Categoria: Cultura

  • Bambini dalla luna

    Bambini dalla luna

     

     

    Di tutte le reazioni che ho letto — l’ho già scritto altrove — quella che mi ha colpito di più è stato lo sdegnato e incredibilmente diffuso stupore perché Vendola non ha adottato un bambino da un orfanotrofio: quando la legge italiana, come noto, glielo impedisce proprio perché omosessuale (l’adozione in Italia è consentita solo alle coppie etero sposate).

    Allora ci si può chiedere, volendo, che cosa avrebbe fatto l’ex governatore nel caso in cui la legge glielo avesse consentito: avrebbe scelto l’adozione o comunque la maternità surrogata?

    E qui, appunto, si apre la vera questione.

    Perché forse anche Vendola e il suo compagno, come milioni e milioni di persone, avrebbero comunque desiderato anche un pezzo di genitorialità biologica: considerata dalla maggior parte delle persone più autentica, profonda e completa di quella adottiva.

    Eccola, quindi, la grande battaglia culturale da fare: che ha anche risvolti politici e legislativi, s’intende, ma è prima di tutto di mentalità, di senso comune.

    Come padre di un ragazzino adottato — e biologicamente generato da una coppia a me del tutto ignota e che pure è ogni giorno nei miei pensieri — la mentalità prevalente e il senso comune li ho visti nelle domande che mi faceva mio figlio alle elementari, tornando da scuola: perché mi dicono che tu non sei il mio vero padre? Perché mi chiedono se mi mancano i miei veri genitori?

    Questa cosa del vero — il linguaggio tradisce sempre il senso comune — è lo spettro contro cui ho lottato per 15 anni: e ho spesso fulminato con lo sguardo o fatto a pezzi a parole anche persone che mi volevano bene, quando lo riproponevano, lasciando affiorare anche loro questo senso comune così antico e stronzo.

    Che è figlio di una subcultura, nulla di più: una subcultura duale e avversativa, secondo la quale l’identità filiale dei bambini è costituita esclusivamente da un contesto fatto da due persone, una madre e un padre, i quali sono coloro che l’hanno biologicamente generato.

    Una costruzione culturale, appunto, e non universale: andate ad esempio nelle famiglie patriarcali o matriarcali di mezzo pianeta e scoprirete quanti bambini hanno più figure sia materne sia paterne, e per loro “mamma” e “papà” spesso sono poco più di un prefisso che mettono davanti ai nomi propri di più persone che, nel loro ambito familiare, interpretano queste figure. Non ci sono genitori veri e genitori falsi, ci sono solo persone adulte (una, due più) che crescendo un figlio contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino: più o meno riuscita a seconda di come si sono comportate e relazionate con il bambino queste figure adulte.

    Allo stesso modo, si sa che il figlio adottato costruisce la sua identità sia nel rapporto con i genitori che lo crescono sia in quello (spesso solo immaginario, ma non per questo meno importante) con i genitori biologici, con le sue origini biologiche. Che quindi non vanno negate (altro errore, speculare e contrario rispetto a chi parla di ‘genitori veri’) ma accostate e integrate alle figure dei genitori che lo crescono.

    Tutto questo non è tuttavia moneta diffusa, almeno non ancora. Non è senso comune. L’adozione è quasi sempre vista come una seconda scelta rispetto alla genitorialità biologica. Un rimedio. Un surrogato, a proposito di parole in questi giorni molto usate.

    La grande battaglia culturale è affinché sia sempre meno così.

    La grande battaglia culturale è affinché la genitorialità adottiva non sia più vista dalla maggior parte delle persone come di serie B rispetto a quella biologica.

    Affinché sia vista come una scelta bella in sé, non come rimedio. Bella non solo e non tanto per motivi etici (date le decine di migliaia di bambini che ogni giorno vengono al mondo per sbaglio, per violenza, in condizioni ambientali spaventose, in contesti di disperazione, di fame, di guerre, di sovrappopolazione) ma proprio dal punto di vista egoistico, dal punto di vista di quello straordinario appagamento che sta nell’essere genitori adottivi.

    Proprio così: è bellissimo crescere un bambino che hanno dato proprio a te, che il destino ti ha assegnato affinché tu gli possa dargli il meglio, che la vita ti ha portato in casa affinché tu possa dimostrare a lui, al mondo, all’universo che puoi regalargli infinità d’amore, di chance, di felicità.

    È un’avventura di una bellezza talmente unica e straordinaria che chi ha avuto la fortuna di percorrerla dovrebbe urlarla al mondo perché lo capisse, altro che genitorialità di serie B!

    Prendete ad esempio la spinosa questione della maternità surrogata, venuta alla ribalta prima con la legge Cirinnà e oggi per via di Vendola: lo sapete vero che l’80 per cento delle maternità surrogate sono richieste da coppie eterosessuali? E quante di queste coppie, se fosse culturalmente sdoganata la bellezza assoluta e in sé di una genitorialità adottiva, insisterebbero su una strada che in molti contesti rischia di avere tratti eticamente molto dubbi, come nel caso di donne disperate dei paesi più poveri?

    Intendiamoci, non sto dando lezioncine: nessuno è immune dalla subcultura che vuole la genitorialità adottiva come una seconda scelta. Neppure io, che 15 anni fa ho iniziato il percorso di adozione solo dopo aver visto il mio spermiogramma. È stato dopo, che ho capito quanto è meravigliosamente ricca l’esperienza di un genitore a cui un bambino è arrivato in casa dalla luna.

    Per questo quando oggi incontro dei ragazzi che progettano una famiglia mi viene spesso da dire: se volete dei figli, fate insieme le due cose. L’amore e il modulo in tribunale, intendo. Fatele entrambe e come arriva, arriva.

    Non c’è gerarchia tra i due modi di essere papà e mamma. Non c’è.

    Non so, a me tutto questo viene in mente, dalla discussione sulla Cirinnà fino a quella su Vendola. Questa battaglia per trasformare la mentalità, la zucca. Che se fosse vinta risolverebbe forse almeno una parte delle questioni.

    E porterebbe anche la politica a occuparsi seriamente della questione.

    Perché sì, il problema ha anche risvolti legislativi e sarebbe molto utile se tutta questa polemica servisse a cambiare un po’ le cose.

    Ad esempio, modificando le norme che oggi impediscono di adottare un bambino a chiunque non sia una coppia etero regolarmente sposata. È una sciocchezza, è una legge figlia di una visione crudele secondo la quale è meglio lasciar marcire un neonato in un orfanotrofio ucraino piuttosto che dargli un nido d’amore costituito da un single, da una copia etero non sposata, da una coppia gay.

    E poi: perché i bambini degli orfanotrofi lontani che creano un graduale rapporto affettivo con qualcuno attraverso i programmi di affido temporaneo durante le vacanze poi non possono scegliere, dopo un po’ di anni, se restare a vivere con la/le persona/e a cui si sono progressivamente legate, e che spesso finiscono per rappresentare il vero focolare familiare nel loro cuore? Pensate che importi a qualcosa, a quei bambini, se la/le persona/e con cui vogliono vivere è sposata o no, è etero o no?

    E ancora, a proposito di mercificazione della genitorialità, un Paese decente non dovrebbe venire incontro attraverso robusti sostegni e totali deduzioni fiscali a quelle persone che intraprendono il percorso di un’adozione internazionale, i cui costi arrivano talvolta a superare i 25–30 mila euro, riproponendo quindi quel divide tra ricchi e poveri che oggi costituisce uno degli spunti di polemica più citati per la maternità surrogata?

    Ecco, se il caso Vendola servisse ad aprire un vero dibattito culturale e politico su tutti questi temi, sarebbe già un risultato straordinario.

    Per il resto, auguri veri di felicità al piccolo Tobia, ai suoi due papà e alla mamma che l’ha partorito.

  • LA SCUOLA DEL FUTURO

    LA SCUOLA DEL FUTURO

    Automated Teachers, Augmented Reality And Floating Chairs

    Three illustrators envision the classroom of the future.

    France in the year 2000 (21st century). Future school (1910). Wikimedia Commons.

    Artists have creatively depicted the future for centuries, from the neo-futuristic visions of Syd Mead (best known for his work on Blade Runner,Alien, and Tron) to Hajime Sorayama, whose brilliant futuristic design forAIBO (a robotic dog developed by Toshitada Doi at Sony) garnered the highest design award in Japan and a spot in the Museum of Modern Art’s (MoMA) permanent collections.

    Depictions of propeller-powered ships once littered the creative sky of pamphlets seeking to depict the future. And now that people (in the U.S at least) spendan average of 444 minutes every day looking at screens, the future we imagine is filled with robots and screens. What will the classroom look like 35 years from now? We invited a few illustrators to reflect on it. Here’s what they came back with.

    Josan Gonzalez

    Sabadell, Spain

    Arobot teacher assists students and guides them through the lessons; they learn more directly (it’s also more practical) using virtual reality headsets to take a trip inside the human body, for example, where they discover anatomy and biology in a pretty amazing way. The possibilities are endless. They learn firsthand about flora, fauna, geography, and so on.

    Using robots as teachers doesn’t necessarily mean replacing the human teachers. Handing part of the teaching process to the machines gives teachers more time to prepare and create educational content, monitor each student’s performance, and adapt lessons to individual learning curves.

    Floating chairs — potentially using quantum levitation — help the students move, tilt, and rotate within the space (while using virtual reality). They also provide better ergonomics and enable monitoring of students’ health and physical condition. Automated teachers and virtual reality make classes more dynamic and fun. Students have individual content that is adapted to their own learning progression instead of having the rigid classrooms of today.


    Tim Beckhardt

    New York, New York

    The Ocunet is a decentralized educational virtual-reality streaming network reaching every participating provider using .edu’s state­-of-­the-­art Panoptic headset. As our expanding civilization reaches new frontiers, the Ocunet delivers a universal knowledge experience through the most immersive technology available today.

    Recycling

    The submerged infrastructure of Earth’s former public-education solutions is repurposed as housing for the vast server network that houses the Ocunet.

    Education

    Teachers have been relieved of the stress of child-behavior management present under previous systems. After receiving certification training, educators can now focus their skills on managing the Ocunet—editing our vast database to keep our students fully immersed in the latest curriculum.

    Security

    As with educators, the administrators of the previous methods now have a position designed to fully utilize their skills. At all times, principals process incoming student data while superintendents vigilantly secure the Ocunet against attacks from outside dissidents.


    Sam Chivers

    Wilmington, United Kingdom

    Technology has already completely reshaped the classroom in recent years, and I think it’s set to continue on this trajectory. Although still in it’s infancy, I think augmented reality (AR)—the overlaying of audio and visual computer-generated information onto real-world environments through wearable technology such as Google Glass—could become a truly powerful teaching aid in years come. It will help make concepts that are fairly theoretical, like the human neural system, much easier to grasp. At the same time, it could be really fun and make the classroom of the future more mobile, flexible, and connected.

    The development of holographic technologies could replace or at the very least complement the electronic blackboard, creating 3-D visualizations, and at some point I think this could interact with AR in interesting ways.

    Some things in the classroom should remain constant. No amount of technology can replace the subtle skills of a great teacher.

    Gif by Chris Phillips for Bright.

    Bright is made possible by funding from the Bill & Melinda Gates Foundation. Bright retains editorial independence. The Creative Commons license applies only to the text of this article. All rights are reserved in the images. If you’d like to reproduce this on your site for noncommercial purposes, please contact us.

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

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  • Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.

    «Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione invia ORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».

    Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.

    Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.


    Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.

    « All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»

    Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.

    Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.

  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?

  • Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Perché i social sono la frontiera — e la trincea — dei giornali. E cosa ci dicono del presente e del futuro dell’informazione.

    Sono stata social media editor di un grande giornale e credo di aver imparato alcune cose. Sul giornalismo, più che sui social media, perché questi funzionano come un prisma capace di rifrangere, scomporre e rendere visibili molte delle attuali ambizioni e difficoltà di chi fa informazione.

    E pazienza se nessuno — in un certo senso, nemmeno loro — abbia veramente idea di cosa diavolo facciano i social media editor. Sì, si intuisce che abbiano a che fare con i tweet e i post, ma più di lì non ci si spinge. Non si capisce neanche bene come chiamarli: social media manager? Editor? Engagement editor? Community manager? Per fortuna ci vengono in soccorso i generatori automatici di “social media cosi” (cit: utenti Facebook).

    In realtà le offerte di lavoro delle testate angloamericane pullulano di annunci per queste posizioni e le descrizioni della loro attività — molto utili per capire cosa effettivamente dovrebbero fare queste figure — spesso si sovrappongono.

    Ma questa incertezza identitaria è anche legata al ruolo liminare, di frontiera, dei “social media cosi”.

    Stare sulla frontiera però non è del tutto negativo. La prospettiva è più ampia. Si vedono bene i movimenti delle truppe e i loro schieramenti. Si ha la percezione di stare nel luogo dove una nuova realtà si sta formando e accadendo, dove si può vedere — per citare il filosofo — “nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante”.

    Da un certo punto di vista, è una condizione non lontana da quella del giornalista che si occupa di sicurezza informatica. Lo dico perché mi è capitato di incarnare entrambi i ruoli contemporaneamente (qui alcuni dei miei articoli sul tema). Ed è roba da perderci la testa, all’inizio: un secondo sei il Dottor Jekyll, un secondo dopo il signor Hyde (lascio a voi l’assegnazione dei ruoli). La sera ti prefiguri legioni di hacker che per i più svariati motivi potrebbero voler sfondare i siti o i profili del giornale; la mattina fiuti torme di screenshotter in cerca di una consulenza pronti a rivendersi una tua risposta sgraziata a un utente. Inoltre non capisci perché il capo del marketing non voglia discutere con te di una campagna social sulla chat cifrata di Jabber, mentre rischi l’infarto ogni volta che si debba condividere un account con qualcuno di esterno al ristretto team.

    Alla fine ti rendi conto che security e social sono probabilmente antitetici — e che sprigionano però la stessa aria di caos, sommossa ed energia di un mondo nuovo. Ma, soprattutto, che costruire una comunità è per un giornale impresa molto più ardua e spaventosa di qualsiasi attacco informatico.

    E dunque, andando al sodo su quello che ho imparato (non solo nella mia esperienza di social media editor, ma anche dal confronto con i colleghi e dal mio lavoro in Effecinque.org):

    • I social media sono la trincea del giornalismo

    Lo sono per vari motivi. Ma principalmente perché è lì che ormai è stata delegata (a torto o a ragione, temo a torto) l’interazione col pubblico. Chi oggi voglia commentare un articolo, mandare un complimento, una rimostranza o dello spam al giornale, scrivere a un suo giornalista, segnalare una storia, chiedere informazioni o anche semplicemente fare due chiacchiere con qualcuno si rivolge in primis ai profili della testata sui social network.

    Chi si occupa dei social media si trova così a dover gestire non solo le proprie scelte più dirette ma anche l’intera linea editoriale di una testata, nonché le performance dei suoi singoli redattori. Il tutto dentro un ristrettissimo margine di manovra.

    Se ne esce soprattutto in due modi: da un lato, coinvolgendo di più i singoli giornalisti nell’interazione con gli utenti e invitandoli a seguire la propria storia anche dopo che è stata pubblicata (o che abbiano degli spazi di confronto più diretto, come fa il Washington Post attraverso delle chat); dall’altro, facendo in modo che le criticità emerse dal rapporto coi lettori — se ad esempio un certo articolo o scelta editoriale provocano una motivata insurrezione — siano trasmesse, spiegate e intese dal resto del giornale.

    Il social media team insomma è o dovrebbe essere una cinghia di trasmissione tra il dentro e il fuori, premesso che queste due categorie non hanno probabilmente più senso se non per quei giornalisti che ancora si sentono incastonati nella loro torre d’avorio — trasformatasi nel tempo in un desk di plastica, ma vabbé.

    Ma i social sono una frontiera anche nel senso che lì le contraddizioni si acuiscono. Gli errori tendono a permanere e sono più difficili da gestire. Le immagini e i titoli hanno un impatto più forte. Se il sito è ancora un contenitore che si pensa possa raccogliere un po’ di tutto, sui social ogni scelta di pubblicazione deve apparire in qualche modo motivata agli occhi degli utenti.

    • Creare comunità è il sacro graal del giornalismo digitale

    O, se preferite, la reincarnazione delle televendite di mirabolanti prodotti dimagranti.

    Tutti dicono che bisogna fare comunità, creare comunità, interagire con la fottuta comunità, ma non c’è quasi nessuno che spieghi come farlo concretamente.

    Avere una policy su come rapportarsi con gli utenti e un galateo valido per tutti (come ha fatto La Stampa) su come comportarsi sulle pagine del giornale — che si tratti di social o del suo sito — aiuta, ed è sicuramente un primo punto di partenza.

    Oggi vedere le pagine Facebook dei quotidiani piene di commenti irriferibili non è proprio più accettabile e mantenere mediamente civili i propri luoghi digitali è il minimo sindacale per una testata — minimo che però, precisiamolo, comporta di per sé un notevole dispendio di energie e forza lavoro.

    Aggiungo anche che, nell’ecologia mentale e morale dei social, conta molto quello che si decide di pubblicare. Ovvero — per citare una approfonditaanalisi di Arianna Ciccone sul giornalismo odierno — “dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai”. Questo lo sa intuitivamente qualsiasi social media editor. Se metti su Facebook un pezzo di raccapricciante cronaca nera avrai tante visualizzazioni, tanti clic e tanti commenti. Di che natura questi ultimi? Non ci vuole una scienza per capirlo.

    Occorre invece una riflessione su quale sia l’obiettivo della testata: fare tante visualizzazioni e clic entrando a gamba tesa nella timeline dei propri fan (luogo molto più delicato e intimo del sito di un giornale) e suscitando reazioni emotive che si esprimono soprattutto in commenti di odio e frustrazione, o semmai scegliere di pubblicare qualcosa di più costruttivo benché, all’inizio, meno “performante”?

    Ad ogni modo, fare comunità è ancora un passo successivo. Ed è più semplice farlo per una testata specializzata o settoriale o locale (anche se non mancano i problemi), o magari per un foglio d’opinione. Se rientrate in questo gruppo e la creazione di comunità non è al primo posto dei vostri obiettivi editoriali, state sbagliando qualcosa. Per le testate generaliste, che raccolgono un pubblico vasto ed eterogeneo, più eterogeneo online rispetto a quello che compra l’edizione cartacea, è molto più difficile.

    Un modo per farlo è creare eventi, campagne, inchieste di ampio respiro, di interesse pubblico, e lì lavorare sul coinvolgimento. Pensare a come dialogare con gli utenti nel momento in cui si inizia a ragionare su una storia. Spesso significa anche slegarsi dall’urgenza dei giornali di seguire sempre e solo il flusso di notizie.

    In una redazione, dove la priorità è sempre la breaking news, questa è la parte più difficile. Per quanto le breaking news creino dei picchi di traffico sia sul sito che sui social, per quanto siano molto condivise dagli utenti, rischiano di scivolare loro addosso. La loro importanza è a volte sopravvalutata dai giornalisti che vivono nella costante frenesia del nuovo lancio di agenzia e della gara a chi esce prima.

    Ma alla fine ai lettori interessa molto di più il giornalismo che incide sulle loro vite. E questo raramente — a meno di casi particolari, come le alluvioni o altri cataclismi — si realizza con la breaking news, bensì con gli approfondimenti, le inchieste e anche le informazioni di servizio. Se poi sono partecipate, come quellecoordinate dalla mia amica Rosy Battaglia, ancora meglio.

    Probabilmente, a un livello ancora superiore, le testate che puntino a fare seriamente comunità — riduttivamente tradotta in membership, e quindi in diverse forme di abbonamento o sottoscrizione, da chi sta cercando di far quadrare i bilanci dei media — dovrebbero forse tornare a chiedersi i fondamentali: che visione del mondo hanno? Chi rappresentano? A chi parlano? Ma qui ci troviamo di fronte una No Man’s Land, una terra di nessuno in cui è meglio non addentrarsi.

    • Un fantasma si aggira in redazione: la verifica delle fonti

    C’è un ampio dibattito su quanto i social media polarizzino le conversazioni, spingano i temi e le notizie controverse, diffondano disinformazione. C’è addirittura chi pensa — oh my! — che i social abbiano promosso l’improbabile candidatura di Donald Trump. E c’è chi ha lanciato un vero e proprio grido di disperazione, come l’esperta di antibufale del Washington Post, sconfitta dai muri di gomma in cui si rifugiano complottari, cospirazionisti o anche solo fervidi sostenitori di qualche specifica corrente politica.

    La questione è complessa. Ma in ogni caso le testate giornalistiche non possono chiamarsi fuori da questo dibattito. Anche quando non pubblicano delle bufale in senso stretto, ricadono spesso in quello che Craig Silverman definisce “giornalismo del puntare il dito”, nel senso di un giornalismo che ripubblica contenuti virali tali e quali, che ti indica delle notizie senza prendersi la briga di verificarle, che si preoccupa di propagare più che di informare. Se qualcuno fa una dichiarazione eclatante (ad esempio: “ho sventato un attentato”) ci si limita a riferire la dichiarazione senza approfondire se la stessa sia vera o falsa.

    La responsabilità viene fatta ricadere sul dichiarante, e il risultato è che il lettore riceve sì la notizia ma difficilmente capirà se sia qualcosa di rilevante o una boiata pazzesca.

    Le redazioni oggi dovrebbero avere internamente degli esperti di verifica delle fonti digitali, che spazino dai social media alla crittografia. E che lavorino costantemente al debunking di bufale e disinformazione prodotta da altri, nonché allo scopo di evitare di prendere cantonate internamente.

    Quelle competenze sarebbero utili anche nella gestione delle breaking news. Che ormai si abbattono sui giornali e i loro social media con la furia e la rapidità di un ciclone tropicale. E che richiedono di capire al volo se una notizia, una foto, un video, un tweet, un post, siano veri/autentici/affidabili/corretti o no.

    Su questo c’è un micro (che in realtà rientra in un macro) sapere che va coltivato, come mostra l’esperienza di Reported.ly. O di First Draft News.

    Per una redazione significa provare a stabilire anche delle procedure di lavoro che sono tanto più difficili quanto più prevedono, in poco tempo, un coordinamento fra persone su voci e frammenti di notizie per lo più non confermate, nonché spesso contrastanti.

    A volte, anche con tutti gli strumenti a propria disposizione, non si riesce a capire se una informazione è corretta in pochi minuti. E quindi bisognerebbe anche decidere cosa abbia senso comunicare e cosa no. E magari — orrore! — fare un tweet in meno, invece che in più; così come evitare di dare rilevanza a dichiarazioni prive di fondamento, anche se il fatto di pubblicarle ti porterà dei clic immediati. Ricordando che un articolo online si modifica — spesso, e in modo erroneo, senza lasciare traccia della correzione — ma un tweet no, a meno di non cancellarlo. [Certo si può twittare di nuovo la correzione, ma qui rimando alla Legge dei Tweet Sbagliati: “Un’informazione inaccurata iniziale sarà ritwittata di più di ogni successiva correzione”.]

    Corollario di questo tema della verifica è infine la gestione dell’errore online. Perché gli errori si fanno: su carta, sul sito, sui social. Il punto è se e come vengono corretti.

    Come già detto prima, i social fanno da detonatore delle contraddizioni e degli sbagli: un errore, passato inosservato sulla carta, poi scivolato sul sito e da qui sui social, è una palla di neve che rotola lungo un dirupo. Anche in questo caso, il mantra degli specialisti è il seguente: riconosci apertamente l’errore e correggilo in modo visibile.
    Diciamolo: è più facile a dirsi che a farsi. E la ragione sta anche nel fatto che a volte l’errore è frutto di una catena di creazione e propagazione della notizia in cui il debunker, se e quando arriva, è solo l’ultimo anello, col risultato di trovarsi nella posizione di “comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani”.

    Se però la testata è attivamente impegnata nella correzione di disinformazioni e nella verifica delle notizie, anche i propri errori possono essere affrontati più a viso aperto e a cuor leggero.

    • Pensarsi come luogo in cui connettere i punti

    I giornali in questi ultimi anni sono approdati un po’ su tutte le piattaforme, le app e i social con l’obiettivo di seguire gli utenti. E con alterni risultati.

    Ma se è vero che oggi le persone accedono all’informazione attraverso i canali più disparati — dalle mail a WhatsApp, da Snapchat a Periscope, con i video in diretta che secondo alcune previsioni potrebbe esplodere nel 2016 (anche grazie alla discesa in campo di Facebook) — rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito.

    Parlo della capacità di tracciare dei collegamenti e di creare dei percorsi per i lettori.

    Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco.

    Ma le testate che hanno fatto lo sforzo di organizzare, contestualizzare e presentare in modo chiaro questi argomenti possono entrare in gioco. Ci sono alcuni tentativi interessanti al riguardo: uno dei più recenti è la “mappa della conoscenza” ideata dal Washington Post. Si tratta di una modalità di visualizzazione e di organizzazione dei contenuti in cui un lettore può approfondire o chiarire singoli aspetti di un tema complesso mentre legge un articolo e senza lasciare la pagina (nel caso specifico proprio su Daesh).

    Esempi che rispondono a esigenze simili, anche se risolti in modo diverso, sono il modo in cui il New York Times ha mappato e visualizzato la rete degli attentatori di Parigi; o il racconto del complesso tema sorveglianza e Nsa fatto dal Guardian.

    L’esigenza di tirare le fila emerge — in piccolo — anche sui social media: dal modo in cui alcune testate si sforzano di riepilogare breaking news, già nel momento in cui stanno accadendo, attraverso dei formati appositi; al lancio di Moments da parte della stessa Twitter.
    In grande, ci sono poi progetti giornalistici nati o orientati proprio su questa esigenza, come Vox. C’è tutto un filone basato sull’idea delle card, di schede informative da correlare agli articoli.

    Come dice Ezra Klein, direttore di Vox: “Siamo bravi a dire ai lettori quello che è accaduto, ma non sempre siamo così bravi nel dare loro quelle cruciali informazioni di contesto che hanno portato agli ultimi sviluppi”.

    Non sempre, purtroppo, questa impostazione ha trovato una formula soddisfacente per il business, come dimostrato dalla chiusura della app di notizie Circa. Ma l’esigenza rimane forte e chiara.

    • Che ci piaccia o meno, non ci sono più autorità

    Sui social media, e sul settore specifico del giornalismo e dei social media, c’è già un’ampia letteratura. Ci sono consulenti di marketing, libri, blog specifici, casi studio e paper. C’è chi può elencare i formati di foto migliori da postare sui social, chi può stilare tutti i fattori che condizionano l’algoritmo di Facebook, chi sa leggere gli Insights, chi ti dice cosa pubblicare alle 19,15 del mercoledì in un giorno di pioggia, e così via: dati che sono ovviamente utili da sapere.

    E tuttavia si tratta di informazioni che cambiano in continuazione; valgono per oggi, domani chissà; vanno bene per una piattaforma e non per un’altra. Inoltre, ciò che funziona per una testata non è detto che vada bene anche per altre. Più in generale, non c’è un approdo fisso di conoscenza a cui arrivare. Semmai, ci sono persone ed esperienze diverse che sperimentano, idee che circolano. E probabilmente ci sono anche delle buone pratiche da condividere.

    Ma siamo molto lontani dal concetto di un sapere strutturato, magari veicolato da una corporazione di vecchi o nuovi scriba. Soprattutto siamo distanti dall’idea che esistano formule vincenti da replicare. Più vicini forse a un approccio hands-on — basato cioè sul “metterci le mani”, sul confronto pratico con qualcosa — simile a quello della cultura ed etica hacker.

    E per il giornalismo non vale — o dovrebbe valere — la stessa cosa?

  • L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

    L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

     

    Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.

    A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?

    In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti

    Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.

    Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.

    Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione

    Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.

    Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.

    La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità

    In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.

    Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.

    Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.

  • La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)
    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)

    SE

    Se riesci a conservare il controllo quando tutti

    Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;

    Se riesci ad avere fiducia in te quando tutti

    Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;

    Se riesci ad aspettare e a non stancarti di aspettare,

    O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,

    O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall’odio,

    e tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio:

    Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;

    Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;

    Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina

    e trattare allo stesso modo quei due impostori;

    Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto

    Distorta da furfanti per abbindolare gli sciocchi,

    O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita infrante,

    E piegarti a ricostruirle con arnesi logori.

    Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite

    E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,

    E perdere e ricominciare di nuovo dal principio

    E non fiatare una parola sulla perdita;

    Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi

    A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,

    E a tenere duro quando in te non resta altro

    Tranne la Volontà che dice loro: “Tieni duro!”

    Se riesci a parlare con la folla e a conservarti retto,

    E a camminare coi Re senza perdere il contatto con la gente,

    Se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro,

    Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;

    Se riesci a occupare il minuto inesorabile

    Dando valore a ogni istante che passa,

    Tua è la terra e tutto ciò che è in essa,

    E – quel che è più – sei un Uomo, figlio mio!

  • 11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    Stiamo vivendo il periodo più stupefacente del progresso umano nella storia. E nessuno ci sta dicendo nulla su di esso.
    Mentre il 2015 volge al termine, sarebbe difficile trovare qualcuno che sostenga che è stato un buon anno per la razza umana. Le cattive notizie sono state implacabili: la guerra in Siria, la crisi dei rifugiati in Turchia e in Europa, i terremoti in Nepal, attentati a Parigi, assassinii di massa negli Stati Uniti, le inondazioni in India. Con i mezzi di comunicazione pieni di omicidi cruenti e social media pieni di piagnistei su quanto l’uomo sia egoista / materialista / miope versi altri esseri umani, dovrei essere perdonato se penso che il mondo stia andando all’inferno.
    Però sbaglierei.
    Franklin Roosevelt disse una volta, “la prova del nostro progresso non è se diamo di più a chi ha già molto; ma se mettiamo a disposizione abbastanza per chi ha troppo poco “. E se applichiamo questi criteri per il mondo nel suo insieme, il 2015 è stato un anno davvero molto buono.
    Ecco perché.

    1) Siamo molto più vicini a garatire l’istruzione universale globale
    Nel mese di aprile di quest’anno l’UNESCO ha pubblicato un rapporto sullo stato dell’educazione globale, mostrando che negli ultimi 15 anni il numero di bambini in tutto il mondo che non hanno accesso all’istruzione è dimezzato, da 100 a 57 milioni.
    Questo grazie a una maggiore sensibilità sui benefici dell’educazione per l’individuo e la società, maggiori investimenti da parte dei governi e aumento degli anni minimi obbligatori di istruzione. E ‘un risultato incredibile – vuol dire che siamo in un mondo in cui nove bambini su dieci stanno imparando a leggere e scrivere. La Banca mondiale ora dice che siamo ad una sola generazione di distanza da un mondo in cui ogni singola persona è alfabetizzata.

    2) L’estrema povertà è scesa sotto il 10% – il tasso più basso di tutti i tempi.
    Il numero di persone in condizioni di estrema povertà (definite come coloro che vivono con meno di 1,90 $ al giorno) è sceso a 702 milioni nel 2015, ovvero il 9,6% della popolazione mondiale. E’diminuito di 902 milioni di persone, rispetto al 12,8% della popolazione mondiale nel 2012. E ‘il più basso numero di persone che vivono in estrema povertà negli ultimi 200 anni. Come dice Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale: “Questo è il miglior risultato dall’inizio della storia ad oggi – queste proiezioni ci dimostrano che siamo la prima generazione nella storia umana che può mettere fine alla povertà estrema. ”

    3) Sempre più persone sono connesse a Internet come mai prima.
    A livello globale, ci sono ora 3,2 miliardi di persone online, e 2 miliardi di loro provengono da paesi in via di sviluppo. Nel 2000 questi numeri sono stati 300 milioni e 100 milioni rispettivamente. Significa che il numero di persone con accesso a internet è aumentato di otto volte in soli 15 anni. Certo, c’è ancora una lunga strada da percorrere. Nei paesi meno sviluppati, solo il 9,5% della popolazione ha accesso a internet, rispetto al 35,3% per i paesi in via di sviluppo e al 82,2% per i paesi sviluppati. Ma questi numeri sono in rapida evoluzione. La capacità di Internet in Africa, ad esempio, è cresciuto del 51% negli ultimi cinque anni. E i telefoni cellulari stanno conducendo la carica. A livello globale, gli abbonamenti sono più di 7 miliardi, e il 95% della popolazione dispone di un segnale di rete mobile.
    Il 2015 ci ha mostrato che il prossimo miliardo di persone utilizzeranno il web dai telefoni cellulari e a basso costo. Non ci sono stati corsi, nessun tutorial, in grado di scoraggire le persone. L’internet mobile è così intuitivo, e così ovviamente utile, che è diventato la tecnologia più veloce nella storia umana. Per ogni 10 persone che hanno accesso a internet, circa una persona viene sollevato dalla povertà e circa un nuovo posto di lavoro è stato creato. E ricordate … grazie ai nostri successi in materia di istruzione, tutti questi nuovi utenti possono leggere e scrivere. Essi rappresentano decine di migliaia di miliardi di dollari di nuovo potere d’acquisto economico, e un ulteriore miliardo di persone hanno la possibilità di accedere alla rete Internet a portata di mano.

    4) Milioni di persone hanno avuto accesso ai finanziamenti per la prima volta
    Nel mese di aprile di quest’anno una piccola organizzazione la Findex, ha rilasciato il più grande studio sull’inclusione finanziaria nel mondo.
    Sulla base di interviste a 150.000 adulti in più di 140 paesi, ha dimostrato che tra il 2011 e il 2014 ulteriori 700 milioni di persone sono diventate dei titolari dei conti presso banche, altre istituzioni finanziarie, o fornitori di servizi finanziari basati sulla telefonia mobile, e il numero di individui ‘unbanked’ è sceso del 20 %.
    Questa tendenza è stata trainata in particolare da nuovi servizi finanziari basati sul “mobile”. Paesi come la Costa d’Avorio, Somalia, Tanzania, Uganda e Zimbabwe hanno ora più adulti che utilizzano un conto disponibile sul cellulare piuttosto che un conto presso un istituto finanziario.
    Questo è importante, perché l’accesso ai servizi finanziari è ampiamente percepita come un motore di sviluppo, in particolare nei paesi a basso reddito, dove il 54% della popolazione non ha accesso alle banche tradizionali. Ecco perché l’esplosione del mobile è stata così importante. Per i 700 milioni di persone che hanno appena guadagnato l’accesso ai pagamenti digitali, attraverso un telefono cellulare o un terminale POS, si è creata l’opportunità di fornire opzioni di pagamento più comode e convenienti. Significa che saranno in grado di avviare imprese, trasferire denaro, investire in istruzione e affrontare meglio gli shock finanziari.

    5) Il numero dei decessi per AIDS è diminuito per il 15 ° anno di fila
    Negli anni 1980 e 1990, l’AIDS è stato raramente fuori dai titoli della stampa. Eravamo abituati a vedere rapporti quotidiani sulla devastazione che causava, e molte persone si aspettavamo che i pedaggi alla morte sarebbero aumentati. Per i 37 milioni di persone che in tutto il mondo vivono con l’AIDS oggi, però, la malattia è sia curabile che prevenibile. Grazie ad uno sforzo globale concertato per migliorare l’accesso ai farmaci anti-retro-virali abbiamo svoltato nella lotta contro questa terribile malattia.
    UNAIDS afferma che il 41% di tutte le persone che sono HIV positivi, sono ora in trattamento, quasi il doppio della percentuale del 2010. Si rilevano 2 milioni di nuove infezioni da HIV in tutto il mondo nel 2014-15, il numero più basso dal 2000. Anche il numero dei morti sta scendendo, da un massimo di 2 milioni nei primi anni 2000 a 1,2 milioni di quest’anno. L’obiettivo di UNAIDS è quello di porre fine all’epidemia entro il 2030. Ci vorranno più soldi, un maggiore sostegno politico e più lavoro. Ma quello che abbiamo visto quest’anno è che la possibilità di una generazione priva di HIV è ormai in vista.

    6) Abbiamo dimezzato il tasso di mortalità della malaria
    La malaria è uno dei più grandi assassini dell’umanità, responsabile di più morti di quelli causati da tutti gli incidenti stradali in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, però, abbiamo preso finalmente sul serio la lotta contro la malattia. Questo è grazie a tre interventi chiave per il controllo della malaria chia: zanzariere trattate con insetticida, trattamento degli ambienti interni con insetticidi e la terapia combinata a base di artemisinina. Dal 2000, per esempio, circa 1 miliardo di zanzariere trattate con insetticida sono state distribuite in Africa sub-sahariana.
    I tassi di mortalità sono diminuiti del 85% nel sud-est asiatico, del 72% nelle Americhe, del 65% nel Pacifico, e del 64% in Medio Oriente. Mentre l’Africa continua a pagare il prezzo più alto alla malaria, nel corso degli ultimi 15 anni, i tassi di mortalità sono diminuiti del 66% tra tutti i gruppi di età, e del 71% tra i bambini sotto i cinque anni, una popolazione particolarmente sensibili alla malattia. A livello globale, il numero dei decessi per malaria è sceso da un valore stimato 839.000 nel 2000 a 438.000 nel 2015. Ciò significa che abbiamo salvato circa 6,2 milioni di persone dalla malaria negli ultimi 15 anni  – un risultato straordinario.

    7) La poliomielite sta per essere debellata per sempre.
    Un quarto di secolo fa, un certo numero di organizzazioni sanitarie internazionali si sono impegnate nella missione di debellare la polio in tutto il mondo. Con 350.000 bambini colpiti e oltre 1.000 paralizzati ogni giorno, sembrava un obiettivo impossibile. Da allora, sono stati investiti più di 9.000.000.000 di dollari, e più di 2,5 miliardi di bambini in tutto il mondo hanno ricevuto le vaccinazioni. Di conseguenza, il numero di casi di polio è stato ridotto del 99% e nel dicembre di quest’anno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato che la polio non è più endemica in Nigeria, aprendo la strada per farla diventare l’ultima nazione africana da dichiarare ufficialmente libera dalla polio entro il 2017. Questo lascia solo due paesi con casi di polio endemici – Pakistan e Afghanistan. Se, come i professionisti della salute prevedono, si riuscirà a eliminare i 334 casi che ancora rimangono, una malattia che una volta ha ucciso e mutilato i bambini a decine di migliaia si unirà il vaiolo e il Verme della Guinea come piaghe consegnata alla storia.

    8) Meno fame quest’anno rispetto al passato.
    Dei 7,3 miliardi di persone sul pianeta, si stima che 805 milioni – o uno su nove – soffriva di fame cronica tra il 2012 e il 2014. Tuttavia, tale numero è sceso di circa 200 milioni da un quarto di secolo fa. Questo è abbastanza impressionante, soprattutto se si considera che la popolazione mondiale è cresciuta di 1,9 miliardi di persone durante lo stesso periodo. E il tasso di fame è anche in declino. Nel 1990, uno degli obiettivi che ci siamo posti come specie è stato quello di dimezzare il tasso di fame. Oggi, 72 dei 129 paesi in via di sviluppo si sono accordati su questo obiettivo. Globalmente solo il 12,9% della popolazione in paesi in via di sviluppo soffrono oggi la fame, rispetto al 23,3% di un quarto di secolo fa.

    9) Più persone hanno acqua potabile.
    Uno degli obiettivi meno considerato tra le storie di successo del 2015 è invece uno di quelli più importanti. Quest’anno, il numero di persone senza accesso all’acqua potabile è sceso sotto i 700 milioni per la prima volta nella storia. Ciò significa che più di 6,6 miliardi di persone, ovvero il 91% della popolazione mondiale utilizza ora una migliore fonte di acqua potabile, dal 76% nel 1990. Nel 2015 solo tre paesi – Angola, Guinea Equatoriale e Papua Nuova Guinea – hanno una fornitura di acqua pulita inferiore al 50%, rispetto ai 23 paesi nel 1990. Solo nell’Africa sub-sahariana, 427 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, una media di 47.000 persone al giorno, tutti i giorni, negli ultimi 25 anni.

    10) La mortalità infantile è in diminuzione per il 43° anno di fila.
    Il tasso di mortalità, per i bambini sotto i cinque anni, è diminuito in quasi ogni paese della terra. Questo grazie ai progressi nella lotta contro le malattie come la malaria e la tubercolosi, agli integratori di vitamina A, ai nuovi farmaci contro l’HIV / AIDS e ad un migliore trattamento contro la diarrea e la polmonite. Ciò significa che nel 2015, per la prima volta in assoluto, il tasso di mortalità infantile globale (definito come la mortalità infantile sotto i 5 anni) è sceso al di sotto della soglia dei 6 milioni. Negli ultimi 25 anni, circa un terzo dei paesi del mondo – 62 in tutto – ha ridotto la mortalità sotto i cinque anni di due terzi, mentre altri 74 di almeno la metà. E il progresso è venuto da alcuni dei paesi più colpiti al mondo; 10 dei 12 paesi a più basso reddito che hanno ridotto i tassi di mortalità sotto i cinque anni, di almeno due terzi, sono in Africa.
    Ciò significa che si sono salvati circa 19.000 in più al giorno, nel 2015, rispetto al 1990, anno di riferimento per misurare i progressi. Solo dal 2000, abbiamo salvato la vita di 48 milioni di bambini. Questo numero è superiore a quello dei morti causati dalle guerre e dalle violenze durante lo stesso periodo. Significa che meno genitori, hanno dovuto seppellire i loro figli quest’anno che in qualsiasi altro periodo della storia umana. E’una delle notizie più sorprendenti del nostro tempo, e tuttavia il suo peso sui media è di 100 volte inferiore rispetto alle storie sul terrorismo.

    11) Abbiamo raggiunto un punto di svolta nella lotta contro il cambiamento climatico.
    Tre grandi cose sono accadute per il cambiamento della politica sul clima nel 2015. La prima è che il 2015 sembra destinato ad essere l’anno più caldo mai registrato. Questo significa che le temperature sono salito di 1 ° C a partire dalla rivoluzione industriale. Il periodo di cinque anni tra il 2011 e il 2015 è anche il più caldo mai registrato; le giustificazioni sul cambiamento climatico addotte dai negazionisti stanno diventando sempre più ridicole. Abbiamo svolato; chi nega l’influenza delle emissioni sul clima non viene più preso sul serio. Il mondo è andato avanti, e i contrari sono diventati reliquie irrilevanti.
    La seconda cosa è che, grazie al forte calo del consumo di carbone in Cina e un ad un continuo aumento delle energie rinnovabili in tutto il mondo, il 2015 sembra destinato ad essere il primo anno in assoluto durante il quale le emissioni di CO2 sono diminuite mentre l’economia mondiale in generale è cresciuta. Se la transizione energetica sia permanente, non è ancora chiaro, ma i segnali sono incoraggianti. Nei paesi sviluppati i segni sono evidenti. Hanno raggiunto un picco nel consumo complessivo di combustibili fossili e ora sta iniziando la transizione verso forme più pulite di energia.

    Il terzo, e più importante evento è stata la firma dell’accordo di Parigi. Il punto centrale è il cosiddetto ‘obiettivo a lungo termine’ che impegna quasi 200 paesi a mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 ° C, rispetto ai livelli pre-industriali, e di “proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a non più di 1,5 ° C” . L’obiettivo a lungo termine afferma inoltre che nella seconda metà di questo secolo, il mondo dovrebbe arrivare a un punto in cui le emissioni nette di gas serra dovrebbero essere pari a zero.
    Certo, non è abbastanza. C’è una lunga strada da percorrere prima che gli impegni corrispondano a tale obiettivo. Ma è più di quanto ci si potesse aspettare, e un trionfo per la diplomazia. Il più grande raduno di leader mondiali mai avvenuto, il problema più grande che l’umanità abbia mai affrontato, si è concluso con la stesura di un documento giuridicamente vincolante accettato da tutti i paesi. Jonathan Chait riassume perfettamente:
    Le forze tecnologiche e politiche sono finalmente in atto per realizzare il primo patto globale atto a limitare le emissioni di gas serra. Il mondo sta improvvisamente rispondendo all’emergenza clima con – per gli standard del suo comportamento precedente – velocità sorprendente. La partita non è finita. E i bravi ragazzi stanno iniziando a vincere.
    Il mondo non è un posto perfetto. Molte cose sono andate male per l’umanità di quest’anno. Abbiamo ancora grossi problemi, in particolare intorno al degrado ambientale, le migrazioni internazionali, l’estremismo politico e la disuguaglianza economica. Queste sono le grandi sfide del nostro tempo. Ed è anche vero che l’ondata di progresso non ha raggiunto tutti. Troppe persone vivono ancora in condizioni di povertà estrema, 6 milioni di bambini muoiono ancora ogni anno di malattie curabili e centinaia di milioni di persone non possono esercitare le libertà fondamentali. Ma, come uno dei miei preferiti di statistica dice Hans Rosling, “Devi essere in grado di contenere due idee in testa in una sola volta: il mondo sta migliorando e non è abbastanza buono!”
    E ‘facile essere cinici dicendo che nulla sta migliorando nel nostro mondo. L’evidenza empirica contraddice questo punto di vista; guardando a ciò che abbiamo già raggiunto come specie, dobbiamo quandare al futuro con fiducia. Stiamo costantemente sottovalutando le capacità dell’umanità di lavorare in modo cooperativo, affrontare nuove sfide e ampliare la prosperità globale e le libertà fondamentali. Ora abbiamo una finestra di opportunità per creare la più grande era di progresso nella storia umana. Non sarà facile, così come non lo è stato in passato, e ci vorrà coraggio, sacrificio e una forte leadership. Ma i potenziali sviluppi sono impressionanti. E riusciremo a farcela, possiamo sperare in un periodo d’oro per il genere umano e per la terra su cui viviamo.

    Tradotto ed adattato da
    https://medium.com/future-crunch/11-reasons-why-2015-was-a-great-year-for-humanity-70db584db748#.fp21siye4