Categoria: Ecologia

  • L’estate più calda della tua vita, finora: guida per chi nega il cambiamento climatico

    L’estate più calda della tua vita, finora: guida per chi nega il cambiamento climatico

    Abbiamo viaggiato per l’Italia sconvolta dai fenomeni meteorologi estremi e colpita dai cambiamenti climatici. Un Grand Tour tra grandi città e vigneti, dalla laguna di Venezia all’Emilia Romagna dell’alluvione, con esperti, scienziati, contadini e ragazzi che immaginano il loro domani in mondo incerto. Una guida indispensabile a chi nega il cambiamento climatico per scoprire il futuro che ci aspetta, davvero.
    A cura di Simone Giancristofaro

    Di Simone Giancristofaro e Valerio Renzi
    Alluvioni, incendi, siccità, ondate di calore. I fenomeni meteorologici estremi sono diventati la norma. È l’effetto del cambiamento climatico il cui impatto ormai ha traghettato la nostra vita in una nuova, precaria, normalità. Da luglio a fine agosto abbiamo girato l’Italia, incontrando agricoltori, ricercatori, divulgatori scientifici, ragazzi e ragazze il cui territorio è stato sconvolto dall’alluvione. Per anni si è discusso se vivessimo davvero nell’Antropocene, se gli esseri umani fossero o meno diventati una forza geologica. Quando il termine era già diventato di moda per le scienze umane, le scienze naturali hanno seriamente messo all’ordine del giorno il problema, prendendosi i loro tempi. Dal 2009 l’Anthropocene Working Group, sotto commissione dell’International Commission on Stratigraphy dell’Unione internazionale delle Scienze Geologiche, cerca una risposta in sedimenti e carotaggi: nel 2024 potrebbe arrivare la sanzione ufficiale per la nuova era geologica. Ma intanto che attendiamo l’ufficialità, non ci sono però dubbi sul fatto che l’impatto delle attività umane sia la causa del riscaldamento globale. Su questo convengono il 99,9% degli scienziati. “Il caldo che sentiamo adesso è in parte anche l’effetto del carbone bruciato ai tempi di Charles Dickens”, ci spiega Luca Mercalli quando lo andiamo a trovare in Alta Val di Susa partendo da Milano in cerca di refrigerio. Ma anche qui fa caldo, troppo caldo per le medie stagionali registrare finora: quando guardiamo il termometro fanno 28° e siamo oltre 1600 metri d’altitudine.

    Ci muoviamo per la casa del meteorologo e divulgatore scientifico, una delle voci più lucide sul tema in Italia, e ci spiega che lui “la transizione energetica” a casa sua già l’ha fatta, tra pannelli solari e auto elettriche parcheggiate in carica in giardino. “Io penso che la proposta dell’Accordo di Parigi, di rimanere entro 1,5° entro la fine del secolo, sia persa perché non stiamo facendo niente, ma siamo già in ritardo per rimanere sotto i 2°. Ci dovrebbe essere una tale tensione nella società… altro che negazionismo!”. Sì, perché mentre noi giriamo per l’Italia per documentare gli effetti dell’innalzamento delle temperature, il dibattito pubblico è polarizzato tra chi scende in strada a manifestare e chi mette in dubbio che sia davvero un problema. “D’estate fa caldo, d’inverno fa freddo”, sintetizza il ministro Matteo Salvini. Ma nonostante la scienza non abbia dubbi, e nonostante quello che stiamo vivendo, anche il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, nel mezzo dell’estate, decide di dare il suo contributo in televisione, affermando di non sapere se il cambiamento climatico è di origine antropogenica oppure no: “Non so quanto sia dovuto all’uomo quanto sia dovuto al cambiamento climatico… terrestre… perché leggevo ieri sera, il cambiamento climatico è iniziato alla metà del secolo scorso. Chiaro che il secolo scorso ha una caratteristica, quella di essere chiamato il secolo breve, il secolo che ha scaricato di più come emissione… È quello? Non è quello? Io non lo so, però so che c’è”.

    Incredibile ma vero. D’altronde il governo di Giorgia Meloni non è proprio il fan numero uno della transizione ecologica, bollata per lo più, tra discorsi sulla “follia green” e il continuo ribadire che le richieste di diminuire drasticamente le emissioni è una questione ideologica. Chi non ha dubbi è invece il Segretario Generale delle Nazioni Antònio Guterres che tuona presentando i dati del luglio 2023 come il mese più caldo mai registrato:

    Le conseguenze sono evidenti e sono tragiche: bambini travolti dalle piogge monsoniche; famiglie in fuga dalle fiamme; lavoratori che crollano nel caldo torrido. Per vaste parti del Nord America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, è un’estate crudele. Per l’intero pianeta, è un disastro.  E per gli scienziati è inequivocabile: la colpa è degli esseri umani. Tutto questo è del tutto coerente con previsioni e avvertimenti ripetuti. L’unica sorpresa è la velocità del cambiamento. Il cambiamento climatico è qui. E’ terrificante. Ed è solo l’inizio. L’era del riscaldamento globale è finita; l’era dell’ebollizione globale è arrivata. L’aria è irrespirabile. Il caldo è insopportabile. E il livello dei profitti dei combustibili fossili e dell’inerzia climatica è inaccettabile. I leader devono fare i leder. Niente più esitazioni. Niente più scuse. Non dovete più aspettare che gli altri si muovano per primi. Semplicemente, per questo non c’è più tempo”
    Un messaggio che non lascia spazio a interpretazioni. Così mentre viaggiamo verso Venezia, lo facciamo con ancora nelle orecchie le parole di Mercalli: “L’Italia rischia più di altri paesi, Venezia così è già spacciata”. Arriviamo in laguna, e la navighiamo con i ricercatori dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr. Secondo la Banca Mondiale a causa dei cambiamenti climatici 216 milioni di persone dovranno abbandonare la propria terra, i migranti climatici: una catastrofe umanitaria senza precedenti. In Italia sicuramente dovremmo decidere se salvare Venezia o l’ecosistema lagunare. “Intanto il Mose ci fa guadagnare tempo”, nella speranza che si trovino altre soluzioni per salvare la città. Ma più le paratie sono alzate, più lo scambio di acqua dolce e salata si interrompe e il delicato ecosistema lagunare muore.

    Venezia che finisce sotto l’acqua è un’immagine classica da disaster movie americano. Ma se la città dei Dogi è in pericolo, lo è anche il patrimonio materiale e immateriale del nostro paese, quello che rende il paesaggio e la cultura italiana così varia e ricca. Per proteggere il made in Italy non basta fare più controlli sulle etichette, ma bisogna combattere i cambiamenti climatici. Il paesaggio delle Langhe è patrimonio dell’Unesco, mentre i suoi vini rappresentano il prodotto più significativo di un distretto produttivo ricco e conosciuto in tutto il mondo. Ma il riscaldamento globale rischia di cambiare tutto. Per sempre.

    Così Roberto Cerrato, direttore del sito Unesco Langhe Roero e Monferrato, spiega il programma di monitoraggio dei cambiamenti climatici: “L’altr’anno la produzione è stata del 25 per cento in meno per la siccità. Alcuni produttori hanno acquistato terreni per produrre anche in altezza, ma ci sono solo certe tipologie di vitigno che possono andare su. Questa zona non è sempre stata così ricca, fine 1800 metà 1900, qua non si riusciva a mettere il pranzo con la cena”. Poi ci mostra i sensori piazzati tra i filari d’uva: “Qui c’è un sensore che monitora l’umidità del terreno, questo invece ci aiuta a raccogliere una serie di parametri che ci danno indicazioni insieme all’accrescimento fogliare di quanto il cambiamento climatico abbia delle conseguenze”. Ve lo immaginate il vino delle Langhe prodotto in Germania o in Danimarca e il Marsala in Piemonte? Questo scenario non è poi così lontano.

    Nel nostro viaggio, tra città che affondano e agricoltori che provano a capire il loro futuro, abbiamo deciso di tornare anche nelle zone colpite dall’alluvione in Emilia Romagna dello scorso maggio: 21 fiumi esondati, 15 vittime, migliaia di sfollati e miliardi di danni. Più precisamente siamo tornati Forlì, dove ci siamo dati appuntamento con i ragazzi di una web radio che hanno girato per i comuni alluvionati a bordo di un’Apecar. Prima hanno spalato il fango poi, superata la fase dell’emergenza più acuta, hanno raccolto i sentimenti e le storie dei loro coetanei alluvionati.

    L’Apecar era già stata testata, viaggiando anche a biometano dalla provincia di Bologna fino  a Stoccolma per incontrare Greta Thunberg. “Diciamo che a diciott’anni ne ho già viste troppe per i miei gusti di fenomeni naturali disastrosi. Una volta che hai passato sulla tua pelle una cosa del genere ti rendi conto di quello che può fare la natura. Io sono sempre stato un’ottimista, quindi dico che il futuro sarà diverso il futuro sarà migliore”, racconta Matilde Montanari studentessa di Forlì, che di una cosa però è convinta: per un futuro migliore dobbiamo capire da dove vengono i guai del nostro presente. “Ci siamo resi conto di una cosa, che pochissimi ci hanno detto che l’alluvione è stato causato del cambiamento climatico e questa è una cosa che ci ha fatto un po’ pensare”, spiega. In molti qua sono ancora traumatizzati, preferiscono guardare avanti e basta invece di cercare soluzioni al futuro, ma quelli di Radioimmaginaria preferiscono guardare il bicchiere mezzo pieno raccogliendo voci, storie, proposte: “Parlarne con persone che hanno visto i loro ricordi sparire in mezzo al fango proprio ti si spezza il cuore in mille parti, si vede proprio negli occhi delle persone questo dolore immenso. Sì, l’alluvione ha distrutto tutto però ha creato un senso di comunità che prima non avevamo”. E magari è qualcosa da tenersi stretto per ricominciare.

    Il nostro viaggio termina a Milano dove era iniziato. Il capoluogo lombardo funestato quest’estate da una tempesta che ha abbattuto centinaia di alberi, dove la colonnina di mercurio è salito a segnare nuovi record (come in grandi altre città italiane) e dove abbiamo cercato risposte a come si possono mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. L’ultima voce che abbiamo ascoltato è stata quella di Fabio Deotto, che settimanalmente ci accompagna su Fanpage.it per parlare proprio di cambiamento climatico. A lui abbiamo chiesto cosa aspettarci dal futuro. Vi lasciamo con le sue parole: “L’estate è passata da essere una stagione di gioia e di relax, a essere una stagione che fa paura. Ci sarà un aumento sempre maggiore di carestie, siccità, eventi estremi. Qualunque settore della nostra esistenza verrà toccato in maniera negativa dal riscaldamento globale. Allo stesso tempo immagino un futuro in cui quelle misure sono state adottate in modo drastico, in cui abbiamo cambiato sistema economico e produttivo. In cui abbiamo cambiato anche la nostra cultura del consumo, dell’accumulo e della crescita. E se mi chiedi come sarà vivere in un mondo del genere, io mi immagino una vita migliore di quella che stiamo vivendo adesso. È questa, credo, la cosa più importante”. 

  • Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il negazionismo climatico è un fenomeno documentato da decine di libri, studi e inchieste giornalistiche. È un fenomeno reale, storico e organizzato. Qualsiasi siano le ragioni che spingono ad abbracciarlo – convinzioni personali, interesse economico, ideologia politica o una combinazione di questi elementi – il negazionismo si regge sulla produzione e sulla diffusione di disinformazione. Questa disinformazione riesce a raggiungere l’opinione pubblica anche attraverso la voce di quelli che possiamo definire “falsi esperti”, o “pseudoesperti”.

    Lo abbiamo visto anche nelle ultime settimane: sui media compaiono persone che parlano di cambiamento climatico con il cappello di esperti, anche quando non hanno un’effettiva competenza in materia. Di recente è intervenuto su La7 Franco Prodi, fisico dell’atmosfera che non si è occupato del cambiamento climatico durante la sua carriera. Questi “scettici” (se proprio non vogliamo chiamarli negazionisti) rilasciano interviste, organizzano convegni, fanno circolare petizioni. Nella quasi totalità dei casi non hanno mai pubblicato nulla di rilevante, riguardo al cambiamento climatico, su riviste scientifiche a revisione paritaria. Le loro tesi si scontrano con ciò che afferma la comunità scientifica.

    Il negazionismo sfrutta diverse tecniche e argomentazioni. Ma c’è una costante nel suo modus operandi: prendere di mira il consenso scientifico e la sua stessa legittimità. La presenza di pseudoesperti sui media, che si rivolgono direttamente al pubblico, suscita l’impressione ingannevole che il dibattito, nella scienza, sia ancora aperto.

    Il consenso scientifico è una caratteristica centrale della scienza moderna. A partire dal XIX secolo, la scienza è diventata sempre di più un’impresa collettiva, che coinvolge migliaia di scienziati a livello globale. In questo lavoro comunitario di costruzione della conoscenza, alcuni danno un contributo più importante di altri e il loro nome viene associato a una tappa significativa nella storia di una disciplina.

    Alcune ricerche hanno dimostrato che il consenso scientifico agisce come un gateway belief, cioè come una sorta di cancello cognitivo attraverso cui passa la formazione delle opinioni. Comunicare correttamente il consenso scientifico sul cambiamento climatico migliora la comprensione del tema. Per non farsi ingannare dalla disinformazione e per capire come la scienza funziona e avanza lungo la tortuosa strada della conoscenza, è perciò indispensabile acquisire familiarità con il concetto di consenso scientifico.

    Innanzitutto, non dobbiamo pensare a questo consenso come a una decisione formale che gli scienziati prendono in un preciso istante, magari con un voto a maggioranza. Il consenso emerge nell’arco di anni di ricerche, da studi pubblicati in modo indipendente da molte persone. La formazione di un consenso è perciò un processo spontaneo, che avviene grazie a un’opera corale di accumulo di evidenze e di conoscenze. Quando il consenso si è formato gli scienziati possono prendere atto della sua esistenza, attraverso dichiarazioni personali e le posizioni espresse da società e organizzazioni scientifiche. Possiamo misurare con una certa accuratezza il consenso scientifico? Sì, è possibile. È ciò che è stato fatto sul cambiamento climatico.

    In uno studio pubblicato nel 2004 sulla rivista Science, la storica della scienza Naomi Oreskes ha raccolto le sintesi di 928 articoli scientifici pubblicati tra il 1993 e il 2003. Nessuno di questi rifiutava la posizione secondo cui é in atto un riscaldamento globale causato dalle attività umane. Il 75% era d’accordo con questa posizione e il 25% non si esprimeva. Nel 2013 John Cook e altri autori hanno analizzato gli abstract di 11944 articoli pubblicati tra il 1991 e il 2011. Degli articoli che esplicitavano la posizione sul riscaldamento antropico, il 97,1% riconosceva la sua esistenza. Inoltre, gli autori hanno invitato gli scienziati a valutare i propri stessi articoli. Tra quelli che avevano risposto, il 97,2% dichiarava di aderire a questa posizione.

    Un articolo pubblicato nel 2016 ha presentato una sintesi degli studi svolti dal 1991 al 2015: dodici studi pubblicati e due sondaggi realizzati da due organizzazioni. La conclusione degli autori è stata che il consenso scientifico sul cambiamento climatico si può collocare attorno al 97%. Gli autori osservavano che, a seconda della metodologia, il consenso oscillava tra il 90% e il 100%. La discrepanza tra le percentuali derivava, principalmente, da differenze nella selezione del database di esperti; dall’esatta definizione della posizione su cui valutare il consenso; da differenze nel trattamento delle risposte che non esprimevano apertamente una posizione. Un aspetto importante era quello che riguarda la specifica competenza degli scienziati. «Maggiore è l’esperienza in campo climatico degli scienziati esaminati, maggiore è il consenso sul riscaldamento globale causato dall’uomo», scrivono gli autori.

    Il consenso scientifico sul cambiamento climatico aumenta con il livello di competenza (ogni sigla indica uno studio diverso). Da: John Cook et al., Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming.

    Due nuove ricerche sono state pubblicate nel 2021. Quella di Mark Lynas e colleghi ha applicato la metodologia dello studio del 2013 a un dabatase di articoli pubblicati tra il 2012 e il 2020, trovando una percentuale di consenso attorno al 99,6%. Se si considera che gli articoli valutati sono stati pubblicati in anni più recenti rispetto a quelli compresi nello studio del 2013, il fatto che la percentuale cresca, anche se da a un valore già molto alto, è coerente con un consenso che si rafforza nel tempo. All’interno di un database di 88125 pubblicazioni, Lynas e colleghi hanno trovato 28 articoli che hanno potuto classificare come “scettici”. Tra gli autori di cinque di questi articoli compare il nome di Nicola Scafetta. Docente di fisica dell’atmosfera all’Università di Napoli, Scafetta è uno dei bastian contrari climatici italiani che, per il suo ruolo accademico, dovrebbe avere, almeno sulla carta, le competenze per occuparsi di cambiamento climatico. Le sue ricerche hanno però un unico obiettivo: dimostrare che il riscaldamento globale non è causato dalle attività umane.

    Scafetta è convinto che l’aumento della temperatura sia da imputare alle variazioni dell’attività solare e a cicli astronomici. Riguardo alla prima, non c’è nessuna evidenza che l’attività solare sia in qualche modo legata all’attuale riscaldamento globale. L’aumento della temperatura mostra di non sovrapporsi affatto a possibili fattori naturali, come il Sole, ma soltanto all’andamento delle emissioni antropiche. Quanto ai cicli astronomici, sappiamo che le periodiche variazioni dei parametri dell’asse terrestre (i cicli di Milankovitch) producono effetti sul clima, attraverso l’innesco dell’inizio e del termine di periodi glaciali, ma su scale temporali di decine e centinaia di migliaia di anni. Tuttavia Scafetta parla anche di altri cicli, proclama di aver scoperto cicli di “5, 9, 11, 20, 60, 115, 1000 anni”, afferma che «oscillando, il Sole causa cicli equivalenti nel sistema climatico. Anche la Luna agisce su di esso con le proprie armoniche». Gli esperti del sito Climalteranti, nel confutare queste supposizioni, e gli innumerevoli errori su cui si fondano, parlano di «irresponsabile e ostinata ciclomania». Tale ciclomania gli consente di essere intervistato, ciclicamente, su quotidiani che hanno un interesse ideologico a proporre ai propri lettori questo genere di tesi. Scafetta è uno dei firmatari italiani della petizione, circolata nel 2019, che asseriva l’inesistenza della crisi climatica, sulla base di vecchie argomentazioni, tanto ripetitive quanto inconsistenti, come la “CO2 fa bene alle piante”.

    Potremmo chiederci: se una ricerca è così scadente e se una tesi è così priva di fondamento, come è possibile che possano finire, anche se in rari casi, su riviste specialistiche? La pubblicazione non conferisce a queste ipotesi una qualche dignità scientifica? La revisione paritaria e la pubblicazione degli studi sono stadi necessari di quel processo di scrutinio attraverso cui la scienza vaglia ipotesi e affermazioni. È ciò che distingue un articolo scientifico da un’intervista rilasciata a un quotidiano. Ma non è un sistema perfetto, né immune da errori. Inoltre, al di là del rigore dei controlli eseguiti dai revisori (non sempre di qualità eccellente) e della qualità delle diverse riviste (che non è sempre pari a quella di riviste come Nature e Science), il singolo articolo non stabilisce, da solo, la posizione della scienza su un tema così vasto come il cambiamento climatico. Il singolo articolo è un tassello di un quadro che si compone di una quantità di studi realizzati da più scienziati: è, appunto, ciò che chiamiamo consenso.

    Nel 2015 un gruppo di ricercatori, tra cui la climatologa Katharine Hayhoe e lo psicologo, esperto di disinformazione, Stephan Lewandowsky, ha passato in rassegna gli errori e le falle presenti in 38 articoli che contestano il riscaldamento globale antropico (compaiono anche articoli di Scafetta). Una caratteristica frequente è l’omissione di informazioni contestuali o di dati che potrebbero smentire le conclusioni. Altre falle, in questi articoli “scettici”, sono l’uso di metodi statistici inappropriati, l’assunzione di premesse scorrette e fallacie logiche come le false dicotomie.

    Il secondo studio sul consenso scientifico apparso nel 2021, di Krista Myers e altri autori, ha replicato una metodologia utilizzata in un lavoro del 2009. Gli autori hanno realizzato un sondaggio tra scienziati specializzati in scienze della Terra. Tra tutti quelli (2548) che hanno risposto alla domanda sulla causa del riscaldamento globale, il 91,1% ha indicato le attività umane. Restringendo il campo agli esperti di scienze climatiche e atmosferiche (153), per i quali è possibile verificare un elevato livello di competenza sul cambiamento climatico (almeno il 50% dei loro studi ha come oggetto questo argomento), il consenso sale al 98,7%. La percentuale tocca il 100% se si considerano gli autori che hanno pubblicato almeno 20 studi sul cambiamento climatico tra il 2015 e il 2019. Questi risultati dimostrano che «la competenza predice il consenso». Come già avevano dimostrato gli studi precedenti, i dati evidenziano che maggiore è la competenza, maggiore è l’accordo sull’esistenza e le cause antropiche del cambiamento climatico.

    Un argomento di discussione tra gli esperti è stato il trattamento da applicare agli articoli scientifici che non dichiarano, apertamente, una posizione sul cambiamento climatico. Nello studio di Cook e colleghi del 2013 questi articoli comprendevano il 66,4% del database. Si deve considerare il fatto che uno stesso scienziato può aver pubblicato articoli in cui talvolta ha manifestato, attraverso qualche affermazione, la propria posizione e altri in cui non lo ha fatto. In altri casi la posizione può essere implicita. Questo non costituisce un’anomalia, lo si riscontra anche in altri settori della scienza. I sismologi e i vulcanologi non esplicitano in ogni loro studio cosa pensano della tettonica a placche, perché questa teoria è ormai da decenni un indiscusso pilastro della geologia. I biologi evoluzionisti non devono ribadire, ad ogni occasione, di essere convinti della correttezza della teoria dell’evoluzione e della selezione naturale, perché l’evoluzione è un caposaldo della biologia contemporanea («nulla in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione», affermava il genetista Theodosius Dobzhansky ).

    Come abbiamo visto, la formazione di un consenso è un processo che lascia tracce nella letteratura scientifica. Da essa possiamo anche trarre indicazioni su quale sia stata l’evoluzione del dibattito su una questione. In un articolo intitolato La struttura temporale della formazione del consenso scientifico, i sociologi Uri Shwed e Peter Bearman si sono chiesti quali traiettorie assumano i dibattiti scientifici e quando una comunità scientifica raggiunge un accordo su un fatto. Quando e come diventiamo certi che il fumo è un fattore di rischio per lo sviluppo del cancro o che le attività umane stanno causando un riscaldamento globale? Per rispondere a queste domande, Schwed e Bearman non hanno svolto sondaggi tra gli scienziati, né hanno valutato il contenuto degli articoli scientifici, ma hanno studiato lo schema delle loro citazioni.

    La base concettuale di partenza è l’immagine della scatola nera, elaborata dal sociologo della scienza Bruno Latour: quando un fatto scientifico si consolida i suoi elementi costitutivi interni vengono nascosti; quando un fatto è ancora in fase di costruzione i suoi elementi interni sono visibili. Come un computer che, una volta assemblato e funzionante, non deve più essere smontato (a meno di un malfunzionamento) e l’insieme dei suoi componenti interni rimane nascosto alla vista, così un’affermazione scientifica, come il fumo causa il cancro, si costruisce nel tempo all’interno di un network fatto di persone, di studi e anche di elementi esterni alla comunità scientifica (si pensi a tutto ciò che ruota attorno alle politiche sanitarie di prevenzione).

    Se si analizza la rete di citazioni tra gli autori e gli articoli di una comunità scientifica, si riconosce una struttura che indica il grado di divisione all’interno della letteratura. Una comunità è una rete, un sottoinsieme di una popolazione più ampia, in cui i legami interni sono prevalenti rispetto ai legami con altri sottoinsiemi. «Possiamo osservare il black-boxing nelle reti di citazioni o, più precisamente, nelle rappresentazioni di articoli scientifici collegati da citazioni». Quando diverse fazioni dibattono su una questione scientifica, creano regioni distinte all’interno della rete. Gli elementi interni sono visibili, perché il fatto scientifico si sta costruendo.

    Schwed e Bearman hanno applicato questa teoria non solo alla letteratura sul cambiamento climatico, ma anche a quella in altri campi, come il rapporto tra cancro e fumo, e a temi su cui non c’è stato alcun reale dibattito scientifico, come il link tra vaccini e autismo (un’ipotesi mai provata – frutto di una frode – che la comunità scientifica ha prontamente smentito). In quest’ultimo caso la discussione segue una traiettoria piatta: il tema non è mai diventato scientificamente controverso. Nel caso del rapporto tra fumo e cancro, il dibattito scientifico percorre, per buona parte del suo arco temporale, una traiettoria ciclica. Dopo che, in seguito alla pubblicazione di alcuni importanti studi e rapporti, un primo consenso sulla cancerogenicità del fumo si formò tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, la questione è stata in seguito riaperta in termini diversi, come quando si è iniziato a discutere sulla possibilità di fabbricare sigarette più sicure e sul ruolo della nicotina. Questo, secondo Schwed e Bearman, si deve anche all’influenza che l’industria del tabacco è riuscita a esercitare sulla ricerca.

    La formazione del consenso scientifico sul cambiamento climatico si sviluppa lungo un terzo tipo di traiettoria, detto “a spirale”: a un iniziale dibattito segue una rapida risoluzione della questione e una spirale di nuove domande verso le quali gli scienziati si orientano. L’esistenza del riscaldamento globale e le sue cause antropiche non sono più dibattute, ma a valle di questo consenso continua una discussione su altri aspetti della questione. Schwed e Bearman hanno preso in esame 9423 articoli scientifici sul clima pubblicati tra il 1975 e il 2008, trovando che all’inizio degli anni ’90 il consenso scientifico si era ormai consolidato.

    Questo consenso può essere ribaltato? In linea di principio sì, se nuove e convincenti evidenze si fanno largo. Ma il livello di consenso ci dice anche qual è lo stato della discussione nella comunità scientifica. È una misura dell’eventuale dissenso al suo interno e quindi, indirettamente, della plausibilità di ipotesi alternative, messe alla prova dello scrutinio della comunità scientifica. Se il consenso sul cambiamento climatico antropico sfiora il 100%, ciò significa che tra gli scienziati più competenti non c’è alcun dibattito sulla sua realtà.

    Naomi Oreskes afferma che «la maggior parte delle persone pensa che la scienza sia affidabile in virtù del suo metodo: il metodo scientifico». Ma non esiste un singolo metodo scientifico, ci sono molti metodi scientifici. Ciò che, in verità, rende affidabili le affermazioni scientifiche è, secondo Oreskes, «il processo mediante il quale vengono controllate. Le affermazioni scientifiche sono soggette a controlli e solo le affermazioni che li superano possiamo dire che costituiscano conoscenza scientifica».

    Nel caso del cambiamento climatico questo processo di controllo scientifico è giunto da tempo al termine. La scienza oggi è certa che il riscaldamento globale è causato dalle emissioni prodotte dalle attività umane (in primo luogo, i combustibili fossili), tanto quanto è certa che il fumo è cancerogeno. Chiunque è libero di credere che gli “scettici” abbiano ragione e che la comunità scientifica abbia torto. Le opinioni personali sono libere. Quello che non si può fare è affermare che la comunità scientifica sia divisa o che gli scienziati non siano ancora sicuri delle cause del riscaldamento globale. Perché queste, come dimostrano gli studi, sono affermazioni false.

    https://www.valigiablu.it/consenso-scienza-cosa-dice-cambiamento-climatico/

  • Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”. Apertura sui laghetti collinari, “ma il nodo è l’approccio insostenibile nell’uso dell’acqua”

    Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”. Apertura sui laghetti collinari, “ma il nodo è l’approccio insostenibile nell’uso dell’acqua”

    Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura: “Delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo a invasi e laghetti”. Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale: “L’obiettivo deve essere la ricarica controllata della falda”. Il nodo delle perdite della rete idrica, dei consumi domestici e quello dell’agricoltura.

    “Crisi climatica e siccità non guardano in faccia a nessuno, neanche alla crisi del governo”. Nonostante piogge e previsioni di piogge, il problema resta. Di queste ore, ad esempio, l’allarme sulle acque sotterranee in Emilia Romagna, mai così in sofferenza. E gli incendi non fanno che peggiorare una situazione già sull’orlo del collasso. E così nove associazioni propongono sette interventi chiave, tra cui l’adozione per ogni bacino di protocolli di gestione delle siccità e strategie di riduzione dei consumi idrici e di trasformazione del sistema agroalimentare. Agli inizi di luglio, invece, un Piano invasi e laghetti è stato lanciato da Coldiretti e Anbi (Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue), che aveva chiesto una cabina di regia e un commissario per gestire l’emergenza siccità. Certo, la crisi di governo non ha aiutato. Un piano che divide. Gli invasi? “Nuovi invasi non sono la risposta. Nessuna opposizione ‘ideologica’, ma sono una soluzione che ha molte controindicazioni”. Ne sono convinti Cipra Italia, Club Alpino Italiano, Federazione Nazionale Pro Natura, Free Rivers Italia, Legambiente, Lipu, Mountain Wilderness, Wwf Italia e Cirf (Centro italiano per la riqualificazione fluviale), che aveva già mostrato delle perplessità su soluzioni basate sulla costruzione di nuovi invasi. Una posizione contraria “a nuove dighe lungo i corsi d’acqua naturali”, più possibilista “rispetto a un limitato numero di piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, per quanto non siano esenti da criticità. È prudente, a riguardo, anche Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr: “Credo che la questione vada affrontata con la massima attenzione ai delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo ad invasi e laghetti” spiega a ilfattoquotidiano.it.

    Il piano invasi e laghetti – Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura. Sono 223 i progetti definitivi ed esecutivi, cioè immediatamente cantierabili e l’investimento previsto per questa prima tranche del Piano Laghetti ammonta a oltre 3 miliardi di euro. La realizzazione di questi oltre duecento laghetti comporterebbe un aumento “di quasi 435mila ettari nelle superfici irrigabili in tutta Italia”. Secondo le stime, i nuovi bacini incrementerebbero “di oltre il 60% l’attuale capacità complessiva dei 114 serbatoi esistenti e pari a poco più di un miliardo di metri cubi, contribuendo ad aumentare, in maniera significativa, la percentuale dell’11% di quantità di pioggia attualmente trattenuta al suolo”. Il maggior numero di progetti già pronti interessa l’Emilia Romagna (40), seguita da Toscana e Veneto. Al Sud, il maggior numero di progetti riguarda la Calabria. Ma c’è un altro obiettivo strategico, ossia quello dell’autosufficienza energetica. Per questo scopo, calcolano Anbi e Coldiretti, dovranno essere realizzati 337 impianti fotovoltaici galleggianti (potranno occupare fino al 30% della superficie lacustre) e 76 impianti idroelettrici, capaci di produrre complessivamente oltre 7 milioni di megawattora all’anno. D’altronde, ricorda il presidente Coldiretti, Ettore Prandini, “l’Italia è al terz’ultimo posto in Europa per investimenti nel settore idrico. Un piano di laghetti diffusi e con funzioni anche ambientali è la soluzione all’impossibilità di realizzare grandi invasi”. Un limite si cui, a ilfattoquotidiano.it aveva già parlato anche Maurizio Righettidocente di Costruzioni idroelettriche presso l’Università di Bolzano: “Quando si parla di siccità, bisogna però fare i conti con le peculiarità dei territori e, caso per caso, valutare fabbisogni e ipotesi invasi”.

    La posizione del Centro per la riqualificazione fluviale – Anche i piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, però, per il Cirf “non devono infatti diventare ulteriore causa diffusa di consumo di suolo e di alterazione delle portate dei corpi idrici, come sta accadendo con gli invasi per l’innevamento artificiale, altro esempio di approccio insostenibile nell’uso dell’acqua nel contesto del cambiamento climatico”. Il Cirf ricorda proprio le stime di Anbi (“In Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali”) e ritiene, dunque, prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare “in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP)” bocciato dalla Commissione Europea “proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale”.

    Puntare sulle falde – Per il Cirf “il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una. I serbatoi artificiali – aggiunge – sono sostanzialmente interventi monofunzionali, la multifunzionalità tanto sbandierata è solo una chimera, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente”. La ricarica controllata della falda, invece, determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: “Falde più alte sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat, si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda, oltre al fatto che falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra e contrastano l’intrusione del cuneo salino”. E, di fatto, tra le azioni indicate dalle nove associazioni nell’appello al Governo, ce ne sono un paio che hanno come obiettivo proprio quello di ripristinare le falde. Si chiede, infatti, di destinare almeno 2 miliardi di euro l’anno per un periodo di 10 anni “a interventi di riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua e del reticolo idraulico minuto e di ricarica della falda previsti dai Piani di gestione e Piani di tutela delle acque”. Ma anche di “recepire le misure previste dalle strategie per la “Biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal dell’Ue e riprese dalla recente proposta normativa “il Pacchetto Natura” presentata lo scorso 22 giugno dalla Commissione Europea.

    Le altre soluzioni, perdite idriche e politica dei consumi – Tra le altre azioni, l’istituzione di protocolli di raccolta dati e modelli previsionali che permettano di rendere disponibile ai cittadini stime affidabili delle disponibilità di risorse idriche, dei consumi reali e della domanda potenziale e l’adozione per ogni bacino dei protocolli di gestione delle siccità. L’altra richiesta è quella di individuare “gli eventuali ostacoli e i meccanismi di reperimento delle risorse finanziarie che permettano di accelerare il percorso” per portare le perdite delle reti civili al di sotto del 25% (per le perdite percentuali). Nel 2018 le perdite nelle reti idriche potabili sono state pari al 42%, in aumento di 10 punti rispetto al decennio precedente. Il Pnrr prevede di investire entro il 2026 appena 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi euro l’anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il resto d’Europa. Le associazioni chiedono anche di definire, di concerto con l’Anci, una strategia che promuova la riduzione dei consumi idrici domestici e il ricorso ad acque non potabili (acque di pioggia accumulate o acque grigie depurate) per gli usi compatibili (risciacquo dei WC, lavatrice, lavaggi esterni) in modo da portare il valore medio dei consumi civili di acqua potabile a non oltre i 150 litri abitante giorno.

    Il nodo agricoltura – Discorso a parte merita l’agricoltura. Come spiega Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr “anche in agricoltura è necessario ridurre sensibilmente le perdite delle reti irrigue e favorire il riuso di acque reflue depurate. Ma non solo. La necessità di favorire la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e di contenere i consumi irrigui “entro la soglia dei 2500 metri cubi di ettaro all’anno” suggerisce il Cirf, va di pari passo con il bisogno di adottare misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei suoli agrari e della loro capacità di trattenere l’acqua. “Non possiamo continuare a deteriorare habitat, ma è necessario rendere l’agricoltura più sostenibile. È possibile – spiega Uricchio – agire sulle pratiche agronomiche, sull’incremento della sostanza organica ed in generale sull’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli”. Secondo l’Ispra, infatti, il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione “che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua” spiega il Cirf, ricordando che “secondo dati del 2008, in Italia l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%”. Questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva.

  • Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato.

    Chi non ha mai posseduto un cane, non sa cosa significhi essere amato.

    Ricordo una zia, che ormai è morta da molti anni, lei non aveva un animale, e quando sentiva dire da qualcuno che era triste per la morte del proprio animale domestico, non dico che lo irrideva, ma lo trattava con sufficienza (come peraltro farebbero molti di noi). Anni dopo mia zia prese un bastardino. Non ricordo chi glielo regalò, forse mia cugina, penso che lo abbia tenuto con sé una quindicina di anni, anche quando poi rimase sola perché vedova e questo cane era la sua sola compagnia. Ricordo per averlo visto di persona che, quando in mezzo a un discorso e senza guardare il cane, nominava la parola “catenella” per riferirsi al guinzaglio, il cane correva immediatamente scodinzolando e guaendo proprio dove lo strumento era appeso, vicino a un termosifone, conscio che era arrivato il fatidico meraviglioso momento della passeggiata. Ricordo di averlo portato anch’io in giro per i posti a lui più graditi. Ebbene, un giorno qualcuno avviso’ mia zia che il cane era morto e lei scendendo lo trovò riverso in strada, lo raccolse, lo adagio’ sul marciapiede e restò lì inginocchiata a piangere sconsolata per la perdita di quel compagno inseparabile di molti anni di vita insieme. In quel momento passò di lì un signore e, appreso il fatto, le disse: “la comprendo bene signora, l’ho provato anch’io, è un dolore atroce!”. Noi pensiamo, guardando da fuori, che questi piccoli compagni di vita siano degli elementi intercambiabili facilmente sostituibili, beh non lo sono! Certo potremmo prendere un altro animale per riversare su di lui il nostro affetto, ma dovremmo comunque prima superare un periodo di lutto. Questi compagni pelosi lasciano un vuoto fisico, palpabile, e portano con sé esperienze di vita e momenti pieni di significato che abbiamo condiviso con loro. Loro non ci giudicano e ci amano incondizionatamente, cosa sempre più difficile tra esseri umani. È per questo che la loro perdita risulta così inconsolabile, tanto che molti in vista di questo tragico momento preferiscono non prendere proprio con sé un animale da compagnia, che sarebbe più corretto definire “compagno di vita”. Sappiamo che lui non potrà che accompagnarci solo per un tratto del nostro percorso terreno, ma separarcene costa comunque un grande sforzo e dolore fisico. Perciò la prossima volta che vedrete qualcuno piangere per la perdita del proprio animale domestico, non lo giudicate, sappiate che quel dolore è vero e tangibile e che voi fareste probabilmente lo stesso al suo posto, se siete capaci di provare vero amore per qualcuno. Ricordo una frase di Arthur Schopenhauer: “Chi non ha mai posseduto un canenon sa cosa significhi essere amato.”

  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?