Categoria: Cultura

  • Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    SCIENZEANTONIO SGOBBA / IMMAGINE DA FACEBOOK: CARTELLO DI UNA MANIFESTAZIONE NO-VAX, IL 20 GIUGNO 2020 A FIRENZE. 11.9.2020

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Una riflessione filosofica sulla sfiducia nella scienza.

    Antonio Sgobba è giornalista. Il suo ultimo libro è “La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp” edito da Il Saggiatore. È stato il responsabile della sezione culturale di IL, ha collaborato con La lettura, Wired, Pagina 99 e altre testate. Dal 2016 lavora in Rai.

    Da più parti si ripete che in questo momento abbiamo un diffuso problema di fiducia; si parla in particolare di mancanza di fiducia negli esperti. Non è una novità, la fiducia è sempre stata fragile; è in crisi più o meno da quando esiste. La diffidenza nei confronti degli esperti è antica come la democrazia, e in fondo non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i competenti regnassero incontrastati e amati dal popolo. Come in tutte le relazioni ci sono stati alti e bassi, questo è sicuramente uno dei momenti bassi, né il primo né l’ultimo della sua storia. Quello che dovrebbero chiedersi gli esperti non è come riscostruire la fiducia distrutta ma come ritrovare l’affidabilità perduta.

    (…)

    “Vorrei proporre alla benevola considerazione del lettore una teoria che potrà forse sembrare paradossale e sovversiva”. Cominciava con queste parole il saggio di Bertrand Russell Sul valore dello scetticismo, scritto nel 1928, e poi raccolto nei suoi Saggi scettici. “La teoria è questa”, continua Russell, “che sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non ci sia un fondato motivo per supporla vera”. Bisogna riconoscere che è una bella idea, un’espressione moderata ma impegnativa di scetticismo; il mondo sarebbe davvero migliore se tutti facessimo così. “Se questa opinione divenisse comune, ne risulterebbero completamente trasformati la nostra vita sociale e il nostro sistema politico” riconosceva Russell.

    Questa teoria ci può guidare anche quando ci troviamo nella situazione in cui dobbiamo giudicare degli esperti in disaccordo tra loro. Il filosofo inglese scrive proprio che lo scetticismo che lui auspica si riduce a queste tre proposizioni:

    1) che quando gli esperti concordino nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa;

    2) che quando essi non sono d’accordo, nessuna opzione può essere considerata certa dai non esperti;

    3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio.

    Tutto qui. “Queste proposizioni sembrano forse semplicissime: eppure una volta accettate, rivoluzionerebbero completamente la vita umana”, scriveva Russell.

    Quasi un secolo dopo possiamo dire che la rivoluzione scettica non è mai arrivata. L’autore era consapevole delle difficoltà, sapeva che “le opinioni sostenute con passione sono sempre quelle per le quali non esiste alcuna buona giustificazione”. Una frase forse troppo assoluta per uno scettico – sempre? –, ma se guardiamo ai dibattiti pubblici con cui abbiamo a che fare è un’affermazione vera in molti casi.

    Le proposizioni di Russell si basavano su un’assunzione implicita: gli esperti sono autorità epistemiche. È proprio questa l’idea che oggi ci sembra più in discussione. I filosofi la definiscono così:

    L’autorità epistemica è la capacità dell’esperto di influire su altri individui “imponendo” loro l’adozione di una credenza sulla base della superiorità epistemica.

    C’è qui una differenza fondamentale rispetto a un altro tipo di autorità, la cosiddetta “autorità pratica”, quella in grado di imporre l’esecuzione di un’azione; sul piano epistemico le cose stanno diversamente, non si può imporre a qualcun altro di credere qualcosa. Lo fa notare il filosofo Michel Croce in un saggio del 2020 (Di chi posso fidarmi, Il Mulino): “In generale, il termine ‘autorità epistemica’ non gode di buona fama, per via del valore che attribuiamo all’ideale dell’autonomia del soggetto epistemico, che apparentemente è in contrasto con la nozione e il ruolo dell’autorità epistemica”.

    Quello che è difficile da accettare è l’idea stessa che esistano individui autorizzati a dirci cosa credere. Per questo i filosofi considerano l’“autorità epistemica” esclusivamente la proprietà tipica di quanti sono esperti in un determinato ambito. Questa posizione è tacitamente presente anche in gran parte del dibattito pubblico.

    Può essere invece utile, per fare un passo avanti nel dibattito, distinguere i due concetti. Pensare a un’autorità epistemica come qualcosa di diverso da un esperto. Non è così astratto come sembra. Dobbiamo la distinzione alla filosofa americana Linda Zagzebski. Un criterio per distinguere esperti e autorità epistemiche sta nel classificare i soggetti in base al ruolo che svolgono all’interno della comunità e sono tre gli aspetti rilevanti: l’affidabilità dei soggetti epistemici, la loro relazione con i rispettivi interlocutori, le loro abilità intellettuali. Entrambi i soggetti, l’esperto e l’autorità epistemica, sono affidabili, diverso invece è il rapporto con gli interlocutori inesperti: “La nozione di esperto richiede che il soggetto sia epistemicamente superiore alla maggioranza degli individui di un determinato ambito, mentre la nozione di autorità epistemica richiede semplicemente che questi sia superiore all’interlocutore”; l’esperto può quindi avere una migliore comprensione del settore in questione, mentre l’autorità epistemica è in una relazione personale migliore con il soggetto che ne sa di meno.

    La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori.

    L’elemento della relazione con l’interlocutore è un requisito necessario per l’autorità epistemica, non lo è per l’esperto: un esperto può essere in grado di contribuire al progresso della sua disciplina indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con particolari interlocutori. Un’autorità epistemica e un esperto hanno anche diverse virtù intellettuali: le conoscenze dell’autorità si rivolgono a chi non è un addetto ai lavori, le qualità dell’esperto sono invece orientate alla ricerca.

    Gli scienziati, quindi, per essere creduti devono fare un passo in più, devono ricordarsi chi sono. La ricerca scientifica è sinonimo di patto, comunità, consenso, ma spesso gli scienziati si limitano a riaffermare la loro neutralità, a insistere sul fatto che la scienza non ha un colore politico, sociale, economico o morale, dicendo cose come: “Alla forza di gravità non importa che tu sia di destra o di sinistra”, “Le piogge acide cadono sui ricchi e sui poveri”, “Le emissioni radioattive ti colpiscono sia prima sia dopo le elezioni”.

    Tutto vero, ma non basta. Non è solo su queste basi che possiamo fidarci di loro: che sia corretto o no, l’opinione pubblica mette in relazione la scienza con le sue implicazioni; una distinzione netta tra fatti e valori non funziona. La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori, politici o religiosi, o con i propri interessi economici, il proprio stile di vita.

    Gli scienziati di solito considerano queste critiche fallaci: ad hominem, quindi illegittime. “Ma se prendiamo sul serio la conclusione che la scienza è un processo sociale consensuale, allora chi sono gli scienziati è una questione rilevante” ricorda Naomi Oreskes nel suo ultimo saggio, Why Trust Science? Una delle tesi fondamentali del lavoro dell’autrice americana, biologa di formazione, è che l’idea della scienza come un’attività neutrale, priva di valori, sia un mito: dobbiamo ricordare che l’utilità, economica o di altro tipo, è stata a lungo una giustificazione per sostenere la scienza, dal punto di vista finanziario e culturale. La scienza non è un’impresa neutrale e non lo sono gli scienziati come individui. “Nessuno può essere davvero neutrale, quando gli scienziati dicono di esserlo, dicono il falso perché affermano l’impossibile. A meno che non li si voglia considerare ingenui o degli idiot savants, dovremmo considerarli disonesti” scrive Oreskes.

    I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Per gli scienziati la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività.

    Onestà, apertura, trasparenza sono valori propri della ricerca scientifica. “Come possono gli scienziati essere onesti e allo stesso tempo negare di avere dei valori?” si chiede. La riluttanza degli scienziati a discutere dei propri valori potrebbe dare l’impressione che quei valori siano problematici e che quindi debbano essere nascosti, oppure che non ci sia nessun valore in cui credono. Voi vi fidereste di una persona che non ha valori? Credereste a una persona che non crede in niente? Direi proprio di no, avremmo a che fare con un sociopatico. Se invece credessimo che quella persona condivide almeno qualcuno dei tuoi valori, non per forza tutti, potremmo essere più disposti a starla a sentire. La neutralità rispetto ai valori può essere difesa da un punto di vista epistemologico, ma nella pratica non funziona: senza valori non c’è comunicazione e non si possono costruire legami di fiducia.

    Invece è successo il contrario. I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Anche per gli scienziati, come per i giornalisti, la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività. “Anche se siamo in disaccordo” conclude Oreskes “su molte questioni politiche, i nostri valori possono coincidere, almeno in parte. Chiarire i punti su cui possiamo essere d’accordo, e spiegare in che modo sono legati al lavoro scientifico, può aiutarci a superare la sfiducia che spesso sembra prevalere”.

    Estratto da La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp, di Antonio Sgobba (il Saggiatore).

  • “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    Mirella Serri per “La Stampa”

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    «Per la prima estate non lessi libri ma mi dedicai intensamente a coltivare i miei fagioli». Rinunciare ai libri? Com’ era possibile per uno studioso del

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    calibro di Henry David Thoreau, uno dei più brillanti e conosciuti allievi di Harvard? Thoreau, che vide la luce un anno prima di Karl Marx, a dieci anni, nel 1827, scrisse la sua prima poesia, The Seasons.

    A dodici parlava latino, greco, francese, italiano, tedesco e in parte pure lo spagnolo. Nel 1833 entrò con una borsa di studio all’Harvard College per studiare retorica, religione, filosofia e scienze. Sette anni più tardi produsse un saggio epico in latino, acclamato dall’Accademia: Aulus Persius Flaccus.

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    E un poema: Sympathy. Poi però, a 28 anni, il filosofo di Concord si rifugiò nei boschi per mettere in pratica i suoi rigorosi principi di full immersion nell’ambiente naturale e pose in un cantuccio i testi di greco e latino, la compagnia prediletta di tante serate. Non rinunciò però solo alla cultura. Amava le passeggiate in abiti eleganti sul corso di Concord, le allegre compagnie degli amici goliardi, le feste negli alberghi di lusso che stavano spuntando come funghi nella cittadina del Massachussets.

    La prima rivoluzione industriale era in corso e suo padre aveva aperto a Concord una fabbrica di matite. Henry David si dedicò anche a questo opificio di famiglia con tanta passione e ne incentivò la produzione mettendo a punto un nuovo tipo di mina per i lapis. Eppure nel 1845 fece a meno di tutto questo e decise di vivere una seconda vita che nulla aveva in comune con la prima. La scelta fu netta e drastica e Thoreau, che era stato anche un eccellente uomo di azienda, divenne nella sua nuova esistenza il profeta dell’anticapitalismo e dell’ambientalismo più radicale. Si fece prestare un’ascia. Fece diventare cenere i panni della prima vita.

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    Si vestì di stracci, si fece regalare delle assi usate e dei chiodi già adoperati che raddrizzò uno a uno, abbatté dei pini, rinunciò a mangiare carne, a parte, saltuariamente, quella di marmotta, si cibò di portulaca oleracea, di polenta di granoturco e di fagioli e si costruì una capanna sulle rive del lago Walden. L’adozione di questa seconda pelle fu gravida di incredibili conseguenze per la sua storia personale ma anche e soprattutto più in generale per il corso della Storia con la maiuscola.

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    «Lavoravo su un bel fianco di collina coperto di boschi di pini attraverso i quali potevo scorgere il lago dove il ghiaccio non s’ era ancora disciolto – raccontava -. Erano bei giorni di primavera, nei quali “l’inverno dell’umano scontento” si sgelava come la terra, e la vita incominciava a risvegliarsi».

    Cosa lo condusse a questa trasformazione? Allievo del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, Thoreau intuì che con il primo capitalismo industriale e con l’esplosione di insediamenti urbani, con la costruzione di ponti, strade e fabbriche (visse per un anno anche a New York), fioriva un nuovo stile di vita orientato dal desiderio di frenetici guadagni.

    Che avevano come corollario la divisione del lavoro, lo spreco delle risorse naturali, il consumismo incontrollato e l’accumulazione fine a se stessa. «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita (…) per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto. (…) Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita» (questa frase di Thoreau è stata ripresa ne L’attimo fuggente, il celebre film del 1989 con Robin Williams).

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    Ma l’atteggiamento rigorista che lo guidava nelle sue inedite opzioni ebbe anche altre conseguenze: l’eremita fu raggiunto da un’ingiunzione di pagamento di imposte arretrate nella sua casetta sulle rive del lago – a cui dedicherà, dopo averlo riscritto varie volte, il saggio Walden ovvero Vita nei boschi. Thoreau non accettò di versare i quattrini al governo del presidente James K. Polk che disprezzava in quanto fautore della schiavitù e di una politica espansionistica (stava iniziando la guerra messicano-americana al cui termine gli Stati Uniti ottennero il controllo di Texas, California, Nevada, Utah e di parti del Colorado, dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Wyoming).

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    I

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    mprigionato, Thoreau fu scarcerato dopo un giorno per l’intervento di una zia che gli pagò, nonostante la sua opposizione, gli arretrati. Ma da questa esperienza nacque un celebre pamphlet, Disobbedienza civile, che gli diede una fama incredibile: fu il pensiero di riferimento per Tolstoj, Gandhi, Proust e Martin Luther King. Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack, resoconto di un’escursione nelle White Mountains fatta con il fratello John nel 1839, fece di lui l’idolo della Beat Generation e di Jack Kerouac a cui ispirò Sulla strada.

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    Quando decise di ritornare a vivere nella civiltà, cominciò a viaggiare e divenne uno degli attivisti più convinti dell’abolizione della schiavitù, aiutò molti lavoratori delle piantagioni di cotone provenienti dall’Africa a fuggire in Canada e fu un sostenitore dei diritti dei nativi americani.

    I saggi e gli articoli della sua seconda vita, dopo la sua scomparsa, divennero la Bibbia di chi lottava per l’istituzione delle riserve naturali, dai boschi del Maine alla penisola di Cape Cod alle foreste dello Yosemite: il presidente Theodore Roosevelt fu un seguace di Thoreau come pure John Kennedy. Al pensatore ecologista fece riferimento lo scrittore Jon Krakauer che Nelle terre estreme (il libro è stato adattato a film da Sean Penn, Into the Wild – Nelle terre selvagge) pubblicò la storia di Christopher McCandless, giovanissimo viaggiatore che si lasciò morire di fame in nome di un rinnovato rapporto con l’ambiente.

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    Critico accanito di Thoreau è invece il presidente Donald Trump che detesta la sua predicazione, le riserve e vuole riorganizzare le aeree protette degli States in zone di caccia. Oggi le profetiche parole di Thoreau sulla necessità della tutela della «natura selvaggia» vengono continuamente evocate da chi considera la pandemia come una conseguenza della distruzione degli equilibri naturali. La seconda vita di Thoreau non rappresentò dunque solo uno sconvolgimento intimo e personale del filosofo ma fu lo sprigionarsi di un vento forte che ha cambiato il corso della storia.

  • Umberto Eco – Come dire parolacce in società

    Brani scelti: UMBERTO ECO, La bustina di minerva 2000

    Vedo nel nuovo romanzo di Kurt Vonnegut (Hocus pocus, Bompiani) che il protagonista decide di non usare parolacce e si limita a espressioni che (nella traduzione di Pier Francesco Paolini) suonano come: “che pezzo di escremento!”, “che testa di pene!”, “siamo in una bella casa di tolleranza!” L’invito giunge opportuno in un momento in cui i giornali registrano, da parte degli uomini politici, insulti da carrettiere, e sui teleschermi si affacciano signori distinti che si appellano a vicenda con riferimenti espliciti a parti del corpo solitamente coperte da biancheria detta, appunto, intima.

    È vero che in questa stessa rubrica io avevo tempo fa rivendicato il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno. Ma l’utilità della parolaccia è appunto data dalla sua eccezionalità. Usare parolacce troppo sovente sarebbe come riscrivere l’intero Signor Bruschino facendo battere soltanto gli archetti contro i leggii, mentre gli altri strumenti tacciono. Mussolini, in un momento tragico della storia d’Italia, disse in parlamento che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i suoi manipoli, e la frase suonò drammaticamente minacciosa. Se avesse detto (e tale era il senso della sua dichiarazione) “brutte facce di merda, avrei potuto mettervela in culo come niente,” o l’avrebbero trattato come un buffo, o si sarebbero accorti che il condizionale era fuori luogo, perché l’evento si era già verificato.

    Si è perduta quell’arte dell’ingiuria celebrata da Borges (“Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando!”), e pazienza. Ma almeno si dovrebbe ritrovare un’arte della perifrasi. Ed ecco perché, a uso dei protagonisti della politica e dello spettacolo, seguono alcune espressioni indubbiamente eleganti e forbite, sotto il velame della cui elaborata stranezza gli esperti potranno riconoscere l’espressione originaria, ben più volgare e consueta, che esse celano, senza peraltro eliminarne la forza perlocutoria.

    “Taccia, Lei, il cui viso avrebbe potuto essere definito da un noto maresciallo dell’Impero nelle ultime ore della battaglia di Waterloo!” “Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe atta alla riproduzione.” “La invito a recarsi là dove potrebbe opportunamente qualificarsi come partner passivo di un rapporto tra maschi adulti consenzienti!” “La smetta, o segmento fusiforme del prodotto finale di un complesso processo metabolico!” “Il tale, nel suo giorno natale, era unito da cordone ombelicale a una signora che aveva saputo condurre la poliandria a manifestazioni quasi frenetiche.”

    “Verga sicula, che gran bella porzione di ghiandole di Bartolino e tube di Falloppio!” “Quello? Dalla paura è pronto a secernere preterintenzionalmente, e senza aver prima abbandonato i propri abiti, cellulosa, cheratina, residui biliari, muco, cellule epiteliali desquamate, leucociti e batteri assortiti!” “Gustavo è solo un cinquanta per cento di deliquio dei sensi ottenuto manualmente.” “Silenzio, non imitate un luogo in cui si faccia mercimonio di grazie della seconda metà del cielo!” “Indigenza scrofa, l’ho ricevuta in vaso indebito!” “La prego, non mi deteriori quelli che l’etimologia latina vuole quali testimoni!” “Come dice Dante, usava la parte terminale dell’intestino retto come strumento per segnalazioni militari.” “Ragazzí, che operazione serramentaria!””La baronessa? Ma si dedica alla raccolta e accumulazione di gettoni che testimoniano della sua operosità e a fronte dei quali riceverà un corrispettivo in denaro allo scadere della seconda settimana di attività!” “Guardi, io di Lei e della sua opinione sottopongo a ripetute succussioni l’unica borsa in pelle fornitami da natura, con tutto ciò che essa contiene!” “Ma la smetta di adularmi! Lei è un soggetto le cui papille gustative hanno perduto ogni dimestichezza con il cibo prima che esso abbia subito tutte le trasformazioni a cui viene sottoposto dal nostro organismo onde far fronte alla curva generale dell’entropia!” “Se non la smette sono disposto a interfacciare la parte inferiore delle mie Timberland con la sua zona perineale, imprimendo all’intero suo corpo una forza propulsiva atta a farle percorrere un ampio tragitto senza che Ella debba ricorrere ai consueti mezzi di deambulazione!” “Ha tutta la mia riprovazione, o persona la cui parte posteriore inferiore del tronco necessiterebbe di un intervento plastico a fini di restauro!” “Organo esterno dell’apparato genito-urinario maschile a forma di appendice cilindrica inserita nella parte anteriore del perineo! Ho perso il portafoglio!”

  • Richard Bach – E crescendo impari…

    Richard Bach – E crescendo impari…

    E crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.
    Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi…
    La felicità non è quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,…
    non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…
    la felicità non è quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.
    Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose…
    … e impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.
    E impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi, e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

    E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore,
    e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.

    E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.
    E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

    E impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.
    E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami…
    e impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.

    E impari che nonostante le tue difese,
    nonostante il tuo volere o il tuo destino,
    in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande
    Jonathan Livingston.
    E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

    dal libro “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach

  • Almeno 80 libri la biblioteca perfetta dei sedicenni

    Uno studio australiano collega il numero di volumi che si hanno in casa da ragazzi alle prestazioni da adulti.

    GIULIANO ALUFFI

    Avere, da adolescenti, uno scaffale domestico ben fornito di libri dà una marcia in più nella vita: i ragazzi che hanno avuto almeno 80 libri in casa oggi hanno competenze linguistiche, matematiche e tecnologiche superiori alla media. Lo suggerisce uno studio, pubblicato su Social Science Research, che riguarda 160 mila adulti da 31 nazioni, con dati raccolti dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies dell’Ocse. «Nel 2010 avevamo visto, con dati da 27 Paesi, che crescere in una casa fornita di libri aiuta i giovani ad avere tre anni in più di studi rispetto a chi cresce senza libri, indipendentemente dalla cultura e classe sociale dei genitori. In un secondo studio abbiamo visto che, indipendentemente dall’istruzione scolastica, chi cresce in un ambiente domestico ricco di libri, avrà un lavoro più remunerato» spiega la prima autrice dello studio, Joanna Sikora, sociologa dell’Australian National University di Canberra. «Rimaneva da verificare l’effetto del crescere tra i libri sulle competenze in età adulta: l’abbiamo trovato, con risultati del tutto simili tra i vari Paesi». Lo scaffale domestico, secondo lo studio, non aiuta soltanto ad acquisire abilità cognitive aggiuntive rispetto a quelle fornite dalla scuola, ma anche a sviluppare una passione che dura per tutta la vita. «Non è importante soltanto l’atto del leggere, ma anche apprezzare i libri come oggetti, discuterne in famiglia o con gli amici, e soprattutto identificarsi nella lettura: pensare a sé stessi come persone che amano i libri». È una sorta di “imprinting” con i libri, che deve avvenire preferibilmente nel periodo della vita in cui si decide chi si è e chi si vuole essere. «Sappiamo che chi ha molti libri in casa avrà maggiori probabilità di leggere saggi, in particolare di divulgazione scientifica, narrativa e poesia» spiega Sikora. «Ma in realtà qualsiasi tipo di coinvolgimento con il libro è utile per aumentare il proprio vocabolario e le proprie abilità cognitive. C’è anche un aspetto di scelte future legate all’identità personale: se ti vedi come un amante dei libri, ciò ti porterà a preferire, nella vita, certe attività rispetto ad altre: nel tuo stile di vita includerai il piacere e lo stimolo intellettuale della lettura». Anche al di là della formazione istituzionale: «I dati raccolti ci dicono che chi non è riuscito ad andare all’università, se ha avuto una quantità sufficiente di libri in casa a sedici anni, da adulto non sarà meno competente di un laureato che ha avuto pochi libri attorno a sé da ragazzo». Lo studio riguarda chi è stato adolescente tra il 1950 e il 1995, quando il libro esisteva in sola forma cartacea. Avremo lo stesso effetto positivo anche per generazioni di nativi digitali «È vero che oggi gli adolescenti consultano una pluralità di media diversi, con una preferenza per lo smartphone», ammette la sociologa australiana, «ma credo che continuerà a esserci una differenza di competenze e di opportunità tra chi cresce in mezzo a libri cartacei e gli altri».

  • Immaginate una scuola.

    Immaginate una scuola.

    Francesco Brescia

    Immaginate una scuola.

    La UE è una classe.
    Una classe nella quale ognuno fa quello che vuole. L’unico professore temuto è quello di economia, soprattutto quando chiede le quote per la gita. Gli altri professori parlano, parlano, ma in fondo nessuno li ascolta. Però i ragazzi tornano a casa e chiedono sempre ai genitori “dobbiamo portare i soldi per la lavagna multimediale, ce lo chiede la scuola. Dobbiamo portare i soldi per l’uscita didattica, ce lo chiede la scuola”.
    Il materiale per studiare costa tantissimo, nella classe della UE. E lo custodisce la Germania, che è la prima della classe in queste cose di cancelleria.
    L’Italia se ne sta un po’ per i fatti suoi, nella classe della UE.
    Non se la passa tanto bene, a casa.
    Ha dei nuovi genitori adottivi, che faticano a comprendersi e a mettersi d’accordo. Un po’ perché sono troppo diversi tra loro, un po’ perché c’è di mezzo il nonno, un uomo vecchio, col parrucchino, basso e rattuso che rompe continuamente il cazzo e ogni tanto si mette a contare con le dita, fa le corna e vuole parlare delle cose del passato. Il nonno tra l’altro dovrebbe pure stare in galera, per questioni di nipotine, ma nessuno ha capito perché giri ancora a piede libero.
    Italia ha il banco vicino alla porta della classe. Ogni giorno un sacco di bambini delle altre classi vogliono entrare, e spintonano Italia, la sbattono di qua e di là, e Italia li farebbe anche entrare, ma il banchetto è piccolo e la sediolina non regge tutti.
    Certo, meglio di Grecia, che la sediolina non ce l’ha nemmeno più e se ne sta seduta per terra, in un angolo della classe della UE.
    Poi c’è Francia.
    Quanto mi sta sul cazzo Francia.
    Francia fa quello che vuole, ha dei libri specifici che usa solo lei, e vorrebbe decidere pure il programma di studi. Francia pure sta vicino alla porta, ma lei non fa sedere nessuno.
    Francia è amica di quello che se ne è andato via dalla scuola, Gran Bretagna.
    Gran Bretagna fa quello fico, ma solo perché sa di avere le spalle coperte da suo cugino. Suo cugino ogni tanto arriva, sagnellone, alto, grosso, sempre prepotente e violento, e rompe il cazzo a tutti.
    Il cugino bullo di Gran Bretagna si chiama Stati Uniti.
    Non ci va nemmeno più a scuola, questo.
    Quando arriva Stati Uniti, tutti stanno zitti.
    Gran Bretagna lo affianca, e dalla classe della UE si stacca e li accompagna sempre Francia. E i tre vanno a rompere i coglioni in altre classi.
    Soprattutto nella classe Medioriente.
    Quanto rompono i coglioni a Medioriente questi tre.
    Quella classe già è un casinò da anni per colpa della professoressa di religione, che cambia sempre programma e li fa litigare.
    Litigano, non fanno altro.
    Però hanno spesso delle aule più soleggiate di quelle degli altri, e allora Stati Uniti va, ogni tanto, e se la prende con qualcuno di loro. Così.
    Come se non bastassero i problemi.
    Tanto il preside ONU dorme. Lui beve, chatta con le cinquantenni fake, si fa le pippe e dorme.
    Tempo fa Iraq sputava con la cerbottana a Kuwait. Stati Uniti arrivò e distrusse lo zaino di Iraq. Poi il banco. Poi il femore. Poi la faccia. Iraq sta là, in classe, ma non si è ripreso e sanguina ancora.
    Un’altra volta Stati Uniti decise di entrare nella classe Nordafrica, per spezzare il braccio di Libia. Francia era tutta contenta. Italia no, ma si accodò lo stesso.
    Il banco di Libia è ancora in fiamme.
    E adesso Stati Uniti vogliono il motorino di Siria.
    Madonna, quanto vogliono quel motorino.
    E sopra al motorino di Siria ci vogliono fare un giro pure Francia e Gran Bretagna.
    Ma Siria è pure amica dei bulli di altre classi, soprattutto Russia, che è un altro che vi raccomando, e Turchia.
    Turchia ha il professore di sostegno, perché è irrequieto e tutti hanno paura di come reagisce.
    E pure loro, Russia e Turchia, vorrebbero farsi un giro sullo stesso motorino di Siria.
    Ma Stati Uniti se ne fotte.
    Quando vuole una cosa, Stati Uniti non si tiene.
    E appresso ci stanno sempre Gran Bretagna, che pure a scuola non ci vuole andare più da un paio d’anni, e non si sa cosa voglia fare da grande. E Francia, che non ho capito cosa ci rimanga a fare nella classe della UE, visto che decide sempre da sola e non sta mai a sentire gli altri.
    Soprattutto nessuno ascolta Italia, che poi si ritroverà attorno alla sedia un sacco di studenti che vorranno andare via dalle altri classi, perché Stati Uniti e gli altri bulli quando vogliono una cosa non si tengono.
    Molti ci dicono che dobbiamo essere riconoscenti a Stati Uniti e che, se non fosse stato per lui, la classe UE tanti anni fa non avrebbe potuto avere fondamenta, mura e finestre.
    Probabile.
    Ma dopo 70 anni, direi che il debito con il bullo sia stato abbondantemente pagato.
    Con gli interessi.
    Alle volte penso che in quella scuola chi stia meglio di tutti è il bidello.
    Quello fa il saggio, ha un sacco di figli, e se ne sta spaparanzato a leggere il giornale e fumare, mentre tutto intorno le classi fanno un casino infernale.
    Il bidello è l’India. Con tutto quello che succede nella scuola, qualche anno fa ha deciso di avere una discussione proprio con Italia.
    Strano proprio, il bidello.

    La classe della UE nemmeno quest’anno finirà il programma di studi, per colpa sua e per quello che succede nelle altre classi, anche quelle del piano di sotto, come Estremo Oriente, Sudamerica, o Centrafrica.
    Ma tanto, nella classe della UE, per i professori l’importante è solo che ogni anno tutti versino la quota della gita, poi ognuno può fare quello che gli pare.

    E alla fine, come sempre, nessuno imparerà mai nulla.

  • In memoria di Marco Pannella

    In memoria di Marco Pannella

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    Marco Pannella è morto questa mattina, dopo mesi di battaglia contro il cancro. Le sue condizioni si erano aggravate ieri, quando era stato ricoverato in una clinica romana. Nato a Teramo nel 1930, con la sua scomparsa se ne va il principale protagonista dell’avvio di tante battaglie per i diritti civili, dal divorzio, all’aborto, all’eutanasia, passando ovviamente per la sua battaglia campale: quella per la legalizzazione della cannabis.

    Le battaglie antiproibizioniste di Pannella cominicarono già all’alba degli anni settanta. Nel gennaio del 1973 con una lettera al quotidiano Il Messaggero condannò il clima di criminalizzazione verso i giovani “capelloni” che fumavano gli spinelli e lanciò le prime riflessioni sulla necessità di depenalizzare il consumo.

    Nel 1975 diede invece inizio alla sua lunga campagna delle “disobbedienze civili”. Il 2 luglio 1975 Pannella viene arrestato dopo aver fumato deliberatamente marijuana in pubblico. In carcere, Pannella rifiuta di chiedere la libertà provvisoria fino a che non riceve, dai Presidenti della Camera e del Senato, l’impegno e la garanzia a discutere e mettere in votazione, entro 4 mesi, la legge di riforma sulle droghe. Cosa che effettivamente avvenne, portando, nel 1976, alla prima riforma che rende non più condannabile al carcere il semplice consumatore di droghe leggere.

    La battaglia non si ferma. Nel 1980 il Partito Radicale raccoglie oltre 500.000 firme su di un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere; il referendum avrebbe dovuto tenersi nella primavera del 1981, ma nel gennaio di quell’anno la Corte costituzionale lo giudica inammissibile.

    La battaglia di Pannella contro la criminalizzazione dei consumatori di cannabis riprende nel 1990, quando viene approvata la legge, voluta dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, che reintroduce il reato di consumo di droga. Alla fine del 1991 promuove un referendum per l’abolizione delle sanzioni penali per il consumo di droga e per il riconoscimento della libertà terapeutica nella cura delle dipendenze, il referendum svoltosi nel 1993 viene vinto con il 52% circa dei voti a favore: il consumo di droga torna ad essere depenalizzato.

    Nel 1995, il rilancio della campagna per la legalizzazione delle droghe leggere viene di nuovo affidata ad iniziative di disobbedienza civile, durante le quali viene distribuito gratuitamente e pubblicamente hashish in varie manifestazioni pubbliche.

    Il 27 agosto di quell’anno Pannella regala hashish durante una manifestazione a Porta Portese e il 18 dicembre ripete la consegna gratuita in piazza Navona. Per questi due fatti verrà poi condannato rispettivamente a 8 mesi di libertà vigilata e a due mesi e otto giorni di carcere (questa seconda condanna annullata successivamente).

    Lo stesso giorno della manifestazione in piazza Navona, mentre i giudici lo condannano, Pannella, ospite al programma tv “l’Italia in diretta” regala circa 200 grammi di fumo alla conduttrice Alda D’Eusanio. Una scena diventata epica anche per la reazione della conduttrice che si mette a gridare “ragazzi questa è morte, stateci lontani”.

    Nel gennaio 1996, vengono depositate oltre 500.000 firme in calce ad un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere ed un anno dopo la Corte Costituzionale lo dichiara inammissibile, motivando la sentenza con il vincolo costituito dalle convenzioni internazionali, che vieterebbero l’adozione di queste politiche di legalizzazione.

    La battaglia di Marco Pannella per la legalizzazione delle droghe leggere continua anche nel nuovo millennio, spesso collegata a quelle contro il sovraffollamento delle carceri. Una battaglia che negli ultimi anni si è legata sempre di più a quelle per il diritto alla cura dei malati, con le azioni di disobbedienza civile per la cannabis terapeutica condotte da Rita Bernardini, attuale segretaria dei Radicali.

    Negli anni molti movimenti antiproibizionisti si sono allontanati dai Radicali e dai metodi di lotta di Pannella, spesso giudicati troppo improntati alla spettacolarizzazione. Ciò che rimane tuttavia innegabile è che con Marco Pannella se ne va una figura cardine delle battaglie per i diritti civili in Italia. Un politico che per anni ha condotto in solitudine e con ammirevole coraggio intellettuale una battaglia che allora era di estrema minoranza, contribuendo per primo a rendere quello della legalizzazione un tema non più tabù, ma un tema del quale si poteva, e si doveva, parlare.

  • Il manifesto della guerriglia Open Access

    Il manifesto della guerriglia Open Access

    di Aaron Swartz

    Questo testo è la versione italiana del Guerrilla Open Access Manifesto, scritto da Aaron Swartz nel 2008, mentre partecipava ad una conferenza sulla comunicazione scientifica svoltasi in un non ben precisato eremo toscano. Dopo la sua morte nel 2013, ci siamo messi a tradurlo collaborativamente. C’erano Enrico Francese, Silvia Franchini, Marco Solieri, elle di ci, Andrea Raimondi, Luca Corsato, e altri contributori anonimi e generosi. Lo ripubblico qui, perchè è giusto che lo leggano più persone possibile.


    L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme ad editori come Reed Elsevier.

    C’è chi lotta per cambiare tutto questo. Il movimento Open Access ha combattuto valorosamente perché gli scienziati non cedano i loro diritti d’autore e pubblichino invece su Internet, a condizioni che consentano l’accesso a tutti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, il loro lavoro varrà solo per le cose pubblicate in futuro. Tutto ciò che è stato pubblicato fino ad oggi sarà perduto.

    Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.

    “Sono d’accordo,” dicono in molti, “ma cosa possiamo fare? Le società detengono i diritti d’autore, guadagnano enormi somme di denaro facendo pagare l’accesso, ed è tutto perfettamente legale — non c’è niente che possiamo fare per fermarli”. Ma qualcosa che possiamo fare c’è, qualcosa che è già stato fatto: possiamo contrattaccare.

    Tutti voi, che avete accesso a queste risorse, studenti, bibliotecari o scienziati, avete ricevuto un privilegio: potete nutrirvi al banchetto della conoscenza mentre il resto del mondo rimane chiuso fuori. Ma non dovete — anzi, moralmente, non potete — conservare questo privilegio solo per voi, avete il dovere di condividerlo con il mondo. Avete il dovere di scambiare le password con i colleghi e scaricare gli articoli per gli amici.

    Tutti voi che siete stati chiusi fuori non starete a guardare, nel frattempo. Vi intrufolerete attraverso i buchi, scavalcherete le recinzioni, e libererete le informazioni che gli editori hanno chiuso e le condividerete con i vostri amici.

    Ma tutte queste azioni sono condotte nella clandestinità oscura e nascosta. Sono chiamate “furto” o “pirateria”, come se condividere conoscenza fosse l’equivalente morale di saccheggiare una nave ed assassinarne l’equipaggio, ma condividere non è immorale — è un imperativo morale. Solo chi fosse accecato dall’avidità rifiuterebbe di concedere una copia ad un amico.

    E le grandi multinazionali, ovviamente, sono accecate dall’avidità. Le stesse leggi a cui sono sottoposte richiedono che siano accecate dall’avidità — se così non fosse i loro azionisti si rivolterebbero. E i politici, corrotti dalle grandi aziende, le supportano approvando leggi che danno loro il potere esclusivo di decidere chi può fare copie.

    Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica.

    Dobbiamo acquisire le informazioni, ovunque siano archiviate, farne copie e condividerle con il mondo. Dobbiamo prendere ciò che è fuori dal diritto d’autore e caricarlo su Internet Archive. Dobbiamo acquistare banche dati segrete e metterle sul web. Dobbiamo scaricare riviste scientifiche e caricarle sulle reti di condivisione. Dobbiamo lottare per la Guerrilla Open Access.

    Se in tutto il mondo saremo in numero sufficiente, non solo manderemo un forte messaggio contro la privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo un ricordo del passato.

    Vuoi essere dei nostri?

    Aaron Swartz
    Luglio 2008, Eremo, Italia

  • Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    L’Austria è un Paese piccolo e domenica hanno votato meno di 4 milioni di persone, di cui un milione e 300 mila per Norbert Hofer, il candidato nazionalista e identitarista. Poca roba: quindi, in teoria, su di lui potremmo fare spallucce.
    Su di lui così come sul fatto che negli Stati Uniti il candidato alla presidenza dei Repubblicani sia Donald Trump. O che in Francia aumentano ogni giorno le probabilità che la Le Pen arrivi almeno al ballottaggio. O (anche) che in Italia la destra ex berlusconiana sia sempre più rappresentata dal duo Salvini-Meloni. Per non dire di tutti gli altri movimenti populisti (In Italia il M5S)  , in crescita in quasi tutta Europa.

    Se invece pensiamo che il fenomeno ci riguardi, dopo l’anatema potremmo anche cercare di capire perché tanta gente vota da quelle parti. Magari aiutandoci dando un’occhiata ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici contemporanei, quelli che stanno dietro quest’ondata. E con qualche riferimento storico.
    Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ad esempio, scoppiò in Inghilterra quel fenomeno che passa sotto il nome di luddismo, dal mitico Ned Ludd: personaggio forse neppure esistito, ma a cui veniva attribuita la prima distruzione di un telaio meccanico. È possibile che Ludd fosse uno degli artigiani che nel 1770 avevano preso d’assalto la casa e le macchine di James Hargreaves, il tizio che aveva inventato lo “spinning jenny”: quel dispositivo a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili per volta. Il telaio meccanico, appunto.
    L’introduzione di strumenti industriali in quel periodo stava trasformando radicalmente e abbastanza in fretta l’organizzazione del lavoro precedente. In particolare i tessitori del Lancashire vedevano crollare i prezzi dei loro prodotti e quindi avevano solo la chance di trasformarsi in operai (a bassissimo reddito e in condizioni di lavoro disumane) mettendosi al servizio proprio dei nuovi telai, cioè gli stessi che ne avevano causato la proletarizzazione. Abbastanza normale che volessero distruggerli a randellate.
    Quello che sta succedendo nel mondo all’inizio del XXI è un fenomeno di portata anche maggiore rispetto all’introduzione dei telai meccanici e delle macchine a vapore. E ha ragioni di fondo tecnologiche ed economiche.

    Mai come adesso assistiamo a un mutamento rapido delle relazioni di produzione, lavoro rarefatto e parcellizzato, voucher, piattaforme di manodopera liquida, a cottimo o all’ora.
    Ma le trasformazioni tecnologiche di oggi sono anche quelle che costringono ogni singolo produttore di qualsiasi cosa, nel pianeta, a concorrere con qualsiasi altro produttore della stessa cosa nel resto del pianeta. E quelle che hanno consentito le esternalizzazioni delle produzioni nei Paesi in cui il lavoro orario costa molto meno.
    O semplicemente, pensate ad altri e più banali cambiamenti tecnologici: quelli che, con i satelliti e Internet, hanno portato l’Occidente nelle case di un miliardo di africani, creando quindi il desiderio-bisogno di lasciare il proprio villaggio di fango e capre per venire qui da noi.
    E occhio perché ancora più “disruptive” saranno le trasformazioni che ci aspettano: l’intelligenza artificiale è ancora nella sua età infantile, rispetto all’incidenza che porterà nelle relazioni produttive nei prossimi due o tre decenni. La sharing economy anche. E forse nessuno ha davvero idea dell’impatto sulla produzione della stampa in 3D, oggi vista dai più come un’eccentrica curiosità, ma che invece è un altro pezzo della nuova rivoluzione industriale.
    Spiegava qualche giorno fa Bernard Guetta (vedi articolo allegato infondo al post), proprio parlando dell’ascesa dei parafascismi in Europa e Usa, che oggi «ai salariati non resta che scegliere tra il persistere di elevati tassi di disoccupazione e l’accettazione di un’ininterrotta erosione dei diritti acquisiti». Sicché «sulle due sponde dell’Atlantico si è venuta a creare un’enorme angoscia sociale, terreno fertile per Trump e le estreme destre europee». E sia Trump sia Marine Le Pen, i vari Grillo e Salvini, sia i loro analoghi «propongono di tornare al protezionismo, vedono nei Paesi emergenti il nemico, sono ostili verso l’immigrazione. Tutti, in sintesi, provano nostalgia per i tempi in cui l’Occidente era formato da Stati forti, che non soffrivano la concorrenza di Paesi dalle tutele sociali inesistenti»
    Già. Perché a fronte dei cambiamenti contemporanei e in arrivo, ci si può comportare in due modi.
    Il primo è appunto quello che vediamo ogni giorno nei discorsi di Trump o Salvini: metaforicamente, prendere a randellate i telai meccanici. Cioè, oggi, immaginare o creare muri, rinfocolare identità nazionali. Nostalgia, come dice Guetta.
    Il secondo è capire invece che i nuovi telai meccanici invece sono qui per restare, ci piaccia o no: e quindi rivolgere ogni sforzo per rovesciare il modo in cui vengono gestiti e usati oggi dai poteri economici e politici. Cioè nell’interesse di pochissimi, per accumulare e accentrare capitale.
    Proprio come 200 anni fa, del resto.
    A proposito: i luddisti erano probabilmente ingenui, ma non così stupidi da non capire — dopo i primi anni di rabbia accecata — che il problema stava soprattutto nelle condizioni di lavoro e di vita a cui erano costretti dai proprietari dei nuovi telai. «Fate che i superbi cessino di opprimere gli umili e Ludd rinfodererà la spada», diceva una canzone luddista diffusa in Inghilterra al tempo. La loro inutile rivolta sarebbe quindi finita se le cose per loro fossero migliorate: in termini di orari, reddito, oppressione dagli “umili” da parte dei “superbi”.

    Il compito che abbiamo oggi, certo, è spiegarlo a chi vota Grillo, Trump, o Salvini, o Le Pen o Norbert Hofer.
    Ma soprattutto è spiegarlo ai superbi di oggi, che di tutto questo sono la causa vera.

    Il futuro roseo del nuovo fascismo

    Non dobbiamo cadere preda della paura sbagliata: di Donald Trump non preoccupa il fatto che possa conquistare l’investitura repubblicana, perché sarebbe molto improbabile per lui riuscire a insediarsi alla Casa Bianca. Negli Stati Uniti gli elettori “indipendenti” – quelli decisivi di centro – non voteranno per lui, perché sono tutto salvo che estremisti.

  • Il fascismo eterno (Umberto Eco)

    Il fascismo eterno (Umberto Eco)

     

    Nel 1942, all’età di dieci anni, vinsi il primo premio ai Ludi Juveniles (un concorso a libera partecipazione coatta per giovani fascisti italiani – vale a dire, per tutti i giovani italiani). Avevo elaborato con virtuosismo retorico sul tema: “Dobbiamo noi morire per la gloria di Mussolini e il destino immortale dell’Italia?” La mia risposta era stata affermativa. Ero un ragazzo sveglio. Poi nel 1943 scopersi il significato della parola “libertà”. Racconterò questa storia alla fine del mio discorso. In quel momento “libertà” non significava ancora `liberazione”. Ho passato due dei miei primi anni tra SS, fascisti e partigiani, che si sparavano l’un l’altro, e ho imparato come scansare le pallottole. Non è stato male come esercizio. Nell’aprile del 1945 i partigiani presero Milano. Due giorni dopo arrivarono nella piccola città dove vivevo. Fu un momento di gioia. La piazza principale era affollata di gente che cantava e sventolava bandiere, invocando a gran voce Mimo, il capo partigiano della zona. Mimo, ex maresciallo dei carabinieri, si era messo coi badogliani e aveva perso una gamba in uno dei primi scontri. Si fece vedere al balcone del comune, appoggiato alle sue stampelle, pallido; cercò con una mano di calmare la folla. Io ero lì che aspettavo il suo discorso, visto che tutta la mia infanzia era stata segnata dai grandi discorsi storici di Mussolini, di cui a scuola imparavamo a memoria i passi più significativi. Silenzio. Mimo parlò con voce rauca, quasi non si sentiva. Disse: “Cittadini, amici. Dopo tanti dolorosi sacrifici… eccoci qui. Gloria ai caduti per la libertà.” Fu tutto. E tornò dentro. La folla gridava, i partigiani alzarono le loro armi e spararono in aria festosamente. Noi ragazzi ci precipitammo a raccogliere i bossoli, preziosi oggetti da collezione, ma avevo anche imparato che la libertà di parola significa libertà dalla retorica. Alcuni giorni dopo vidi i primi soldati americani. Erano afro-americani. Il primo yankee che incontrai era un nero, Joseph, che mi fece conoscere le meraviglie di Dick Tracy e di Li’ Abner. I suoi fumetti erano a colori e avevano un buon odore. Uno degli ufficiali (il maggiore o capitano Muddy) era ospite nella villa della famiglia di due mie compagne di scuola. Ero a casa mia in quel giardino dove alcune signore facevano crocchio intorno al capitano Muddy, parlando un francese approssimativo. Il capitano Muddy aveva una buona educazione superiore e conosceva un po’ di francese. Così, la mia prima immagine dei liberatori americani, dopo tanti visi pallidi in camicia nera, fu quella di un nero colto in uniforme giallo-verde che diceva: “Oui, merci beaucoup Madame, moi aussi j’aime le champagne…” Sfortunatamente mancava lo champagne, ma dal capitano Muddy ebbi il mio primo chewing-gum e cominciai a masticare tutto il giorno. Di notte mettevo la cicca in un bicchiere d’acqua, per tenerla in fresco per il giorno dopo. In maggio, sentimmo dire che la guerra era finita. La pace mi diede una sensazione curiosa. Mi era stato detto che la guerra permanente era la condizione normale per un giovane italiano. Nei mesi successivi scoprii che la Resistenza non era solo un fenomeno locale, ma europeo. Imparai nuove, eccitanti parole come “reseau”; “maquis”, “armée secrete”, “Rote Kapelle” “ghetto di Varsavia”. Vidi le prime fotografie dell’Olocausto, e ne compresi così il significato prima di conoscere la parola. Mi resi conto da che cosa eravamo stati liberati. In Italia vi sono oggi alcuni che si domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul corso della guerra. Per la mia generazione la questione è irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e psicologico della Resistenza. Era motivo d’orgoglio sapere che noi europei non avevamo atteso la liberazione passivamente. Penso che anche per i giovani americani che versavano il loro tributo di sangue alla nostra libertà non era irrilevante sapere che dietro le linee c’erano europei che stavano già pagando il loro debito. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che il mito della Resistenza era una bugia comunista. E’ vero che i comunisti hanno sfruttato la Resistenza come una proprietà personale, dal momento che vi ebbero un ruolo primario; ma io ricordo partigiani con fazzoletti di diversi colori. Appiccicato alla radio, passavo le mie notti – le finestre chiuse, e l’oscuramento generale che faceva del piccolo spazio intorno all’apparecchio l’unico alone luminoso – ascoltando i messaggi che Radio Londra trasmetteva ai partigiani. Erano al tempo stesso oscuri e poetici (“Il sole sorge ancora”, “Le rose fioriranno”), e la maggior parte erano “messaggi per la Franchi”. Qualcuno mi bisbigliò che Franchi era il capo di uno dei gruppi clandestini più potenti dell’Italia del Nord, un uomo dal coraggio leggendario. Franchi divenne il mio eroe. Franchi (il cui vero nome era Edgardo Sogno) era un monarchico, così anticomunista che dopo la guerra si unì a gruppi di estrema destra, e venne anche accusato di aver collaborato a un colpo di stato reazionario. Ma che importa? Sogno rimane ancora il sogno della mia infanzia. La liberazione fu un’impresa comune per gente di diverso colore. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che la guerra di liberazione fu un tragico periodo di divisione, e che abbiamo ora bisogno di una riconciliazione nazionale. Il ricordo di quegli anni terribili dovrebbe venire represso. Ma la repressione provoca nevrosi. Se riconciliazione significa compassione e rispetto per tutti coloro che hanno combattuto la loro guerra in buona fede, perdonare non significa dimenticare. Posso anche ammettere che Eichmann credesse sinceramente nella sua missione, ma non mi sento di dire: “Okay, torna e fallo ancora.” Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare solennemente che “loro” non debbono farlo più. Ma chi sono “loro”? Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse. Se il fascismo di Mussolini si fondava sull’idea di un capo carismatico, sul corporativismo, sull’utopia del “destino fatale di Roma”, su una volontà imperialistica di conquistare nuove terre, su un nazionalismo esacerbato, sull’ideale di una intera nazione irreggimentata in camicia nera, sul rifiuto della democrazia parlamentare, sull’antisemitismo, allora non ho difficoltà ad ammettere che Alleanza Nazionale, nata dal MSI, è certamente un partito di destra, ma ha poco a che fare col vecchio fascismo. Per le stesse ragioni, anche se sono preoccupato dai vari movimenti filonazisti attivi qua e là in Europa, Russia compresa, non penso che il nazismo, nella sua forma originale, stia per ricomparire come movimento che coinvolga una nazione intera. Tuttavia, anche se i regimi politici possono venire rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni. C’è dunque ancora un altro fantasma che si aggira per l’Europa (per non parlare di altre parti del mondo)? lonesco disse una volta che “solo le parole contano e il resto sono chiacchiere”. Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi. Lasciatemi dunque chiedere perché non solo la Resistenza ma tutta la seconda guerra mondiale sono state definite in tutto il mondo come una lotta contro il fascismo. Se rileggete “Per chi suona la campana” di Hemingway, scoprirete che Robert Jordan identifica i suoi nemici coi fascisti, anche quando pensa ai falangisti spagnoli. Permettetemi di lasciare la parola a Franklin Delano Roosevelt: “La vittoria del popolo americano e  dei suoi alleati sarà una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta” (23 settembre 1944). Durante gli anni di McCarthy, gli americani che avevano preso parte alla guerra civile spagnola venivano chiamati “antifascisti prematuri” – intendendo con ciò che combattere Hitler negli anni quaranta era un dovere morale per ogni buon americano, ma combattere contro Franco troppo presto, negli anni trenta, era sospetto. Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”? Mein Kampf è il manifesto completo di un programma politico. II nazismo aveva una teoria del razzismo e dell’arianesimo, una nozione precisa della entartete Kunst, `”arte degenerata”, una filosofia della volontà di potenza e dell’ Ubermensch. Il nazismo era decisamente anticristiano e neopagano, allo stesso modo in cui il Diamat (la versione ufficiale del marxismo sovietico) di Stalin era chiaramente materialista e ateo. Se per totalitarismo si intende un regime che subordina ogni atto individuale allo stato e alla sua ideologia, allora nazismo e stalinismo erano regimi totalitari. Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L’articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l’Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello “stato etico e assoluto” che Mussolini non realizzò mai completamente. Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza. Dio era evidentemente distratto. In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini. Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania. Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire una alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi. Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, “in stato quintessenziale”. Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy (1) .

    Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla Chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato? Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un “duce” di tirare avanti sottobraccio a un “re” cui offerse anche il titolo di “imperatore”. Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica “sociale”, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine. Ci fu una sola architettura nazista, e una sola arte nazista. Se l’architetto nazista era Albert Speer, non c’era posto per Mies van der Rohe. Allo stesso modo, sotto Stalin, se Lamarck aveva ragione non c’era posto per Darwin. Al contrario, vi furono certamente degli architetti fascisti, ma accanto ai loro pseudocolossei sorsero anche dei nuovi edifici ispirati al moderno razionalismo di Gropius. Non ci fu uno Zdanov fascista. In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un’arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo); e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l’arte per l’arte e le nuove esperienze dell’arte d’avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso. Il poeta nazionale era D’Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d’esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell’eroismo – con l’aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù. Quando il fascismo si identificò con l’impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell’Accademia d’Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto. Molti dei futuri partigiani, e dei futuri intellettuali del Partito Comunista, vennero educati dal GUF, l’associazione fascista degli studenti universitari, che doveva essere la culla della nuova cultura fascista. Questi club divennero una sorta di calderone intellettuale in cui le nuove idee circolavano senza nessun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle. Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall’interno della torre d’avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell’ottimismo e dell’eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante. Gramsci venne messo in prigione fino alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto). L’immagine incoerente che ho descritto non era dovuta a tolleranza: era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica. Ma era una “sgangheratezza ordinata”, una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi. Siamo ora giunti al secondo punto della mia tesi. Ci fu un solo nazismo, e non possiamo chiamare “nazismo” il falangismo ipercattolico di Franco, dal momento che il nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anticristiano, o non è nazismo. Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di “fascismo” quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di “gioco”. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche “somiglianza di famiglia”.

      1             2            3            4

    abc        bcd        cde        def

    Supponiamo che esista una serie di gruppi politici. Il gruppo 1 è caratterizzato dagli aspetti abc, il gruppo 2 da quelli bcd, e così via. 2 è simile a 1 in quanto hanno due aspetti in comune. 3 è simile a 2 e 4 è simile a 3 per la stessa ragione. Si noti che 3 è anche simile a 1 (hanno in comune l’aspetto c). Il caso più curioso è dato da 4, ovviamente simile a 3 e a 2, ma senza nessuna caratteristica in comune con 1. Tuttavia, a ragione della ininterrotta serie di decrescenti similarità tra 1 e 4, rimane, per una sorta di transitività illusoria, un’aria di famiglia tra 4 e 1. Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l’imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare “Ur-Fascismo” (2), o il “fascismo eterno”. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.

    1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E’ sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo.

    2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della (6) modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L’illuminismo, l’età della Ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.

    3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell azione per l’azione. L’azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “Porci intellettuali”, “Teste d’uovo”, “Snob radicali”, “Le università sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali, erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.

    4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.

    5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’UrFascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.

    6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo, in cui i vecchi “proletari” stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.

    7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E’ questa l’origine del `nazionalismo’: Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. In America, ultimo esempio dell’ossessione del complotto è rappresentato dal libro The New World Order di Pat Robertson.

    8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano il “popolo dei cinque pasti”: mangiavano più spesso degli italiani, poveri ma sobri. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l’un l’altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare con obiettività la forza del nemico.

    9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’età dell’Oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione.

    10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa.

    11. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un eroe. In ogni mitologia “eroe” è un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo è la norma. Questo culto dell’eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era: “Viva la muerte” . Alla gente normale si dice che la morte è spiacevole ma bisogna affrontarla con dignità; ai credenti si dice che è un modo doloroso per raggiungere una felicità soprannaturale. L’eroe Ur-Fascista, invece, aspira alla morte, annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica. L’eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri.

    12. Dal momento che sia la guerra permanente sia l’eroismo sono giochi difficili da giocare, l’UrFascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un fioco difficile da giocare, l’eroe UrFascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.

    13. L’Ur-Fascismo si basa su un “populismo qualitativo” : In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l’UrFascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai `putridi” governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: “Avrei potuto trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli.” Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.

    14. L’Ur-Fascismo parla la “neolingua”. La “neolingua” venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell’Ingsoc, il Socialismo Inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow.

    Dopo aver indicato i possibili archetipi dell’Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comperare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c’erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre, dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito d’Azione, Partito Liberale. Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito Nazionale Fascista. Stavo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento che ero un ragazzo sveglio, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all’altro. Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica. Queste parole, “libertà”, “dittatura” – Dio mio – era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do ancora la parola a Roosevelt: “Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del fascismo crescerà nel nostro paese” (4 novembre 1938). Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”. E permettetemi di finire con una poesia di Franco Fortini:

    Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati

    Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati

    Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati

    Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati

    Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini

    Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini

    Ma noi s’è letto negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà

    Ma l’hanno stretta í pugni dei morti La giustizia che si farà.

    (1) Usato attualmente in logica per indicare insiemi “sfumati”, dai contorni imprecisi, il termine fuzzy potrebbe essere tradotto come “sfumato”, “confuso”, “impreciso”, “sfocato”.

    (2) Ur-Fascismo, o “fascismo eterno”, ossia il fascismo nella sua intima essenza. Il prefisso “Ur-” viene dal tedesco ed è utilizzato per indicare la variante primigenia del concetto a cui si accompagna, la sua versione archetipica. Ur-Fascismo è quindi un idealtipo, un insieme di elementi che in numero variabile sono rintracciabili nelle diverse forme di fascismo instaurate in molte parti del mondo nel XX secolo.

     
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    Qui sotto, la critica del giornalista

    Mario Bernardi Guardi

    con un “non tanto velato” attacco personale.

    http://tabularasa.altervista.org/1995/4_guardi.htm