Draghi

    Il discorso integrale di Mario Draghi in Senato
    Nel suo discorso programmatico chiede unità, fiducia e coesione e traccia la rotta dell’azione di governo su alcuni punti fermi: accelerare il piano vaccinale, affrontare con misure immediate l’emergenza economica e sociale, usare al meglio le risorse del Recovery Fund seguendo le linee segnate da Bruxelles su digitale e ambiente
    tempo di lettura: 47 min
    MARIO DRAGHI SENATO
    aggiornato alle 11:29
    17 febbraio 2021
    discorso integrale mario draghi senato
    © Monaldo Pool / AGF – Mario Draghi
    Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini.
    Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno. Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo.
    Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini di con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole.
    Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour:”… le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività.
    Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia.
    Dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività
    Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato.
    La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese.
    Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità.
    Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo
    Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza.
    Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato.
    Questo è lo spirito repubblicano del mio governo.
    La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo. Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione. L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro.
    Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura
    Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto. Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.
    Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.
    Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro
    Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.
    Lo stato del Paese dopo un anno di pandemia
    Da quando è esplosa l’epidemia, ci sono stati — i dati ufficiali sottostimano il fenomeno — 92.522 morti, 2.725.106 cittadini colpiti dal virus, in questo momento 2.074 sono i ricoverati in terapia intensiva. Ci sono 259 morti tra gli operatori sanitari e 118.856 sono quelli contagiati, a dimostrazione di un enorme sacrificio sostenuto con generosità e impegno. Cifre che hanno messo a dura prova il sistema sanitario nazionale, sottraendo personale e risorse alla prevenzione e alla cura di altre patologie, con conseguenze pesanti sulla salute di tanti italiani.
    L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali.
    La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento.
    Si è anche aggravata la povertà. I dati dei centri di ascolto Caritas, che confrontano il periodo maggio-settembre del 2019 con lo stesso periodo del 2020, mostrano che da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che oggi si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Tra i nuovi poveri aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, degli italiani, che sono oggi la maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa, di fasce di cittadini finora mai sfiorati dall’indigenza.
    Il numero totale di ore di Cassa integrazione per emergenza sanitaria dal 1 aprile al 31 dicembre dello scorso anno supera i 4 milioni. Nel 2020 gli occupati sono scesi di 444 mila unità ma il calo si è accentrato su contratti a termine (-393 mila) e lavoratori autonomi (-209). La pandemia ha finora ha colpito soprattutto giovani e donne, una disoccupazione selettiva ma che presto potrebbe iniziare a colpire anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
    Il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi
    Gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza. In assenza di interventi pubblici il coefficiente di Gini, una misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sarebbe aumentato, nel primo semestre del 2020 (secondo una recente stima), di 4 punti percentuali, rispetto al 34.8% del 2019. Questo aumento sarebbe stato maggiore di quello cumulato durante le due recenti recessioni. L’aumento nella diseguaglianza è stato tuttavia attenuato dalle reti di protezione presenti nel nostro sistema di sicurezza sociale, in particolare dai provvedimenti che dall’inizio della pandemia li hanno rafforzati. Rimane però il fatto che il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi.
    Le previsioni pubblicate la scorsa settimana dalla Commissione europea indicano che sebbene nel 2020 la recessione europea sia stata meno grave di quanto ci si aspettasse — e che quindi già fra poco più di un anno si dovrebbero recuperare i livelli di attività economica pre-pandemia – in Italia questo non accadrà prima della fine del 2022, in un contesto in cui, prima della pandemia, non avevamo ancora recuperato pienamente gli effetti delle crisi del 2008-09 e del 2011-13.
    La diffusione del Covid ha provocato ferite profonde nelle nostre comunità, non solo sul piano sanitario ed economico, ma anche su quello culturale ed educativo. Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli nelle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la Didattica a Distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Un dato chiarisce meglio la dinamica attuale: a fronte di 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, nella prima settimana di febbraio solo 1.039.372 studenti (il 61,2% del totale) ha avuto assicurato il servizio attraverso la Didattica a Distanza.
    Le priorità per ripartire
    Questa situazione di emergenza senza precedenti impone di imboccare, con decisione e rapidità, una strada di unità e di impegno comune.
    Il piano di vaccinazione. Gli scienziati in soli 12 mesi hanno fatto un miracolo: non era mai accaduto che si riuscisse a produrre un nuovo vaccino in meno di un anno. La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente.
    Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private. Facendo tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati. E soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus.
    Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari
    Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La “casa come principale luogo di cura” è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata.
    La scuola: non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà.
    Occorre rivedere il disegno del percorso scolastico annuale. Allineare il calendario scolastico alle esigenze derivanti dall’esperienza vissuta dall’inizio della pandemia. Il ritorno a scuola deve avvenire in sicurezza.
    È necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni
    È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo.
    Infine è necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni.
    In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. E’ stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate.
    La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici. Occorre infine costruire sull’esperienza di didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza.
    Oltre la pandemia
    Quando usciremo, e usciremo, dalla pandemia, che mondo troveremo? Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così.
    Il riscaldamento del pianeta ha effetti diretti sulle nostre vite e sulla nostra salute, dall’inquinamento, alla fragilità idrogeologica, all’innalzamento del livelllo dei mari che potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili. Lo spazio che alcune megalopoli hanno sottratto alla natura potrebbe essere stata una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo.
    Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo
    Come ha detto papa Francesco “Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore”.
    Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane.
    Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno cambiare. Ad esempio il modello di turismo, un’attività che prima della pandemia rappresentava il 14 per cento del totale delle nostre attività economiche. Imprese e lavoratori in quel settore vanno aiutati ad uscire dal disastro creato dalla pandemia. Ma senza scordare che il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato.
    Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Questa osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Acune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.
    A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro
    La capacità di adattamento del nostro sistema produttivo e interventi senza precedenti hanno permesso di preservare la forza lavoro in un anno drammatico: sono stati sette milioni i lavoratori che hanno fruito di strumenti di integrazione salariale per un totale di 4 miliardi di ore. Grazie a tali misure, supportate anche dalla Commissione Europea mediante il programma SURE, è stato possibile limitare gli effetti negativi sull’occupazione. A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro, strategia che dovrà coordinare la sequenza degli interventi sul lavoro, sul credito e sul capitale.
    Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito.
    Il cambiamento climatico, come la pandemia, penalizza alcuni settori produttivi senza che vi sia un’espansione in altri settori che possa compensare. Dobbiamo quindi essere noi ad assicurare questa espansione e lo dobbiamo fare subito.
    La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create.
    Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta.
    Parità di genere
    La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo.
    Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge
    Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro.
    Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese.
    Il Mezzogiorno
    Aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, investire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite. Vi sono poi strumenti specifici quali il credito d’imposta e altri interventi da concordare in sede europea.
    Per riuscire a spendere e spendere bene, utilizzando gli investimenti dedicati dal Next Generation EU occorre irrobustire le amministrazioni meridionali, anche guardando con attenzione all’esperienza di un passato che spesso ha deluso la speranza.
    Gli investimenti pubblici
    In tema di infrastrutture occorre investire sulla preparazione tecnica, legale ed economica dei funzionari pubblici per permettere alle amministrazioni di poter pianificare, progettare ed accelerare gli investimenti con certezza dei tempi, dei costi e in piena compatibilità con gli indirizzi di sostenibilità e crescita indicati nel Programma nazionale di Ripresa e Resilienza. Particolare attenzione va posta agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio, incoraggiando l’utilizzo di tecniche predittive basate sui più recenti sviluppi in tema di Intelligenza artificiale e tecnologie digitali. Il settore privato deve essere invitato a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.
    Next Generation EU
    La strategia per i progetti del Next Generation EU non può che essere trasversale e sinergica, basata sul principio dei co-benefici, cioè con la capacità di impattare simultaneamente più settori, in maniera coordinata.
    Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non solo dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che “ogni azione ha una conseguenza”.
    Come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni.
    Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti
    Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia. La quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo tramite la principale componente del programma, lo Strumento per la ripresa e resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica.
    Il precedente Governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma di ripresa e resilienza (PNRR). Dobbiamo approfondire e completare quel lavoro che, includendo le necessarie interlocuzioni con la Commissione Europea, avrebbe una scadenza molto ravvicinata, la fine di aprile.
    Gli orientamenti che il Parlamento esprimerà nei prossimi giorni a commento della bozza di Programma presentata dal Governo uscente saranno di importanza fondamentale nella preparazione della sua versione finale. Voglio qui riassumere l’orientamento del nuovo Governo.
    Le Missioni del Programma potranno essere rimodulate e riaccorpate, ma resteranno quelle enunciate nei precedenti documenti del Governo uscente, ovvero l’innovazione, la digitalizzazione, la competitività e la cultura; la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva.
    Dovremo rafforzare il Programma prima di tutto per quanto riguarda gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano.
    Obiettivi strategici
    Il Programma è finora stato costruito in base ad obiettivi di alto livello e aggregando proposte progettuali in missioni, componenti e linee progettuali. Nelle prossime settimane rafforzeremo la dimensione strategica del Programma, in particolare con riguardo agli obiettivi riguardanti la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G.
    Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione.
    Nella sanità dovremo porre le basi per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina
    In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti.
    Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021.
    Chiariremo il ruolo del terzo settore e del contributo dei privati al Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza attraverso i meccanismi di finanziamento a leva (fondo dei fondi).
    Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro
    Nella sanità dovremo usare questi progetti per porre le basi, come indicato sopra, per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina.
    La governance del Programma di ripresa e resilienza è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore. Il Parlamento verrà costantemente informato sia sull’impianto complessivo, sia sulle politiche di settore.
    Infine il capitolo delle riforme che affronterò ora separatamente.
    Le riforme
    Il Next generation EU prevede riforme.
    Alcune riguardano problemi aperti da decenni ma che non per questo vanno dimenticati. Fra questi la certezza delle norme e dei piani di investimento pubblico, fattori che limitano gli investimenti, sia italiani che esteri. inoltre la concorrenza: chiederò all’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, di produrre in tempi brevi come previsto dalla Legge Annuale sulla Concorrenza (Legge 23 luglio 2009, n. 99) le sue proposte in questo campo.
    le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta
    Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza. Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli.
    Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata.
    Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio
    In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale.
    Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia
    L’altra riforma che non si può procrastinare è quella della pubblica amministrazione. Nell’emergenza l’azione amministrativa, a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche, ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza e a un uso intelligente delle tecnologie a sua disposizione. La fragilità del sistema delle pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo è, tuttavia, una realtà che deve essere rapidamente affrontata.
    Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia. Agli uffici verrà chiesto di predisporre un piano di smaltimento dell’arretrato e comunicarlo ai cittadini
    La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.
    Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione.
    Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite. Ancoraggi che abbiamo scelto fin dal dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale. Profonda è la nostra vocazione a favore di un multilateralismo efficace, fondato sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite. Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa.
    Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite
    Gli anni più recenti hanno visto una spinta crescente alla costruzione in Europa di reti di rapporti bilaterali e plurilaterali privilegiati. Proprio la pandemia ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l’Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania. Ma occorrerà anche consolidare la collaborazione con Stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro. Continueremo anche a operare affinché si avvii un dialogo più virtuoso tra l’Unione europea e la Turchia, partner e alleato NATO.
    L’Italia si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina.
    Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati.
    L’avvento della nuova Amministrazione USA prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell’Europa e degli alleati tradizionali. Sono fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intesificarsi.
    Dal dicembre scorso e fino alla fine del 2021, l’Italia esercita per la prima volta la Presidenza del G20. Il programma, che coinvolgerà l’intera compagine governativa, ruota intorno a tre pilastri: People, Planet, Prosperity. L’Italia avrà la responsabilità di guidare il Gruppo verso l’uscita dalla pandemia, e di rilanciare una crescita verde e sostenibile a beneficio di tutti. Si tratterà di ricostruire e di ricostruire meglio.
    Insieme al Regno Unito – con cui quest’anno abbiamo le Presidenze parallele del G7 e del G20 – punteremo sulla sostenibilità e la “transizione verde” nella prospettiva della prossima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico (Cop 26), con una particolare attenzione a coinvolgere attivamente le giovani generazioni, attraverso l’evento “Youth4Climate”.
    Conclusioni
    Questo è il terzo governo della legislatura. Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. E’ un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un paese capace di realizzare i loro sogni. Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere. Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia.

  • Tornare alla lira?

    Annegare il debito pubblico in una gigantesca inflazione e’ stato sempre il sogno delle nazioni indebitate e storicamente e’ anche successo. Nei secoli scorsi l’Inghilterra e la Germania ad esempio hanno ripagato in questo modo molti dei loro debiti di guerra. Ma detto questo proverei a fare a tua mamma questa domanda: “Se l’oro ed i diamanti si potessero trovare come i sassi nel greto di un torrente avrebbero il valore che hanno?“. La risposta piu’ logica sarebbe:“Evidentemente no!”. E perche’? potrebbe obbiettare. Perche’ e’ la rarita’ di un bene che ne determina il suo valore. Nemmeno la moneta circolante (quella che abbiamo nel portafogli) sfugge a questa regola. Il valore della moneta e’ pari all’equivalente del suo corrispettivo in oro che le Banche Centrali detengono. L’oro e’ un metallo molto molto raro in natura e percio’ il suo valore e’ alto. Potremmo andare a cercarlo sulle Kilonove che sono delle stelle a neutroni ossia cio’ che rimane dopo un’esplosione di una supernova. Nel 2017 alcuni astrofisici scoprirono che ne esistono quantita’ enormi ma per adesso tutto questo e’ fuori dalla nostra portata. Percio’ se le Banche Centrali di uno stato sovrano stampano e mettono in circolo molta piu’ moneta di quella che e’ necessaria alla fine le cose da comprare costeranno sempre di piu’ creando quello che in economia si chiama inflazione. All’epoca della Repubblica di Weimar ad esempio l’inflazione raggiunse il 662,6% annuo aumentando sempre di piu’ al punto che per comprare il pane bisognava portarsi dietro valige piene di banconote. Ma al di la’ di questo caso limite e’ altrettanto vero che l’inflazione non colpisce allo stesso modo i vari soggetti economici. Certamente penalizzati sarebbero i lavoratori dipendenti ed i pensionati che vedrebbero poco alla volta eroso il loro potere d’acquisto. I commercianti ed i liberi professionisti al contrario potrebbero aumentare il prezzo delle cose che vendono o delle loro parcelle e se esportano quello che producono ne avrebbero un vantaggio perche’ gli acquirenti stranieri sarebbero avvantaggiati dal cambio tra le monete. Questo sarebbe un ulteriore danno per i consumatori perche’ per quelle aziende l’incentivo a migliorare i loro prodotti o a ridurre i costi per essere competitivi perderebbe ogni valore. La stabilita’ monetria di cui godiamo dopo aver aderito alla moneta unica europea (euro) ha permesso al nostro paese di sconfiggere l’inflazione portandola dal 21% del 1981 alla media europea di questi anni inferiore all’1%. Questo permette di avere una spesa per interessi irrisoria per chi contrae un mutuo o deve ripagare un prestito. Queste cose bisogna spiegarle con forza a quegli sprovveduti che si lasciano sedurre dalle idee di abbandonare l’euro propagandate dalla destra populista del nostro paese. Se tornassimo alla “liretta” lo stato disastrato dei nostri conti pubblici ne determinerebbe una svalutazione che secondo alcuni sarebbe dell’ordine del 30-50% rispetto all’euro. Ovviamente i prestiti ed i mutui contratti in euro andrebbero restituiti in quella valuta ed i risparmi degli Italiani sarebbero dimezzati di valore. Sarebbe in ultima analisi come una gigantesca patrimoniale che una destra irresponsabile finirebbe per infliggere a tutti gli italiani per il suo atteggiamento sovranista ed anti europeista. Paradossalmente quella stessa destra che vede come fumo negli occhi la patrimoniale proposta a carico di quelli ricchi per rendere sostenibile l’enorme debito pubblico che ci impedisce di crescere.

  • La questione del cambio Euro-Lira

    Il passaggio all’euro non è stato tutto rose e fiori per l’economia italiana. L’Italia entrò nell’euro con un cambio di circa 2000 lire per euro ( 1936,27 per la precisione). Ciò significa che se l’individuo X guadagnava 2 milioni di lire al mese, avrebbe percepito uno stipendio di 1033 euro al mese. Questo tasso venne fissato all’inizio del 1999 mentre la conversione vera e propria avvenne nel 2002.

    Ora l’opinione pubblica pensa che il cambio sia stato sbagliato, ovviamente a sfavore del popolo italiano e probabilmente il pensiero “populista” ci porta a designare come colpevole la Germania. Secondo questa tesi il cambio sarebbe dovuto essere 1 euro = mille lire. Ciò significa che 2 milioni di lire sarebbero equivalenti a 2000 euro. Questo individuo avrebbe quindi avuto il doppio della retribuzione reale, avrebbe raddoppiato il suo potere d’acquisto, insomma sarebbe stato il sogno di chiunque no? Il problema è che in economia non sempre ci si può permettere di fermarsi senza ragionare ulteriormente.

    La realtà dei fatti è diversa ma dobbiamo prima di tutto capire una cosa. Il cambio a 2000 lire non è stato inventato a caso da Prodi e Ciampi bensì è un valore più o meno coerente con i tassi di cambio prevalenti sui mercati finanziari prima dell’entrata nell’euro se si volevano mantenere invariati i rapporti di cambio tra i vari paesi dell’area euro.

    Nell’1998 occorrevano circa 1000 lire per comprare un marco tedesco. Quando la Germania entrò nell’euro il tasso di cambio fu il seguente: 1,95583 marchi per euro, cioè circa 2 marchi per un euro. Ciò comportava che, per mantenere invariato il cambio rispetto alla Germania, circa 2000 lire venissero scambiate con un euro. Quindi se un euro valeva 2 marchi allora un euro sarebbe dovuto essere equivalente a 2000 lire, visto che prima dell’euro con 2000 lire si compravano 2 marchi.

    Sulla base di cosa l’italia avrebbe dovuto pretendere un cambio diverso da quello che avrebbe potuto mantenere invariato il cambio tra Italia e Germania? Non è chiaro.

    Supponiamo che l’Italia fosse riuscita a ottenere il cambio tanto desiderato : 1000 lire = 1 euro. In questo modo “saremo stati tutti più ricchi”. Questo fatto avrebbe fatto crollare e fallire le esportazioni del nostro paese. Perché? Ipotizziamo che un’impresa abbia un dipendente pagato 2 milioni di lire al mese e che in un mese producesse una sedia. Supponiamo che non vi siano costi aggiuntivi se non quello del dipendente e non vi siano profitti. L’impresa vende quindi la sedia per un prezzo di 2 milioni di lire che è l’equivalente di 2000 euro (secondo il nostro ipotetico cambio tanto desiderato). Negli altri paesi europei invece avremmo un prezzo delle sedie di 1000 euro. A questo punto risulta chiaro che i prodotti italiani non avrebbero trovato nessun acquirente. L’azienda avrebbe dovuto vendere il prodotto a 1000 euro per essere competitiva e avrebbe quindi operato in perdita. Risultato: l’impresa fallisce, il dipendente è diventato disoccupato e di certo non più ricco.

    Possiamo due estrapolare due cose fondamentali:

    1. Il cambio 2000 lire = 1 euro era inevitabile
    2. Entrare con un tasso di cambio di 1000 lire = 1 euro non ci avrebbe reso più ricchi, anzi ci avrebbe rovinato.
  • Perché i governi in Italia cadono così facilmente?

    Perché i governi in Italia cadono così facilmente?

    Il grandissimo Giovanni Sartori spiegava che esistono due diversi tipi puri di democrazia.

    (foto da Il Post)

    Il più antico è il sistema presidenziale come quello nato alla fine del Settecento negli Stati Uniti d’America, che si basa sul dualismo tra Presidente e Parlamento. Ha il pregio di fare scegliere entrambi agli elettori e di essere molto chiaro. Se però Presidente e Parlamento bisticciano invece di collaborare il rischio è che il sistema si blocchi. In effetti, è un sistema che ha funzionato bene solo negli USA dove è nato, mentre ha funzionato malissimo in tutti i paesi (quasi tutti sudamericani) dove hanno provato a copiarlo.

    Il secondo tipo è il sistema parlamentare puro, nato con la Costituzione del Belgio del 1831 e che si basa sul dualismo tra maggioranza ed opposizione. Quando funziona bene il capo del governo controlla sia il potere Esecutivo che quello Legislativo ed ha potenzialmente molto più spazio di manovra di un Presidente americano, anche se non sembra. Se però il Parlamento non riesce ad esprimere una maggioranza chiara, si rischia di finire nell’assemblearismo. Ossia una gran confusione politica in cui nessuno riesce ad esprimere una visione di lungo periodo.

    Per questo sono nate due forme intermedie di democrazia, atte a mitigare i difetti delle due forme pure.

    La prima è il rinforzo del capo del governo. Questo è nato spontaneamente in Gran Bretagna a causa di un sistema elettorale che riesce a dare quasi sempre (ma purtroppo non sempre) risultati così chiari da non lasciare troppo spazio decisionale al Parlamento. In Germania ne è nata una variante basata non sul sistema elettorale, ma su regole costituzionali che rinforzano il Cancelliere rispetto agli altri ministri e rispetto al Parlamento.

    La seconda è il semi-presidenzialismo, nato in Francia negli anni Cinquanta del secolo scorso. In questo modello, le cose tendono a funzionare come in un sistema parlamentare quando dalle elezioni escono risultati chiari: il governo si forma in aula e il Presidente fa il mero arbitro. Nel caso che invece il Parlamento non riesca ad esprimere una maggioranza chiara, il sistema tende a funzionare come il sistema americano e il dualismo passa dall’essere maggioranza/opposizione ad essere governo del presidente/parlamento.

    E in Italia? La nostra Costituzione disegna un sistema parlamentare puro, che ha funzionato bene nei primi anni grazie ad un sistema di partiti forte ed una classe politica forgiata nella lotta contro il fascismo. Ma con il tempo ha cominciato a funzionare sempre peggio e presto si è cominciato a pensare di modificarla in direzione di un cancellierato o di una repubblica semi-presidenziale. Ma da almeno quarant’anni non ci si riesce a mettere d’accordo.

    Quando la situazione è particolarmente caotica, il nostro Presidente tende a smettere di fare il notaio e comincia ad avere un ruolo piuttosto attivo. Per questo in molti pensiamo che basterebbe eleggere direttamente il Presidente della Repubblica per dargli l’autorità di gestire le crisi con più efficacia. Non si tratterebbe che mettere nero su bianco quello che già accade con regolarità e spontaneamente almeno dai tempi di Sandro Pertini in poi.

    Per un decennio una legge elettorale parzialmente maggioritaria (uscita da due referendum del 1991 e del 1993) fece funzionare il nostro sistema in maniera abbastanza simile al sistema inglese. Purtroppo furono anni avvelenati dalla diatriba tra berlusconiani ed antiberlusconiani, ma per i 12 anni in cui rimase in vigore la legge Mattarella noi sapevamo assieme agli esiti del voto anche chi sarebbe andato al governo il giorno dopo. Quelli furono gli anni di maggiore durata dei nostri governi.

    I due falliti referendum voluti dal CDX nel 2006 e dal CSX nel 2016 erano entrambi un tentativo di reimpostare il nostro sistema verso un cancellierato di tipo tedesco. Quindi si basavano su regole che rinforzavano il Presidente del Consiglio abbinate però ad un sistema elettorale meno polarizzante. In entrambi i casi l’opposizione, dopo aver appoggiato il disegno, si sfilò e addirittura alla fine si oppose alla proposta. Cosa paradossale, vista la somiglianza tra i due progetti. Il risultato è che il sistema “simil-britannico” basato sul sistema elettorale venne cancellato, ma senza sostituirlo con il cancellierato. Quindi siamo ricaduti nell’assemblearismo che nel frattempo si è ulteriormente aggravato da una sempre maggiore frammentazione dei partiti. E anche, diciamolo, a causa di un crollo verticale della qualità del parlamentare medio.

    Che fare? La strada più semplice sarebbe ripristinare la legge elettorale che tra l’altro porta il nome del nostro attuale Presidente della Repubblica. Alcuni propongono invece di adottare il sistema elettorale dei Comuni e delle Regioni, assegnando un premio di maggioranza alla coalizione vincente in un secondo turno. Anche quella potrebbe essere una soluzione. L’elezione diretta dal Capo dello Stato potrebbe essere un’altra possibilità, ma essendo una modifica costituzionale avrebbe un iter molto più lungo e complicato.

    Staremo a vedere se il nuovo governo di unità nazionale sarà in grado di indirizzare il Parlamento verso una di queste riforme. Qualcosa bisognerà fare.

  • Il Power Play di Renzi è un “capolavoro”. Sarà il primo a dirtelo. – Il New York Times

    https://www.nytimes.com/2021/02/09/world/europe/italy-renzi-interview.html

    SALTA AL CONTENUTOPASSA ALL’INDICE DEL SITO

    Il Power Play di Renzi è un “capolavoro”. Sarà il primo a dirtelo.

    Con una serie di manovre che avrebbero potuto far arrossire Machiavelli, l’ex premier ha dato all’Italia un nuovo governo. Non aspettarti che nessuno lo ringrazi per questo.

    "Questa era la mia strategia", ha detto Matteo Renzi, di centro, che ha fatto cadere il premier Giuseppe Conte e ha aperto la strada all'ex banchiere centrale Mario Draghi per sostituirlo.
    “Questa era la mia strategia”, ha detto Matteo Renzi, di centro, che ha fatto cadere il premier Giuseppe Conte e ha aperto la strada all’ex banchiere centrale Mario Draghi per sostituirlo.Credito…Alessandra Tarantino / Associated Press
    Jason Horowitz

    Di Jason Horowitz

    • 9 febbraio 2021

    ROMA – Quando Matteo Renzi, l’ex primo ministro italiano attualmente con sondaggi intorno al 3 per cento, ha innescato il crollo del governo italiano il mese scorso, è diventato l’obiettivo di uno stupore e di uno smarrimento quasi universali per aver gettato il paese nel caos politico nel bel mezzo di un pandemia.

    Ora sta facendo il giro della vittoria.

    La mossa di Renzi non solo ha causato la caduta di un primo ministro e di un governo che aveva condannato come pericolosamente incompetente. Il risultato è stato anche uno straordinario aggiornamento che ha portato Mario Draghi , un titano d’Europa ampiamente accreditato per aver salvato l’euro, a mettere insieme un ampio governo di unità nazionale, che dovrebbe prendere forma questa settimana .

    In Europa, la fama di Draghi ha immediatamente accresciuto la statura e la credibilità dell’Italia nell’assorbire e spendere un enorme pacchetto di aiuti che potrebbe determinare il futuro sia dell’Italia che dell’Unione Europea. In patria, la gravità dell’arrivo di Draghi ha riorganizzato il panorama politico italiano e minato i nemici populisti di Renzi.

    “Questa era la mia strategia. Ho fatto tutto da solo, con il 3 percento! ” ha detto il signor Renzi, un tempo sindaco di Firenze che non è timido sulla sua capacità di azionare le leve del potere e sconfiggere la concorrenza. “È tutto un gioco di tattiche parlamentari. E diciamo che lavorare per cinque anni nel palazzo dove lavorò Machiavelli ha aiutato un po ‘. “

    Gli ammiratori di Renzi si sono meravigliati del suo trucco magico, con il quale ha in qualche modo creato le condizioni perché il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, tirasse fuori il nome di Draghi dal cappello. Hanno guardato al signor Draghi – che in qualità di presidente della Banca centrale europea ha detto che avrebbe fatto “tutto il necessario” per salvare l’euro – come un salvatore dopo tre anni del primo ministro Giuseppe Conte.

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    “La scelta spetta al presidente Sergio Mattarella, il merito è di Matteo Renzi e di tutto ciò che serve”, ha scritto Christian Rocca, direttore di Linkiesta , testata filoeuropea e anti-populista.

    L'arrivo di Draghi, al centro, ha immediatamente aumentato la statura e la credibilità dell'Italia nell'assorbire e spendere un enorme pacchetto di aiuti europei.
    L’arrivo di Draghi, al centro, ha immediatamente aumentato la statura e la credibilità dell’Italia nell’assorbire e spendere un enorme pacchetto di aiuti europei.Credito…Angelo Carconi / EPA, via Shutterstock

    I tifosi del signor Renzi raccontano come abbia fatto il lavoro sporco, tacitamente voluto da varie forze politiche, per allontanare il signor Conte. Così facendo, dicono, ha almeno temporaneamente abbassato il sipario su un periodo di politica populista, inaugurato dal Movimento Cinque Stelle anti-establishment e dalla Lega nazionalista di Matteo Salvini.

    Ma l’elogio più effusivo del signor Renzi può venire dal signor Renzi.

    “E ‘un capolavoro della politica italiana”, ha detto degli eventi che hanno portato Draghi a Roma.

    Il narcisismo e la nuda ambizione del signor Renzi lo hanno reso insopportabile a molti italiani.

    “Renzi resta il problema”, ha detto Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienze politiche all’Università di Bologna. L’insaziabile bisogno di attenzione del signor Renzi era “l’unica costante” nella politica italiana, ha detto.

    Amarlo o odiarlo – e molti ora rientrano in quest’ultima categoria – ciò che è difficile contestare è che Renzi è il principale operatore politico italiano, uno che non si lascia sfuggire un’opportunità politica, un virus impetuoso o nessun virus impetuoso.

    “ Perché adesso? Perché ora? Perché ora?” Il signor Renzi ha detto che persino i suoi amici gliel’hanno chiesto mentre staccava la spina proprio mentre l’Italia iniziava il lancio del vaccino. Ma ha detto che la pandemia ha messo a fuoco terrificante il rischio di rimanere sulla stessa rotta, soprattutto perché il Paese doveva decidere cosa fare con oltre 200 miliardi di euro di fondi di soccorso europei. “Se non l’avessimo fatto durante la pandemia, non l’avremmo mai fatto.”

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    Il signor Renzi ha fatto pratica in questo genere di cose.

    In 2014, he infamously tweeted that the prime minister, from his own party, should “be serene,” and then took his job. The “demolition man” of Italian politics, as he was called, seemed unstoppable.

    But in 2016, Mr. Renzi bet his office and ambitious reform agenda on a referendum to change the Italian Constitution, and all of his enemies aligned against him. He lost, resigned and promised to quit politics. Instead he stayed on as leader of the center-left Democratic Party.

    Italiani contro i cambiamenti costituzionali che celebrano i risultati del referendum di Roma 2016.
    Italians against constitutional changes celebrating the results of the referendum in Rome in 2016.Credit…Filippo Monteforte/Agence France-Presse — Getty Images

    That foothold mattered. In 2018, Five Star had the strongest showing in national elections, but lacked enough support to form a government on its own. It wooed the Democratic Party but Mr. Renzi wouldn’t allow the marriage. Instead, Five Star joined with the nationalists of Mr. Salvini’s League, forming an aggressively anti-European coalition. They chose Mr. Conte as their prime minister.

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    Mr. Renzi seemed yesterday’s news. But in 2019, Mr. Salvini, surging in popularity, jettisoned the coalition, seeking to prompt elections and grab what he called “full powers.” That’s when Mr. Renzi struck. He reversed himself and forged an alliance between his party and Five Star, icing Mr. Salvini out into the opposition.

    To increase his leverage in the new government, Mr. Renzi formed a new party, Italia Viva, which had just enough support to force Mr. Conte to rely on him for the government’s survival. Mr. Renzi hoped his party’s support would grow. It shrank.

    In the meantime, Mr. Conte led Italy through the early months of the pandemic. His popularity skyrocketed and ate into the centrist atmosphere where Mr. Renzi’s future ambitions resided. He took Mr. Renzi’s support for granted. Always a mistake.

    In January, as Covid-19 deaths racked up, curfews fell and economic frustration mounted, Mr. Renzi made a move that many considered unthinkable.

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    But even as many chalked up his felling of the government to a craven attempt to win more cabinet positions and influence, they acknowledged Mr. Renzi had some strong critiques on his side.

    He blamed the government for failing to reform a glacial justice system that scared away outside investment. He criticized the government for a lack of vision in spending hundreds of billions of euros in European relief money. He demanded that Italy apply for up to €36 billion in cheap E.U. loans earmarked for health systems.

    Dopo la sconfitta del referendum, Renzi si è dimesso da primo ministro ma è rimasto un leader del partito.
    After his referendum defeat, Mr. Renzi resigned as prime minister but remained a party leader.Credit…Filippo Monteforte/Agence France-Presse — Getty Images

    It was a poison pill, as populists in Mr. Conte’s base of support in Five Star would never stomach giving Brussels too much power. The government fell, but Mr. Conte seemed confident he could replace Mr. Renzi’s support with other lawmakers. Mr. Renzi told him good luck.

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    Mr. Conte became increasingly desperate and offered Mr. Renzi “a ton” of cabinet posts to join the government again, Mr. Renzi recounted. Instead, he strung Mr. Conte along and then, at the last minute, when he was convinced Mr. Draghi would come in, walked.

    Mr. Renzi said his near rock-bottom popularity “absolutely” gave him the freedom to maneuver because instead of fearing losing support, “I was worried about losing the opportunity.”

    Days later Mr. Mattarella summoned Mr. Draghi.

    That game of chicken played out in public. The question is: Did Mr. Renzi play a role behind closed doors in striking alliances to bring Mr. Draghi in?

    Mr. Renzi said it was always his tacit desire to replace Mr. Conte with Mr. Draghi, whom he said he spoke to often about Italy’s economic situation, including during the crisis. But he insisted that Mr. Draghi “never spoke to me” about getting into the position. Asked whether he, Mr. Renzi, had spoken to Mr. Draghi about such an outcome, Mr. Renzi replied, “Next question.”

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    “I didn’t do anything, it was all Mattarella. Smile emoji,” Mr. Renzi said mischievously, adding that out of all the political maneuvers he had made over his career, “This operation was the hardest.”

    Tellingly, Mr. Renzi’s once adamant call for the loans from Europe has softened.

    Asked whether Italy would take the loan under Mr. Draghi, he said, “Could be. Draghi will decide.”

    L’importante è che il signor Draghi fosse arrivato. Five Star, già in contrazione, rischia l’implosione poiché i suoi populisti irriducibili si rifiutano di unirsi a Draghi mentre altri accorrono a lui. Il signor Salvini, la cui base settentrionale di uomini d’affari è entusiasta del signor Draghi, deve moderare, essenzialmente gettando via anni di demagogia anti-Bruxelles.

    Renzi non avrà la leva per tenere in ostaggio la grande coalizione, e non avrà neanche lontanamente tanti posti di gabinetto quanti gli ha offerto Conte. Invece, ottiene tempo e un nuovo vento favorevole politico che potrebbe farlo volare da qualche parte meglio.

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    Nel frattempo il signor Conte ha tenuto una conferenza stampa la scorsa settimana dietro una scrivania in mezzo a una piazza, come se sollecitasse i passanti a firmare una petizione.

    Il signor Renzi ha detto che il signor Conte, come il signor Salvini prima di lui, aveva superato se stesso.

    “Adesso,” disse. “Game Over.”

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  • Quante scuse ci vorrebbero oggi a Renzi? – Il Fatto Quotidiano

    Quante scuse ci vorrebbero oggi a Renzi?

    POLITICA- 8 FEBBRAIO 2021

    Quante scuse ci vorrebbero oggi a Renzi?

    Ora possiamo dirlo con assoluta certezza. L’unica e ripetuta scusa per cercare di evitare la caduta del Governo Conte, ossia l’emergenza Covid, era una colossale balla. Come direbbe Fantozzi: una cagata pazzesca. Oggi, invece, sono diventati quasi tutti Draghetti ma solo 5 giorni fa il racconto di una buona fetta della stampa e dei fantomatici opinionisti era completamente diverso.

    La frase ossessivamente ripetuta, come inculcata da una setta, era la seguente: “questa crisi di Governo in piena emergenza Covid è incomprensibile”. E di seguito: “Renzi è un irresponsabile”. Su questi due semplici punti Conte, il Pd e il Movimento 5Stelle hanno imperversato sulle tv e sui giornali nel dipingere Renzi e Italia Viva come il nemico pubblico numero uno dell’Italia. Nemico da abbattere in ogni modo.

    Quasi tutti, poi, se costretti ad analizzare i contenuti e gli argomenti affermavano che il Governo Conte era effettivamente in ritardo ma in ogni caso con l’emergenza sanitaria in atto la crisi di Governo non era possibile. Una campagna di odio personale mai vista prima. E mentre Conte con i suoi sodali cercavano “responsabili” in Senato da acquisire, Matteo Renzi continuava in solitario a cercare di spiegare che un Governo migliore era possibile.null

    Ed eccoci ai giorni nostri. La bolla della finzione e del racconto falsato è scoppiata con una velocità che molti ancora non riescono a capacitarsi e a capire. Il Presidente Mattarella lo scorso martedì ha senza indugio e con lucidità riconosciuto che una maggioranza politica non esisteva più e ha dato l’incarico a Mario Draghi. Il Presidente della Repubblica è stato l’antidoto ad un incantesimo del populismo orchestrato da Casalino e sostenuto da una buona fetta di sistema dell’informazione.

    Per il solo fatto che Draghi abbia ricevuto l’incarico, la Borsa ha avuto risultati positivi e lo spread è sceso ai minimi storici. Ma non basta, il nome di Draghi ha obbligato tutti a fari i conti con la realtà. E mentre Casalino e Conte, scioccati dagli avvenimenti, cercavano ancora il modo per rimanere a Palazzo Chigi, ipotizzando la mancata fiducia al governo Draghi, l’Italia si svegliava improvvisamente dal lavaggio collettivo del cervello. E d’incanto Draghi risultava già più gradito e popolare del Conte.null

    Sondaggi, gradimento dei leader: la fiducia in Draghi già al 71%, Conte secondo al 65%, poi Speranza e Gentiloni. L’unico che cala è Renzi
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    Insomma, in soli 5 giorni è cambiato tutto lo scenario politico italiano. Per prima cosa si è capito che la democrazia e le critiche politiche possono essere fatte anche durante l’emergenza sanitaria.
    Chi ha continuamente utilizzato l’argomento Covid per nascondere i veri problemi del Governo dovrebbe chiedere scusa e forse dovrebbe fare meglio il proprio lavoro.null

    Abbiamo assistito a giornalisti diventati solamente tifosi e non raccontatori oggettivi della realtà.
    Tempo utilizzato male e contro i veri interessi della nostra società. Pian piano che i giorni stanno passando, l’effetto Draghi e di liberazione sta prendendo plasticamente forma. In un solo colpo il populismo anche quello giornalistico sta diventando comprensibile a molti. E ancor oggi il Pd, i Grillini e Conte non hanno capito quello che è successo e che Mattarella ha detto. Troppo impegnati ad odiare Renzi non si stanno accorgendo che il mondo è completamente cambiato.null

    Draghi ha ottenuto un incarico per formare un Governo di alto profilo istituzionale senza colori politici. Invece, i grillini e il Pd hanno detto tutto e il contrario di tutto. Irrituale e secondo me un grave sgarbo istituzionale lo ha commesso Conte qualche giorno fa. Una conferenza stampa ridicola anche nei modi, dove un premier dimissionario ha chiesto che il nuovo Governo Draghi sia un governo politico. Il tutto a consultazioni aperte. Una degna scena finale del Governo Conte.

    L’Italia si sta accorgendo sempre di più in che mani eravamo. E leggere le dichiarazioni dei grillini e del Pd in questi giorni fa capire il loro vero interesse, ossia provare in ogni modo a tenere una poltrona. Conte che dice di non voler incarichi di governo, fa ridere solamente così.null

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    Conte ai parlamentari M5s: “Non entrerò nel governo, ma voltare le spalle a Draghi è come voltarle al Paese. Temo la Lega sul Recovery, noi siamo l’ago della bilancia”

    Insomma, ora tutti guardano a Draghi e si rendono conto che la competenza al governo si può avere e pretendere. Lo avevamo detto, il tempo è galantuomo e sta accadendo velocemente. Ma quante scuse ci vorrebbero oggi a Renzi? Quello che voleva poltrone per sé, quello che era irresponsabile, quello che tanto non sarebbe andato mai fino in fondo, quello antipatico e meno popolare. E invece quanti grazie ci vorrebbero per la Bellanova, la Bonetti e per Ivan Scalfarotto? Persone che hanno rinunciato alle loro poltrone per evidenziare i limiti del governo Conte. E quanti grazie ci vorrebbero al gruppo di Italia Viva al Senato e alla Camera? Che hanno tenuto duro agli insulti e al mercato delle vacche.

    La politica quando fatta veramente con passione e ideali questo insegna. La forza delle idee questo regala. Non tutti oggi lo riconosceranno ma anche per questo ci sarà tempo. L’ultima considerazione ai vecchi amici Pd che per seguire il copione di Casalino hanno rinnegato e offeso Renzi. Anche in politica, come diceva Totò, esistono gli uomini, i mezzi uomini e i quaquaraquà. Ad ognuno il suo.

  • Il governo Draghi è un capolavoro di Matteo Renzi, il Re del 2%

    Ha vinto lui

    Il governo Draghi è un capolavoro di Matteo Renzi, il Re del 2%

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    Corre voce che questo giornale sia renziano. Non è vero. È un giornale assolutamente indipendente, liberale, garantista, socialista, anti sovranista, antipopulista – mi fermo qui… -, che crede nella funzione dei partiti ma si tiene ben lontano dai partiti. Ok? È un giornale che spesso ha apprezzato le idee e le proposte di Renzi, e spesso ha criticato le sue oscillazioni su temi cruciali come l’immigrazione (mancata approvazione dello ius soli da parte del suo timido partito) e come il garantismo, terreno sul quale più di una volta gli è capitato di dondolare (a parte il peccato originale, praticamente incancellabile, di avere proposto Nicola Gratteri come ministro della Giustizia…).

    Poi, tra l’altro, noi siamo un giornale pluralista, e qui in redazione ci sono quelli ai quali Renzi piace molto e quelli che lo sopportano poco. Detto tutto questo, oggi come oggi è abbastanza difficile negare che Renzi abbia avuto un successo politico strepitoso. E che, a occhio e croce, nel giro breve di un paio d’anni abbia dimostrato di essere, come leader politico, di qualche anno luce al di sopra dei suoi interlocutori o avversari. Tutti. Proviamo a fare qualche confronto. Renzi e Salvini.

    0:25 / 1:24L’incarico a Draghi, la vittoria di…

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    Salvini ha avuto un successo notevole alle elezioni del 2018, conquistandosi la leadership del centrodestra. È entrato nel governo, è diventato vicepremier e ministro dell’Interno, ha raccolto attorno a se tutte le telecamere d’Italia. Cosa ha ottenuto? Niente: la svolta del Papeete (nella quale, come si dice a Roma, si è ribaltato in parcheggio), la perdita del governo, e poi il cono d’ombra, sebbene i sondaggi dessero il suo partito in costante e clamorosa crescita. Oggi Salvini guida un partito che è accreditato del 25 per cento dei consensi elettorali ed è virtualmente il primo partito: ed è immobilizzato.LEGGI ANCHE

    Renzi invece guida un gruppetto un po’ al di sopra del 2 per cento ed è il capo dell’ultimo partito (persino Calenda, dicono, l’ha scavalcato…). Eppure, con il suo 2 per cento, Renzi fa e disfa governi: dopo aver insediato Conte a Palazzo Chigi con Speranza e Franceschini, ora lo ha mandato a casa senza che lui se ne accorgesse, ha beffato e sbeffeggiato il gradasso Travaglio (padrone di La 7), ha liquidato Bonafede, ha umiliato il Pd e ha sistemato Draghi a Palazzo Chigi, probabilmente permettendo all’Italia di avere finalmente un governo dopo due anni di ribalta dominata da vari dilettanti e figuranti. Beh, sembra un po’ Ronaldo che gioca a pallone con mio cugino… È solo un giocoliere? Un talento assoluto della manovra e basta? È solo fumo?

    Non si può dire così. In primo luogo perché quest’ultima operazione, se andrà in porto, è una operazione politica di grandissimo peso. L’Italia stava correndo a perdifiato, allegra e instupidita, sull’orlo di un burrone. Con la pandemia, il morso feroce della crisi economica, la necessità di gestire un nuovo piano Marshall e la totale assenza di una classe politica e persino di una maggioranza. Si trovava governata da un esecutivo la cui forza si risolveva nella personalità di cartone dell’avvocato Conte. Privo di carisma, di idee, di conoscenze, di esperienza. Il rischio quale era? Di mandare a monte il piano Marshall e di trovarsi staccatissima dalle grandi potenze europee. Incapace di rialzarsi, di reagire.
    Ci sono dei momenti, nella storia delle nazioni, nei quali conta moltissimo il valore della propria classe politica. L’Italia purtroppo non ha più classe politica.

    Era un paese che nel dopoguerra aveva trovato la sua fortuna in una generazione politica formidabile. Che era stata selezionata e rappresentava la parte migliore della sua intellettualità. Espressione di una borghesia robusta e coraggiosa e di una classe operaia potente e compatta. I democristiani, i comunisti, e poi i modelli geniali del Psi e i colti e raffinati repubblicani. Forse pochi paesi dell’Occidente avevano a loro disposizione partiti e leader così preparati e forti. Persino l’opposizione estrema, quella di destra un po’ fascista e quella di sinistra sovversiva e in alcune frange violenta o addirittura sanguinaria, era una opposizione intellettualmente di grande qualità. Nessuno può negare che fosse così. La forza di questa politica era la struttura ed il radicamento dei partiti, che erano fucine di idee, di cultura, di compattezza sociale e anche di capacità di governo.

    Poi, lo sapete, arrivò Mani pulite e sfasciò tutto. Nessuno si aspettava che una struttura politica che aveva resistito alla guerra fredda, alla mafia, al terrorismo, alla crisi economica, finisse sbaragliata da un gruppetto di magistrati. Eppure successe esattamente questo. Il paese che temeva la rivoluzione comunista o il golpe di destra finì nel sacco di un potere che aveva esso stesso costruito al suo interno, ingenuamente e un po’ vigliaccamente. Beh, oggi i partiti non esistono più – lo spettacolo offerto dal Pd in questa crisi, capace solo di sistemarsi in seconda fila alla corte di Conte – è stato spaventoso. E non c’è più classe politica. Né la destra, né la sinistra hanno leader all’altezza. I grillini hanno Grillo e il gruppetto di avvocati che girano intorno a Conte, e poi basta. È in questo deserto che Matteo Renzi, il bullo, l’inaffidabile, il narciso, l’egocentrico, si è rimboccato le maniche, si è messo a tessere la tela. Ha fatto politica e ha trovato una soluzione. Con la stessa spregiudicatezza e capacità di sogno e di avventura che aveva Bettino Craxi.

    Vi piace Renzi? A me mica tanto. Mi ha deluso molte volte. Credo che abbia anche lui delle colpe nell’annientamento dei partiti politici (il modo nel quale ha liquidato il Pd e raso al suolo la vecchia tradizione e sapienza che veniva dalla Dc e soprattutto del Pci, ”ancor mi offende”). Penso anche che almeno in una prima fase abbia seguito la spinta populista e abbia delle responsabilità nel trionfo del grillismo. E però come fai a non rendergli omaggio per l’operazione-Draghi e per come si è dimostrato due o tre o quattro spanne al di sopra di tutti gli altri. È uno statista? Non so. Aspettiamo. Sicuramente, se tra i leader presenti in Parlamento ci fosse uno statista, di sicuro sarebbe lui. Questo vuol dire che Draghi è la salvezza? Non ci scommetterei.

    Draghi è una persona di qualità molto alte e ha più di altri la possibilità di governare. In un clima politico nel quale nessuno è in grado di definire destra e sinistra (destra e sinistra hanno entrambe il problema di ridisegnarsi e di ritrovare le proprie rispettive e distinte anime) non si capisce perché non si dovrebbe dare a lui l’incarico, visto che, a occhio, è il più bravo. I miei amici di sinistra dicono: no, Draghi è la borghesia, è la tecnocrazia, la sinistra è un’altra cosa. Grazie. Ma la sinistra forse ha qualche idea o qualche leader da mettere a disposizione del paese? Vogliamo fare un governo Speranza, un governo Zingaretti, un governo Acerbo? Siamo seri. La sinistra deve rimboccarsi le maniche e provare a rinascere. Pagando pegno per l’orrore che ha fatto mettendosi al servizio di una forza reazionaria come i 5 Stelle. Ci vorrà del tempo.

    E la destra? Uguale. Quando Salvini ha provato a governare ha solo combinato pasticci. Ha dimostrato di non avere visione, progetti, senso dello Stato. Di essere prigioniero della sua propaganda. Noi ora usciamo da un triennio nel quale ha governato, in modo uniforme, un gruppo di dilettanti su posizioni neo-autoritarie. In questo, tra Salvini e Conte non c’è stato un abisso. Si son dimostrati simili. Draghi si propone come governo neutro. Dico meglio: di coalizione. Nel senso vero della parola coalizione. Coalizione tra diversi. Ci sono pochi esempi nel passato. Forse l’unico esempio possibile è il governo Andreotti del 1978. Sostenuto dai comunisti. Sotto il tiro e il fuoco delle brigate rosse. Sfregiato dal rapimento Moro. Con l’inflazione che galoppava e l’America che ci odiava. Anche la Russia. Durò un po’ più di un anno.

    Fece la riforma sanitaria (primo nel mondo ad assicurare la sanità a tutti), la riforma psichiatrica (la più grande legge di rottura dell’autoritarismo, con un valore culturale immenso), introdusse l’aborto, riformò i patti agrari e lo stato di famiglia, istitutì l’equo canone, portò Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Vi pare poco? È stato forse (senza forse) il governo più riformista della storia della Repubblica. Se Draghi facesse anche solo la metà di quel che fece quell’anno Andreotti

  • Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    La trappola dell’ecofascismo https://flip.it/P7mcDk

    IMMAGINE: ADOLF HITLER PASSEGGIA CON IL DIPLOMATICO TEDESCO WALTHER HEWEL NELLE ALPI DI BERCHTESGADEN, NEL 1942. FOTO DI WALTER FRENTZ/WW2GALLERY 21.1.2021

    La trappola dell’ecofascismo

    Appunti sul rapporto ingannevole e pericoloso tra ideologie autoritarie e preoccupazioni ambientaliste.

    L’estate del 2019 verrà ricordata per due attacchi terroristici: gli attentati di stampo islamofobo a Christchurch, in Nuova Zelanda, 50 morti, e la strage ispanofoba di El Paso, in Texas, 22 morti. Avevano un elemento comune evidente a tutti: gli autori erano suprematisti bianchi. Ma c’era anche dell’altro: negli scritti ritrovati dopo gli attacchi, gli attentatori parlavano, tra le altre cose, di ambiente. La stampa cominciò in quei giorni a usare la parola ecofascismo per descrivere l’ideologia che li muoveva. Il manifesto The Great Replacement, la grande sostituzione, diffuso nell’estate del 2019 da Brenton Tarrant, autore della strage di Christchurch, recitava: 

    Non esiste conservatorismo senza natura, non c’è nazionalismo senza ambientalismo, l’ambiente naturale della nostra terra ci ha formato tanto quanto noi stessi abbiamo fatto con esso. Siamo nati dalle nostre terre e la nostra stessa cultura è stata plasmata da esse. La protezione e la preservazione di queste terre ha la stessa importanza della protezione e preservazione dei nostri ideali e del nostro credo.

    Qualcuno si ricordò così del 2017, quando durante i disordini seguiti al raduno razzista dello Unite the Right Rally, a Charlottesville, in Virginia, venne assassinata Heather Heyer, manifestante di una contro-protesta anti-suprematista. Anche in quei giorni erano spuntate dichiarazioni che univano tutela ambientale ed estrema destra. “Abbiamo la possibilità di diventare gli amministratori della natura, o i suoi distruttori” aveva scritto Richard Spencer, esponente della cosiddetta alt-right, nel manifesto ideato per l’occasione.

    Con l’arrivo della pandemia si è tornato a parlare di ecofascismo. Durante i primi lockdown totali, sui social sono diventati virali foto e video (a volte artefatti) della natura che guariva e si riprendeva il pianeta, acque dei fiumi che tornavano limpide e animali che popolavano le strade deserte mentre buona parte degli esseri umani era confinata in casa. “Noi siamo il virus”, era la didascalia di queste foto, un meme diventato quasi subito parodia di sé stesso. Eppure, nonostante fosse nato con intenzioni completamente diverse, in molti hanno notato che, a volerlo prendere sul serio, non esiste slogan migliore di “Noi siamo il virus” per riassumere la violenza dell’ecofascismo e la sua misantropia. La narrazione della natura come soggetto puro che, una volta separato dall’uomo, risorge, è una narrazione feticizzata e pericolosa, proprio perché cancella le componenti sociali, culturali ed economiche. E, come ha scritto Grist, importante rivista statunitense di orientamento ambientalista: “la verità più insidiosa (e scomoda) è che inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista”. 

    Ma che cosa significa quindi ecofascismo? Non è semplice rispondere. Come con il fascismo eterno descritto da Umberto Eco, anche l’ecofascismo non sembra avere una semplice e univoca definizione, o una caratteristica esclusiva che lo possa definire. Dire cos’è l’ecofascismo non è una questione di dizionari, e oggi diverse fonti, anche diametralmente opposte, sembrano ancora servirsi di questa parola piuttosto liberamente. Per esempio James Delingopole, editor della testata di estrema destra Breitbart, negazionista climatico e scientifico (a inizio della pandemia ha cercato di vendere una cura, da lui “collaudata”, ai suoi seguaci), nel 2013  ha scritto un intero libro per denunciare l’ambientalismo mainstreamdefinendolo, appunto, ecofascista.

    Allo stesso tempo, nell’opposto spettro politico, alcuni ambientalisti hanno parlato di ecofascismo a proposito delle dichiarazioni della primatologa Jane Goodall, intervenuta al Forum economico mondiale del 2019. Goodall aveva detto che gran parte dei problemi ambientali erano dovuti all’aumento della popolazione mondiale e che quindi molti di questi non esisterebbero se il numero di esseri umani sul pianeta fosse quello di 500 anni fa. Per i critici affermazioni come queste rivelano un ingenuo malthusianesimo e, soprattutto, sollevano inevitabilmente domande pericolose: se siamo troppi sul pianeta, chi sarebbe in più? Se consideriamo la distribuzione della natalità, dovremmo concludere che sono di troppo proprio i paesi più poveri, di cui l’Occidente ha sempre sfruttato le risorse. Sono loro a dover essere oggi “contenuti”. Non è difficile immaginare le implicazioni di questo tipo di ragionamenti, ed è per questo che anche le parole di Goodall sono state tacciate di ecofascismo, e quindi criticate anche e soprattutto dal mondo ambientalista. Lo stesso trattamento che è stato riservato alla filosofa Donna Haraway, colpevole di dichiarazioni non dissimili sulla riduzione della natalità, nonostante il suo appello fosse in realtà costruito e argomentato in chiave femminista, antirazzista e anticolonialista. Tuttavia, come ha scritto la professoressa Banu Subramaniam, anche da queste prospettive, il controllo della popolazione non può essere separato dalla sua dimensione coercitiva e dal suo bagaglio razzista e coloniale, ancora attuale.

    Inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista, ma una definizione semplice e univoca di ecofascismo non sembra esistere.

    A queste difficoltà “tassonomiche” aggiungiamo il fatto che sono in pochi a rivendicare apertamente il termine ecofascismo per descrivere la propria ideologia, o una sua parte. “Un tentativo di definizione di ecofascismo potrebbe essere questo: l’ideologia che affronta i problemi ecologici senza tenere conto dei problemi sociali di tutte e tutti, specialmente dei più deboli. E le soluzioni a questi problemi, o presunte tali, sono quindi autoritarie”. Parla Marco Armiero direttore dello Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology (Svezia). Come storico dell’ambiente Armiero si è occupato anche degli aspetti “verdi” del fascismo italiano. Una linea di ricerca già esplorata alla fine del secolo scorso a proposito della Germania nazista. 

    Eccoci allora di fronte a un ecofascismo che potremmo definire “storico”. Ma possiamo trovare un filo rosso che lega l’ecologismo attuale, o parti di esso, a quello studiato nei due regimi? Ci dovremmo chiedere, come fanno alcuni, se non sia l’ecologismo stesso un prodotto tossico di quel passato? In realtà, mi spiega Armiero, non è così semplice. Per usare un noto paradosso, il fatto che Hitler fosse o non fosse vegetariano e per quali motivi, non ci è di nessuna utilità per capire il vegetarianesimo attuale e le sue motivazioni.

    Camicie nere, retoriche verdi
    I regimi autoritari – racconta Armiero – mobilizzano tutto quello che è intorno a loro, quindi anche le spinte che definiremmo ecologiste. Possiamo a buon diritto parlare di ecofascismo “storico”, ma sarebbe un gravissimo errore credere che nazisti e fascisti avessero una coscienza ecologica così spiccata. La tesi delle radici naziste dell’ecologismo attuale è stata avanzata dalla storica Anna Bramwell alla fine dello scorso secolo. Ma da allora questa interpretazione è stata molto criticata, e per molte ragioni. Per esempio, la Germania aveva già una certa tradizione di protezione del paesaggio, che precedeva anche di secoli l’ascesa del nazionalsocialismo. Che ha, è vero, varato delle leggi apparentemente avanzate in merito, ma lo ha fatto nella misura in cui alimentava il mito propagandistico del sangue e del suolo. E alla fine, nonostante le tante parole di ammirazione per la natura e per i paesaggi bucolici, la Germania nazista era una macchina industriale, al servizio della guerra. Quando l’agognato conflitto arrivò, fu chiaro che non c’era posto per l’ambiente: tra suolo e sangue, era il secondo a contare davvero. Potremmo azzardare qui un paragone col cosiddetto nazismo esoterico, un aspetto che in molti prodotti di fiction (e non solo) è stato presentato come una colonna portante del Terzo Reich nonostante per gli storici i nazisti non fossero affatto ossessionati dall’occulto, come spesso ci piace pensare. Questo valeva forse solo per Himmler e pochi altri, mentre la nozione che il Terzo Reich avesse chissà quale legame con il magico è stata del tutto smentita dai documenti.

    In Italia possiamo fare un discorso simile riguardo al rapporto tra tutela ambientale e fascismo. Anche la nostra dittatura sanguinaria, complice del Führer, è intervenuta sul paesaggio in un modo che, in alcuni casi, almeno superficialmente, potremmo definire ecologista. In Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, Armiero e il collega Wilko Graf von Hardenberg (del Max Planck Institute for the History of Science) spiegano che anche i fascisti avevano la loro versione del mito del sangue e del suolo, modellata naturalmente sulle passate glorie di Roma. La natura doveva sì essere protetta, ma anche addomesticata, cioè sfruttata per alimentare il regime e la sua propaganda. Non solo con le celebri bonifiche, una delle “cose buone” che ai revisionisti piace ricordare. Venivano anche imposte grandi infrastrutture idroelettriche e, accanto, interventi di riforestazione il cui vero scopo, però, non era altro che proteggere dall’erosione i lucrosi invasi (e le riforestazioni erano sovvenzionate dalle stesse società idroelettriche). 

    Si può parlare di elementi di ecofascismo nell’ideologia nazista, ma sarebbe un gravissimo errore credere che il regime avessero una coscienza ecologica così spiccata.

    Dopo la Marcia su Roma il fascismo istituì anche dei parchi nazionali, come quello d’Abruzzo, di cui Mussolini appena insediato si intestò il successo. Peccato che, a ben vedere, il lavoro per proteggere quell’area, e gli orsi che ci abitavano, era cominciato ben prima, in epoca liberale. In altri parchi poi il regime continuò a costruire dighe, con gli stessi metodi. Nessuno di questi interventi però teneva in gran conto le relazioni ecologiche, e nemmeno di quelle sociali: il paesaggio doveva essere un’espressione del potere fascista, tanto sulla natura, quanto sulle persone. Per esempio, il fascismo cercò di proteggere i nuovi boschi e il suolo dichiarando guerra all’allevamento di capre, ma quegli animali servivano a chi sulle montagne ci viveva: anche gli abitanti dovevano essere addomesticati.

    Che cosa è sopravvissuto
    Ricondurre la nascita dell’ecologismo moderno al nazifascismo è quindi sbagliato a più livelli. Da un lato, l’ambiente è una questione politica da ben prima del Terzo Reich, o della Marcia su Roma. Nella storia umana sono esistite leggi a tutela dell’ambiente in moltissime civiltà, e anche prendendo in considerazione il solo Ventesimo secolo, non è possibile appiattire la discussione al presunto contributo di questi regimi. In secondo luogo, è dimostrabile come quel tipo di ecologismo, se davvero così si può chiamare, fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina del consenso e della repressione. 

    La domanda però rimane: quel primo ecofascismo ha comunque lasciato qualche pericolosa eredità di cui oggi dovremmo preoccuparci? L’ecologismo può diventare un cavallo di Troia attraverso il quale normalizzare ideologie genocide? Nel saggio di Janet Biehl e Peter Staudenmaier Ecofascismo. Lezioni dall’esperienza tedesca (1995), la tesi degli autori è proprio questa. A cinquant’anni dalla fine della guerra, qualche residuo di quella ideologia strisciava ancora nei discorsi di alcuni partiti e movimenti verdi in Germania, che in tempi non sospetti proponevano già un adagio che sarebbe diventato noto: non siamo né di destra, né di sinistra, siamo davanti. Uno slogan che gli autori del saggio riconoscono come storicamente ingenuo e politicamente fatale, dietro al quale si nascondeva (e spesso si nasconde ancora) l’estrema destra. Inquietanti simili sfumature si potevano trovare nello stesso periodo anche nei discorsi del Front National, in Francia, che provarono a porre il fenomeno migratorio all’interno della cornice della sostenibilità ambientale: non possiamo accoglierli tutti. 

    È possibile allora tracciare un filo rosso che parta, in maniera inequivocabile, da questi esempi a cavallo degli anni Novanta fino ai casi più recenti? Sappiamo del resto che oggi alcune comunità di suprematisti bianchi si sono effettivamente avvicinate al discorso ambientale, e che a volte sono davvero convinte tanto della necessità di mantenere pura la razza quanto dell’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Per esempio, l’ormai noto “Sciamano di QAnon”, Jake Angeli, al secolo Jacob Anthony Chansley, il più fotografato degli invasori del Congresso USA lo scorso 6 gennaio, aveva partecipato anche ad alcune marce per il clima. Vale la pena notare che questa rivelazione è stata immediatamente impugnata da Michael Shellenberger, influencer del negazionismo climatico cosiddetto “morbido”, che accetta il riscaldamento globale antropogenico ma ne minimizza i pericoli. Nei suoi tweet Shellenberger, vicino ai Repubblicani, ha ventilato (senza ironia) l’ipotesi che Jake Angeli fosse un attore pagato. La giornalista scientifica Emily Atking ha puntualizzato: “il tipo con le corna non è un attivista climatico, è un ecofascista”.

    Oggi nuovi gruppi di estrema destra rivendicano un interesse “ecologista”, ma l’ecofascismo rimane una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale.

    Ma possiamo davvero chiamare ecofascismo l’ideologia delle nuove destre, in USA e in Europa? Secondo Armiero è di nuovo importante contestualizzare la loro reale portata. Nessuno dovrebbe aver difficoltà a riconoscere l’ideologia tossica di questi movimenti, e della loro pericolosità abbiamo esempi concreti. “Ma dobbiamo considerare che se Casapound, per esempio, ha un gruppo ‘ecologista’ chiamato ‘Foresta che avanza’, non è certo per questo che è nota. Perché dovremmo preoccuparci dei vari paraventi ambientalisti, quando è così evidente che sono accessori, e per altro sconosciuti ai più? La coscienza ambientale, vera o presunta, nuova o ritrovata, di questo tipo di gruppi è insomma abbastanza irrilevante di fronte a tutto il resto”. L’opinione dello storico è simile a quella della filosofa Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina a Chapel Hill, che via mail mi scrive: “Per quanto mi risulta, l’ecofascismo è una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale, legata a temi come il credo nazista del Blut und Boden e a un’interpretazione molto ‘selettiva’ ed ‘eclettica’ (per mancanza di termini migliori) di alcune idee di Heidegger e di Arne Naess (fondatore della Deep Ecology). Non sono a conoscenza di nuclei ‘ecofascisti’ in Italia (di solito, anzi, i neofascisti nostrani, specie nelle loro simpatie militaristiche, sono abbastanza alieni a preoccupazioni ecologiche).”

    Non si può nemmeno dire che sia una propaganda efficace, a conti fatti. Se guardiamo ai grandi movimenti ambientalisti, o agli stessi partiti “verdi” che ne dovrebbero esserne espressione, il moderno ecologismo è tradizionalmente portato avanti (nel bene e nel male) da sinistra, dice Armiero. Anche quando i Verdi lavorano in parlamento con le destre, come è accaduto in Svezia, non si tratta di destre nostalgiche, o autoritarie. “Sarebbe un grave errore dare a queste realtà un peso maggiore di quello che meritano”.

    Dall’ecofascismo all’ecoautoritarismoTorniamo allora alla definizione provvisoria di Armiero. L’ecofascismo è quando si affrontano i problemi ecologici in maniera autoritaria e senza considerare i problemi sociali di tutti e tutte. In fondo questa definizione, a ben vedere, non ha bisogno di ancorarsi a un preciso precedente storico. Nonostante il nome, l’ecofascismo non necessiterebbe così di trovare le vere e proprie camicie nere che lo esercitano. Forse questo è anche il motivo per cui la parola è usata in maniera incoerente, più per colpire un avversario che per definirlo politicamente.

    Proviamo allora a introdurre un concetto che è spesso del tutto sovrapponibile, ma forse suona meno problematico da usare: ecoautoritarismo. Uno degli esempi più noti riguarda la conservazione della natura negli Stati Uniti. I grandi parchi nazionali americani sono un vanto della nazione, e sono stati un esempio per altri paesi, Italia inclusa. Raramente però ricordiamo che quando cominciarono a essere istituiti, a metà dell’Ottocento, le popolazioni indigene eventualmente presenti non facevano assolutamente parte del disegno. Teddy Roosevelt fece della conservazione una priorità della sua presidenza (1901 – 1909), ma è anche passato alla storia per aver detto Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo”. Come ha scritto di recente Prakash Kashwan su The Conversation, oltre un secolo dopo Roosevelt la conservazione della natura, che a livello mondiale è in genere guidata da anglo-sassoni, ha ancora enormi problemi a riconoscere il ruolo delle popolazioni indigene. A questo proposito, basterebbe ricordare lo scandalo degli abusi commessi dalle milizie finanziate dal WWF per proteggere i parchi in diverse zone del mondo: dopo le denunce di Survival International relative alla persecuzione di pigmei Baka in Congo, un’inchiesta di Buzzfeed ha portato alla luce altri casi, offrendo prove che le comunità indigene sono ancora oggi sacrificate nel nome della conservazione. 

    Del resto, come nota Kashwan, gli indigeni nei documentari sulla natura spesso sono invisibili, nella migliore delle ipotesi. Questo rimosso non risparmia nemmeno quelli in cui sono coinvolti mostri sacri della divulgazione, come David Attenborough. Nel documentario Wild Karnataka (2019), da lui commentato, è stata oscurata, dalla narrazione, la presenza delle persone che chiamano casa quelle foreste e che hanno contribuito a creare e proteggere quella natura che vediamo nelle immagini mozzafiato HD del documentario. È la retorica della wilderness, intesa nella sua forma più tradizionale. L’idea ottocentesca ed eurocentrica che esistano grandi spazi incontaminati da preservare, sul modello statunitense, a uso e consumo di chi li esplora per la prima volta. Questo concetto di “natura originaria”, nota Iovino nel libro Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2008) è criticato da decenni da filosofi e storici come “un’invenzione”, ma è ancora utilizzato.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche (provvisoriamente) lontano dall’estremismo. Può sembrare addirittura ragionevole, persino in contesti democratici. Se l’ambiente che ci sostiene è in pericolo, se siamo in un’emergenza ecologica, non dovremmo essere disposti a soluzioni imposte dall’alto, purché radicali? Armiero mi fa l’esempio della casa che va a fuoco: chiamiamo subito i vigili del fuoco, non facciamo un’assemblea di quartiere. Nel caso dell’ambiente, però, questo decisionismo può diventare pernicioso, perché tende a ignorare, o sopprimere, le lotte sociali a esso collegate.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche, provvisoriamente, lontano dall’estremismo; può sembrare addirittura ragionevole.

    8Un possibile esempio di ecoautoritarismo viene allora dall’India, dove il governo ha lanciato un ambizioso programma di ripristino ecologico dei fiumi, che spesso accolgono i liquami prodotti nelle baraccopoli che sorgono sulle loro rive. Si tratta di un grave problema (senza contare il rischio delle piene) che il governo ha deciso di risolvere in maniera muscolare, semplicemente obbligando le persone a sparire da lì, distruggendo le loro abitazioni.

    Durante la conversazione Marco Armiero mi ricorda l’esempio di Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano il cui pensiero è spesso riassunto con la massima “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. La lotta di Chico Mendes per preservare la foresta Amazzonica andò di pari passo con quella per i diritti dei lavoratori che da quella foresta dipendevano. Lo stesso Mendes era infatti un seringueiro, cioè un raccoglitore di caucciù. Come molti, aveva cominciato a lavorare da bambino e l’istruzione gli era stata negata dagli stessi che lo impiegavano. Ormai adulto imparò a leggere e cominciò la sua attività di sindacalista. Col declino dei prezzi della gomma, infatti, la foresta cominciò a essere bruciata e tagliata e la battaglia dei seringueiros per proteggerla si intrecciò con quella del movimento ambientalista. Mendes introdusse il concetto di riserva estrattiva, cioè aree naturali protette, di proprietà pubblica, ma che non escludono lo sfruttamento economico da parte delle persone, a partire dagli indigeni che ci vivevano dentro. Oggi la parola sostenibilità è abusata, usata come vuota parola d’ordine, ma negli anni Ottanta Mendes aveva davvero capito il suo significato. Era infatti convinto della necessità di diversificare i prodotti estraibili dalla foresta, perché valorizzare una sola risorsa (il legno, per esempio) esponeva ambiente e lavoratori a rischi maggiori. Fu assassinato nel 1988, a 44 anni, dal proprietario terriero Darly Alves da Silva e da suo figlio Darci, che materialmente premette il grilletto.