Categoria: Economia

  • La politica economica in un mondo che cambia

    La politica economica in un mondo che cambia

    Nel prossimo futuro la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo

    di Mario Draghi

    15 febbraio 2024

    Vi proponiamo il discorso integrale che Mario Draghi ha tenuto al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

    Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.
    Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.
    Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.
    Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia.
    Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’UE, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti.
    Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.
    Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Cina non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’OMC avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla.
    Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.
    La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera.

    Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato. Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia.

    Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’UE erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del PIL nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del PIL mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

    L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria.

    Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950.

    Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione.

    Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

    Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.

    Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento.

    E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’UE danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

    Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui.

    Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

    È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito.

    In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di GNL costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo.

    Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia.Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino.

    La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.

    Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

    Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul PIL con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

    Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione.

    Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del PIL. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

    Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

    Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto.

    Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.

    Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

    Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

    Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

    In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

    In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’UE è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

    In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

    Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

  • Caduta dell’impero britannico. Brexit ultimo atto.

    Declino e caduta dell’Impero Britannico. Una lettura epocale della Brexit

    Declino e caduta dell’Impero Britannico. Una lettura epocale della Brexit

    di Gabriele Bonafede

    Quando il britannico Edward Gibbon scrisse la grande opera “Storia del declino e caduta dell’Impero Romano” , l’Impero Britannico era in forte ascesa. Si era nella seconda metà del XVIII secolo e, una volta vinte le guerre napoleoniche, Londra avrebbe imposto la “Pax Britannica” a tutto il mondo per un intero secolo.

    La impose nel quadro della propria convinzione sui benefici di libero mercato e libero commercio, ancorché sostenuto dalla forza militare laddove necessario.

    L’Impero Britannico era molto più grande ed esteso nel globo di quello romano. E si giovava di vie di commercio globali facilitate da una relativa pace che durò per tutto il XIX secolo, a meno di guerre locali.

    Gibbon non poteva immaginare quanto sarebbe durato l’Impero Britannico. Oggi noi sappiamo che non esiste più. E con la vittoria di Boris Johnson e la Brexit, sembra che si sia arrivati ai titoli di coda. Il biondo Boris assomiglia ai barbari nordici del IV secolo. A un Alarico intento a saccheggiare una altrettanto imbarbarita nazione.

    Le cause del declino e caduta dell’Impero Romano furono molteplici. Tra quelle indicate da Gibbon nella sua vasta opera, risaltano cause del tutto simili a quelle che troviamo per la fase finale dell’Impero Britannico. Ossia, la decadenza della classe politica e la negazione degli stessi valori e delle stesse virtù che avevano resa possibile l’ascesa nei secoli precedenti.

  • Cos’è il TTIP

    Cos’è il TTIP

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    Se avete letto i giornali – italiani e internazionali – negli ultimi mesi, è probabile che vi siate imbattuti più di una volta nella sigla TTIP. Con questa sigla si intende il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti: TTIP è un acronimo del nome in inglese, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”. È un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America: inizialmente veniva chiamato TAFTA, da area transatlantica di libero scambio, riprendendo l’acronimo di altri simili trattati già esistenti (come ilNAFTA). Il trattato è ancora in fase di discussione, non solo tra le parti: nella politica e tra i gruppi che ne stanno seguendo i negoziati, per alcuni «prevede che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi», per altri faciliterebbe i rapporti commerciali tra Europa e Stati Uniti portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione.

    Qualche numero
    Il trattato coinvolge i 50 stati degli Stati Uniti d’America e le 28 nazioni dell’Unione Europea, per un totale di circa 820 milioni di cittadini. La somma del PIL di Stati Uniti e Unione Europea corrisponde a circa il 45 per cento del PIL mondiale (i dati sono del Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2013). Si tratta dunque, non fosse altro che per il suo impatto globale potenziale, di un trattato di importanza storica.

    A che punto sono i negoziati
    Nel giugno del 2013 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, dopo più di dieci anni di preparazione, hanno avviato ufficialmente i negoziati sul TTIP; dovrebbero essere completati nel 2015. Il trattato dovrà poi essere votato dal Parlamento europeo, per quanto riguarda l’UE. A condurre i colloqui per conto dell’Unione Europea è la direzione generale commercio della Commissione europea – cioè uno dei “ministeri” in cui è suddivisa la Commissione – diretta finora dal belga Karel De Gucht e sostituito da Cecilia Mallström nella nuova commissione Juncker. Ci sono due negoziatori ufficiali tra le parti: per l’UE è Ignacio Garcia Bercero mentre Dan Mullaney è la sua controparte statunitense. I negoziati si sono svolti per ora in sette diversi incontri, l’ultimo a Washington dal 29 settembre al 3 ottobre.

    La questione della segretezza
    Va subito detto che si tratta di negoziati segreti – lo sono ancora, in parte – accessibili solo ai gruppi di tecnici che se ne occupano, al governo degli Stati Uniti e alla Commissione europea. La questione della segretezza è stata e continua a essere uno dei maggiori punti di opposizione al trattato, denunciato da molte e diverse organizzazioni sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Unione Europea.

    Lo scorso 9 ottobre l’UE ha deciso di diffondere ufficialmente un documento di 18 pagine che contiene il suo mandato a negoziare (documento che però circolava online già da qualche mese). Oltre alle direttive della UE ai negoziatori, sono comunque trapelate nel corso del tempo varie bozze, ottenute e pubblicate da alcuni giornali, e che riguardano alcuni singoli contenuti dell’accordo: il settimanale tedescoZeit ha messo online dei file che hanno a che fare con il settore dei servizi e dell’e-commerce, lo Huffington Post ha pubblicato dei file sull’energia, il Center for International Enrironmental Law, organizzazione statunitense, degli altri file che riguardano il settore chimico. Da tutti questi documenti messi insieme si possono ricavare una serie di informazioni importanti che danno, innanzitutto, la misura della complessità della questione.

    Di cosa stiamo parlando
    Nel documento diffuso dalla UE, che è comunque l’unico ufficiale, il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti». L’obiettivo dichiarato dell’accordo (piuttosto generico) è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali». L’accordo dovrebbe agire quindi in tre principali direzioni: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, uniformare e semplificare le normative tra le due parti abbattendo le differenze non legate ai dazi (le cosiddette Non-Tariff Barriers, o NTB), migliorare le normative stesse.

    Il documento individua quindi tre principali aree di intervento:
    1 – accesso al mercato
    2 – ostacoli non tariffari
    3 – questioni normative

    1 – Accesso al mercato
    L’accesso al mercato riguarda quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici.

    Si prevede l’eliminazione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo». Sono previste misure antidumping – cioè per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato di origine – e misure di salvaguardia «che consentano ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l’aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall’altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale».

    La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori»: si prevede anche di «assicurare un trattamento non meno favorevole per lo stabilimento sul loro territorio di società, consociate o filiali dell’altra parte di quello accordato alle proprie società, consociate o filiali». I servizi audiovisivi non sono inclusi.

    La liberalizzazione riguarda anche gli appalti pubblici, per «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco». Insomma aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa.

    C’è infine un capitolo sugli investimenti e la loro tutela: nel negoziato è previsto l’inserimento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo che consente agli investitori di citare in giudizio i governi presso corti arbitrali internazionali.

    2 – Questioni normative e ostacoli non tariffari
    L’obiettivo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione».

    Le barriere non tariffarie sono misure adottate da un mercato per limitare la circolazione di merci e che non consistono nell’applicazione di tariffe: quindi non si parla di dazi. Sono limiti di altro tipo: limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici: negli Stati Uniti è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato e infatti la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo.

    3 – Norme
    L’ultimo punto prevede un miglioramento della compatibilità normativa ponendo le basi per regole globali. È piuttosto generico, ma si dice che sono compresi i diritti di proprietà intellettuale. Si dice poi che vanno favoriti gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio», che vanno garantiti «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». Si dice che l’accordo deve trattare la questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». L’accordo deve includere «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e «deve contemplare disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali».

    Chi è a favore dell’accordo
    Diversi studi hanno concluso che l’accordo avrà benefici sia per gli Stati Uniti che per l’UE. Il Center for Economic Policy Research di Londra e l’Aspen Institute dicono per esempio che ci sarebbe un aumento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti (l’incremento sarebbe del 28 per cento, circa 187 miliardi di euro). I dazi tra Stati Uniti e UE sono in media piuttosto bassi, quasi la metà di quanto imposto verso gli altri paesi del mondo, anche se ci sono grandi differenze tra settori (la componentistica per automobili, per esempio, ha dazi all’8 per cento nell’UE). Sebbene in generale la loro media sia bassa, se i dazi vengono applicati su un grande volume possono diventare un ostacolo rilevante. Questo vale ancora di più visto che il processo produttivo è spezzato tra paesi diversi (componenti o fasi prodotti o realizzati in vari paesi): piccoli dazi applicati più volte possono avere dunque un impatto importante sul prezzo del bene finale.

    Gli studi favorevoli al trattato hanno inoltre stimato che il PIL mondiale aumenterebbe (tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro) e aumenterebbe anche quello dei singoli stati (si stimano 545 euro l’anno in più per ogni famiglia in Europa). Poiché ci sarebbe una maggiore concorrenza, si avrebbero anche benefici generali sull’innovazione e il miglioramento tecnologico.

    Si avrebbero infine dei benefici derivanti dalla semplificazione burocratica e dalle regolamentazioni: ridurrebbe sia i costi delle ispezioni che quelli delle attività economiche che operano nei due mercati facilitando alle imprese il compito di rispettare contemporaneamente le due normative. L’Unione Europea ha fatto questo esempiosulla sicurezza delle automobili:

    La regolamentazione in materia di sicurezza dei veicoli applicata negli Stati Uniti differisce da quella applicata nell’Unione europea, anche se il risultato finale in termini di livelli di sicurezza è in pratica equivalente. In effetti, già oggi è possibile guidare in Europa alcune automobili omologate negli Stati Uniti, e ciò grazie a uno speciale sistema di omologazione europeo. La Commissione si augura che grazie al TTIP le autorità di regolamentazione riconoscano formalmente la sostanziale coincidenza di importanti parti dei due sistemi di regolamentazione dal punto di vista della sicurezza.

    L’Unione europea e gli Stati Uniti impongono requisiti di sicurezza differenti eppure simili per quanto riguarda i fari, le serrature delle portiere, i freni, lo sterzo, i sedili, le cinture di sicurezza e gli alzacristalli elettrici. In molti casi si potrebbe riconoscere formalmente che tali requisiti offrono il medesimo livello di sicurezza.

    Chi critica l’accordo
    Vari soggetti si oppongono all’accordo: si va dall’organizzazione internazionale Attac a una rete di associazioni (compresa Slow Food) di vari paesi europei e statunitensi, fino a studiosi ed economisti vari. Come abbiamo detto, una delle principali critiche ai negoziati è la loro segretezza e mancanza di trasparenza; e anche il fatto che ad aver condotto il principale e più citato studio sui benefici dell’accordo sia il Center for Economic Policy Research di Londra, che questi gruppi non considerano credibile perché finanziato anche da grandi banche internazionali. Questi gruppi sostengono che le cifre sull’impatto dell’accordo sono piuttosto ambiziose, che sarebbero previste solo per il 2027 e che comunque sonotroppe le variabili non considerate per poter fare una stima affidabile.

    Ci sono poi critiche più sostanziali, supportate da diversi altri studi, che sono state riassunte nel numero di giugno Le Monde Diplomatique. Lori Wallach, direttrice di Public Citizen – associazione con sede a Washington – ha spiegato in dieci punti i possibili rischi del trattato per gli Stati Uniti: farmaci meno affidabili, aumento della dipendenza dal petrolio, perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali, e così via. La stessa operazione è stata fatta per l’UE da un rappresentante della CGT, la Confédération générale du travail, una confederazione sindacale francese. Il punto principale di entrambe le analisi è comunque che l’armonizzazione delle norme sarebbe fatta al ribasso, a vantaggio non dei consumatori ma delle grandi aziende. Nello specifico, queste sono le critiche più diffuse:

    – I paesi dell’UE hanno adottato le normative dell’Organizzazione dell’ONU che si occupa di lavoro (l’ILO), gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori.

    – L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi, in particolare di quelli sociali.

    – L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM (su questo punto, non ci sono però ancora notizie precise).

    – Il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese, e in generale per le imprese che non sono multinazionali e che con le multinazionali non potrebbero reggere la concorrenza.

    – Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo oclass action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli OGM, questa critica viene sollevata relativamente all’uso di pesticidi, all’obbligo di etichettatura del cibo, all’uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori.

    – I negoziati sono orientati alla privatizzazione dei servizi pubblici quindi secondo i critici si rischia la loro scomparsa progressiva. Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera concorrenza.

    – Le disposizioni a protezione della proprietà intellettuale e industriale attualmente oggetto di negoziati potrebbero minacciare la libertà di espressione su internet o privare gli autori della libertà di scelta in merito alla diffusione delle loro opere. Si ripresenterebbe insomma la questione dell’ACTA, il controverso accordo commerciale su contraffazione, pirateria, copyright, brevetti la cui ratifica è stata respinta il 4 luglio 2012 dal Parlamento Europeo.

    Infine, le multinazionali
    Una delle questioni più controverse riguarda la clausola ISDS, Investor-State Dispute Settlement. È moltocontestata anche da parte di alcuni governi, innanzitutto quello tedesco. Prevede la possibilità per gli investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione, da parte dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto internazionale in materia di investimenti. Ci sono già molti casi a riguardo: nel 2012 il gruppo Veolia ha fatto causa all’Egitto al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti della Banca Mondiale perché la nuova legge sul lavoro del governo contravveniva agli impegni presi in un accordo (firmato) per lo smaltimento dei rifiuti; nel 2010 e nel 2011 Philip Morris ha utilizzato questo meccanismo contro l’Uruguay e l’Australia e le loro campagne anti-fumo; nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha citato in giudizio il governo tedesco chiedendo 1,4 miliardi di euro contro la decisione di abbandonare l’energia nucleare.

    Le aziende, dice chi critica la clausola, potrebbero insomma opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse la loro azione e i loro futuri profitti. Scrive Lori Wallach: «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa?».

  • Riparare l’economia…impossibile.

    Riparare l’economia…impossibile.

    Dobbiamo smettere di considerare la nostra economia come un sistema difettoso da riparare, quando in realtà funziona in modo perfettamente fedele al suo disegno originario. È il momento di essere davvero progressisti — e ciò significa avviare cambiamenti sistemici.
    Prendiamo ad esempio la proposta di Bernie Sanders di mettere un freno al settore bancario ripristinando la funzione della Federal Reserve come “agenzia di regolamentazione”. Per quanto bene intenzionata, è una proposta che rivela l’incapacità della sinistra di cogliere le vere cause dei problemi finanziari di oggi.
    Il punto è che non stiamo assistendo a una perversione del capitalismo – il problema non è l’avidità delle banche che hanno corrotto un sistema finanziario altrimenti egalitario, ma il fatto che il capitalismo sta facendo esattamente ciò per cui è stato programmato fin dall’inizio. Per risolvere il problema, dovremmo andare all’essenza del codice operativo del sistema stesso e riscriverlo per metterlo al servizio delle persone, invece che al servizio del potere.
    Prima di tutto, il ruolo della Federal Reserve non è mai stato quello di un’agenzia di regolamentazione. Non è come l’Agenzia per la protezione dell’ambiente che, per quanto si dimostri tristemente inadeguata al suo scopo, ha effettivamente il compito di regolamentare le attività delle imprese per limitare i danni ambientali. La Fed è piuttosto una società privata – una banca per le banche, di proprietà delle banche — creata per garantire il valore della valuta. È stata ideata per essere al servizio del dollaro e mantenerne il valore contrastando l’inflazione. Quando la Fed si sente magnanima, può anche far circolare soldi in più, nella speranza di vederli investiti in imprese che creano lavoro.
    Le azioni della Fed sono tuttavia limitate dal modo in cui il nostro denaro, la valuta centrale, è stato progettato per funzionare. È un sistema nato prima dell’era industriale, quando l’aristocrazia europea in declino cercava di contenere l’ascesa della classe media mercantile. I piccoli mercanti si stavano arricchendo per la prima volta dagli inizi del feudalesimo, grazie alla diffusione di un mercato peer-to-peer con un nuovo ingegnoso sistema monetario, basato su ricevute e valute locali di scambio.
    All’inizio della giornata di mercato, un panettiere poteva acquistare le provviste necessarie per la settimana mettendo in circolazione ricevute valide per l’acquisto del pane, che a loro volta potevano anche essere scambiate per acquistare altre merci. Altre valute erano basate su depositi di cereali o fieno. Erano state create non a scopo di risparmio o accumulo, ma per promuovere gli scambi commerciali.
    Una dopo l’altra, le monarchie europee misero fuorilegge queste valute locali adottando al loro posto valute centrali, che potevano essere messe in circolazione solo in forma di prestito a interesse. Se un mercante voleva utilizzare il denaro, doveva prenderlo in prestito a interesse dalla banca centrale. Questo nuovo sistema aiutò i ricchi a mantenere l’esclusività sulla ricchezza. Potevano diventare più ricchi, semplicemente essendo ricchi.
    Queste sono le origini del nostro sistema monetario: è stato progettato non per promuovere la creazione e lo scambio di valore tra la popolazione, ma per estrarre valore da chiunque intendesse avviare scambi commerciali. Non è stato concepito per favorire la circolazione, ma per farle da freno.
    Un altro problema di una valuta centrale è che richiede una crescita sempre più rapida dell’economia. Se per ogni 100.000 dollari messi in circolazione alla fine ne dovranno essere rimborsati 200.000, da dove vengono gli altri 100.000? Qualcuno deve prenderli in prestito o guadagnarli.
    Ora, questo schema funziona bene finché l’economia continua a crescere, come avvenne in passato per le grandi potenze coloniali alla conquista del mondo o con l’espansione economica degli Stati Uniti nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Ma oggi la nostra capacità di crescita ha raggiunto i suoi limiti. Non ci sono più regioni da conquistare o nazioni in via di sviluppo da sfruttare. Anche senza pensare a progetti futuristici di fuga nello spazio, è ovvio che il nostro pianeta è stato spinto oltre la sua capacità portante in termini di estrazione e crescita ulteriore.
    Ci stiamo muovendo verso una fase di stallo economico — e per quanto un’economia stazionaria a crescita lenta o persino a crescita zero sia un bene per gli esseri umani e per il pianeta, è del tutto incompatibile con il sistema monetario su cui è ancora basata.
    A peggiorare le cose, nell’era digitale abbiamo dato spinte di accelerazione sia ai nostri mercati finanziari con il trading ad alta frequenza sia al nostro contesto imprenditoriale, con startup gonfiate e spietati monopoli di piattaforme come Amazon e Uber. Queste società sono valutate non tanto per la capacità di realizzare profitti quanto per quella di essere acquisite o quotate in borsa – ripagando così le istituzioni che le hanno finanziate fornendo loro il capitale iniziale.
    Affidare alla Fed il compito di risolvere i problemi del capitalismo è come chiedere a una compagnia petrolifera di aiutarci a staccarci dalla dipendenza da combustibili fossili: è vendere lo strumento sbagliato per il lavoro da fare.
    Come sostengo nel mio ultimo libro, Throwing Rocks at the Google Bus, stiamo facendo girare l’economia digitale del ventunesimo secolo su un sistema operativo che risale all’epoca delle macchine da stampa del tredicesimo secolo. L’opportunità dell’era digitale e la sensibilità che sta diffondendo è di riprogrammare il denaro in modo da favorire lo scambio rispetto all’accumulo – il flusso rispetto alla crescita.
    Ciò significa sperimentare nuove forme più fluide di scambio – da valute locali, che aumentano la circolazione di dieci volte rispetto a quelle emesse dalle banche, a un sistema come quello di Bitcoin, che verifica le transazioni senza bisogno di una costosa autorità centrale. Stiamo già vedendo esempi efficaci di adozione di sistemi monetari alternativi, non solo nelle città progressiste costiere degli Stati Uniti, ma anche negli ex centri industriali degli stati centrali, un tempo sede delle grandi acciaierie. Le “banche del tempo” online danno nuova energia allo scambio di beni e servizi in molte comunità, dalla Grecia paralizzata dall’austerity fino alla città di Lansing nel Michigan devastata dalla recessione. Nuove cooperative che attirano investitori – da produttori di finestre a Chicago a sviluppatori di software in Nuova Zelanda – scelgono di ottimizzare in modo consapevole il flusso di valore attraverso una rete, piuttosto che l’estrazione di valore da quella rete.
    Altri esempi sono piattaforme cooperative come Lazooz, un servizio di car-sharing di proprietà degli autisti, che utilizza il sistema Blockchain per stabilire la proprietà in base ai chilometri percorsi. Anche se Lazooz segue la stessa direzione di Uber puntando alle vetture autoguidate, almeno i suoi lavoratori condivideranno i guadagni futuri del lavoro da loro creato.
    Ciò che distingue questi esperimenti dagli approcci tradizionali della sinistra è che non stanno tentando di compensare le disuguaglianze del nostro sistema economico a posteriori. Non ridistribuiscono il bottino del capitalismo d’impresa, come farebbero politiche governative attuate per imposizione dall’alto. Piuttosto, il loro obiettivo è ampliare la distribuzione dei mezzi di produzione e degli strumenti per lo scambio. Dalle Benefit Corporation agli esempi locali di crowdfunding, i migliori tentativi di forgiare strumenti finanziari più equi sono caratterizzati da una volontà di riprogrammare l’attività d’impresa, il commercio, la valuta e il mercato dall’interno verso l’esterno.
    Ecco perché, soprattutto in un anno di grandi campagne elettorali come questo, dobbiamo smettere di chiedere ai politici di limitarsi a girare questa o quella manopola del nostro attuale sistema economico o monetario. Sostituire i membri della Fed non cambierà la natura di base della banca centrale, così come un sistema fiscale incrementale e più progressista non potrà cambiare la natura estrattiva della moneta centrale.
    Invece di pensare a proposte per mettere freni al settore bancario, bisogna pensare a come spezzarne il monopolio sulla creazione di valore e di scambio, favorendo valute competitive, strutture imprenditoriali alternative, aziende gestite dai lavoratori e un rinnovato rispetto per il territorio e la forza lavoro, invece del puro capitale. Se non vogliamo accettare lo status quo, proviamo almeno a battere il sistema al suo stesso gioco. Possiamo creare noi stessi la nostra economia e il nostro denaro.
    Dopo tutto, siamo o non siamo in un libero mercato?

    di Douglas Rushkoff

  • 11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    Stiamo vivendo il periodo più stupefacente del progresso umano nella storia. E nessuno ci sta dicendo nulla su di esso.
    Mentre il 2015 volge al termine, sarebbe difficile trovare qualcuno che sostenga che è stato un buon anno per la razza umana. Le cattive notizie sono state implacabili: la guerra in Siria, la crisi dei rifugiati in Turchia e in Europa, i terremoti in Nepal, attentati a Parigi, assassinii di massa negli Stati Uniti, le inondazioni in India. Con i mezzi di comunicazione pieni di omicidi cruenti e social media pieni di piagnistei su quanto l’uomo sia egoista / materialista / miope versi altri esseri umani, dovrei essere perdonato se penso che il mondo stia andando all’inferno.
    Però sbaglierei.
    Franklin Roosevelt disse una volta, “la prova del nostro progresso non è se diamo di più a chi ha già molto; ma se mettiamo a disposizione abbastanza per chi ha troppo poco “. E se applichiamo questi criteri per il mondo nel suo insieme, il 2015 è stato un anno davvero molto buono.
    Ecco perché.

    1) Siamo molto più vicini a garatire l’istruzione universale globale
    Nel mese di aprile di quest’anno l’UNESCO ha pubblicato un rapporto sullo stato dell’educazione globale, mostrando che negli ultimi 15 anni il numero di bambini in tutto il mondo che non hanno accesso all’istruzione è dimezzato, da 100 a 57 milioni.
    Questo grazie a una maggiore sensibilità sui benefici dell’educazione per l’individuo e la società, maggiori investimenti da parte dei governi e aumento degli anni minimi obbligatori di istruzione. E ‘un risultato incredibile – vuol dire che siamo in un mondo in cui nove bambini su dieci stanno imparando a leggere e scrivere. La Banca mondiale ora dice che siamo ad una sola generazione di distanza da un mondo in cui ogni singola persona è alfabetizzata.

    2) L’estrema povertà è scesa sotto il 10% – il tasso più basso di tutti i tempi.
    Il numero di persone in condizioni di estrema povertà (definite come coloro che vivono con meno di 1,90 $ al giorno) è sceso a 702 milioni nel 2015, ovvero il 9,6% della popolazione mondiale. E’diminuito di 902 milioni di persone, rispetto al 12,8% della popolazione mondiale nel 2012. E ‘il più basso numero di persone che vivono in estrema povertà negli ultimi 200 anni. Come dice Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale: “Questo è il miglior risultato dall’inizio della storia ad oggi – queste proiezioni ci dimostrano che siamo la prima generazione nella storia umana che può mettere fine alla povertà estrema. ”

    3) Sempre più persone sono connesse a Internet come mai prima.
    A livello globale, ci sono ora 3,2 miliardi di persone online, e 2 miliardi di loro provengono da paesi in via di sviluppo. Nel 2000 questi numeri sono stati 300 milioni e 100 milioni rispettivamente. Significa che il numero di persone con accesso a internet è aumentato di otto volte in soli 15 anni. Certo, c’è ancora una lunga strada da percorrere. Nei paesi meno sviluppati, solo il 9,5% della popolazione ha accesso a internet, rispetto al 35,3% per i paesi in via di sviluppo e al 82,2% per i paesi sviluppati. Ma questi numeri sono in rapida evoluzione. La capacità di Internet in Africa, ad esempio, è cresciuto del 51% negli ultimi cinque anni. E i telefoni cellulari stanno conducendo la carica. A livello globale, gli abbonamenti sono più di 7 miliardi, e il 95% della popolazione dispone di un segnale di rete mobile.
    Il 2015 ci ha mostrato che il prossimo miliardo di persone utilizzeranno il web dai telefoni cellulari e a basso costo. Non ci sono stati corsi, nessun tutorial, in grado di scoraggire le persone. L’internet mobile è così intuitivo, e così ovviamente utile, che è diventato la tecnologia più veloce nella storia umana. Per ogni 10 persone che hanno accesso a internet, circa una persona viene sollevato dalla povertà e circa un nuovo posto di lavoro è stato creato. E ricordate … grazie ai nostri successi in materia di istruzione, tutti questi nuovi utenti possono leggere e scrivere. Essi rappresentano decine di migliaia di miliardi di dollari di nuovo potere d’acquisto economico, e un ulteriore miliardo di persone hanno la possibilità di accedere alla rete Internet a portata di mano.

    4) Milioni di persone hanno avuto accesso ai finanziamenti per la prima volta
    Nel mese di aprile di quest’anno una piccola organizzazione la Findex, ha rilasciato il più grande studio sull’inclusione finanziaria nel mondo.
    Sulla base di interviste a 150.000 adulti in più di 140 paesi, ha dimostrato che tra il 2011 e il 2014 ulteriori 700 milioni di persone sono diventate dei titolari dei conti presso banche, altre istituzioni finanziarie, o fornitori di servizi finanziari basati sulla telefonia mobile, e il numero di individui ‘unbanked’ è sceso del 20 %.
    Questa tendenza è stata trainata in particolare da nuovi servizi finanziari basati sul “mobile”. Paesi come la Costa d’Avorio, Somalia, Tanzania, Uganda e Zimbabwe hanno ora più adulti che utilizzano un conto disponibile sul cellulare piuttosto che un conto presso un istituto finanziario.
    Questo è importante, perché l’accesso ai servizi finanziari è ampiamente percepita come un motore di sviluppo, in particolare nei paesi a basso reddito, dove il 54% della popolazione non ha accesso alle banche tradizionali. Ecco perché l’esplosione del mobile è stata così importante. Per i 700 milioni di persone che hanno appena guadagnato l’accesso ai pagamenti digitali, attraverso un telefono cellulare o un terminale POS, si è creata l’opportunità di fornire opzioni di pagamento più comode e convenienti. Significa che saranno in grado di avviare imprese, trasferire denaro, investire in istruzione e affrontare meglio gli shock finanziari.

    5) Il numero dei decessi per AIDS è diminuito per il 15 ° anno di fila
    Negli anni 1980 e 1990, l’AIDS è stato raramente fuori dai titoli della stampa. Eravamo abituati a vedere rapporti quotidiani sulla devastazione che causava, e molte persone si aspettavamo che i pedaggi alla morte sarebbero aumentati. Per i 37 milioni di persone che in tutto il mondo vivono con l’AIDS oggi, però, la malattia è sia curabile che prevenibile. Grazie ad uno sforzo globale concertato per migliorare l’accesso ai farmaci anti-retro-virali abbiamo svoltato nella lotta contro questa terribile malattia.
    UNAIDS afferma che il 41% di tutte le persone che sono HIV positivi, sono ora in trattamento, quasi il doppio della percentuale del 2010. Si rilevano 2 milioni di nuove infezioni da HIV in tutto il mondo nel 2014-15, il numero più basso dal 2000. Anche il numero dei morti sta scendendo, da un massimo di 2 milioni nei primi anni 2000 a 1,2 milioni di quest’anno. L’obiettivo di UNAIDS è quello di porre fine all’epidemia entro il 2030. Ci vorranno più soldi, un maggiore sostegno politico e più lavoro. Ma quello che abbiamo visto quest’anno è che la possibilità di una generazione priva di HIV è ormai in vista.

    6) Abbiamo dimezzato il tasso di mortalità della malaria
    La malaria è uno dei più grandi assassini dell’umanità, responsabile di più morti di quelli causati da tutti gli incidenti stradali in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, però, abbiamo preso finalmente sul serio la lotta contro la malattia. Questo è grazie a tre interventi chiave per il controllo della malaria chia: zanzariere trattate con insetticida, trattamento degli ambienti interni con insetticidi e la terapia combinata a base di artemisinina. Dal 2000, per esempio, circa 1 miliardo di zanzariere trattate con insetticida sono state distribuite in Africa sub-sahariana.
    I tassi di mortalità sono diminuiti del 85% nel sud-est asiatico, del 72% nelle Americhe, del 65% nel Pacifico, e del 64% in Medio Oriente. Mentre l’Africa continua a pagare il prezzo più alto alla malaria, nel corso degli ultimi 15 anni, i tassi di mortalità sono diminuiti del 66% tra tutti i gruppi di età, e del 71% tra i bambini sotto i cinque anni, una popolazione particolarmente sensibili alla malattia. A livello globale, il numero dei decessi per malaria è sceso da un valore stimato 839.000 nel 2000 a 438.000 nel 2015. Ciò significa che abbiamo salvato circa 6,2 milioni di persone dalla malaria negli ultimi 15 anni  – un risultato straordinario.

    7) La poliomielite sta per essere debellata per sempre.
    Un quarto di secolo fa, un certo numero di organizzazioni sanitarie internazionali si sono impegnate nella missione di debellare la polio in tutto il mondo. Con 350.000 bambini colpiti e oltre 1.000 paralizzati ogni giorno, sembrava un obiettivo impossibile. Da allora, sono stati investiti più di 9.000.000.000 di dollari, e più di 2,5 miliardi di bambini in tutto il mondo hanno ricevuto le vaccinazioni. Di conseguenza, il numero di casi di polio è stato ridotto del 99% e nel dicembre di quest’anno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato che la polio non è più endemica in Nigeria, aprendo la strada per farla diventare l’ultima nazione africana da dichiarare ufficialmente libera dalla polio entro il 2017. Questo lascia solo due paesi con casi di polio endemici – Pakistan e Afghanistan. Se, come i professionisti della salute prevedono, si riuscirà a eliminare i 334 casi che ancora rimangono, una malattia che una volta ha ucciso e mutilato i bambini a decine di migliaia si unirà il vaiolo e il Verme della Guinea come piaghe consegnata alla storia.

    8) Meno fame quest’anno rispetto al passato.
    Dei 7,3 miliardi di persone sul pianeta, si stima che 805 milioni – o uno su nove – soffriva di fame cronica tra il 2012 e il 2014. Tuttavia, tale numero è sceso di circa 200 milioni da un quarto di secolo fa. Questo è abbastanza impressionante, soprattutto se si considera che la popolazione mondiale è cresciuta di 1,9 miliardi di persone durante lo stesso periodo. E il tasso di fame è anche in declino. Nel 1990, uno degli obiettivi che ci siamo posti come specie è stato quello di dimezzare il tasso di fame. Oggi, 72 dei 129 paesi in via di sviluppo si sono accordati su questo obiettivo. Globalmente solo il 12,9% della popolazione in paesi in via di sviluppo soffrono oggi la fame, rispetto al 23,3% di un quarto di secolo fa.

    9) Più persone hanno acqua potabile.
    Uno degli obiettivi meno considerato tra le storie di successo del 2015 è invece uno di quelli più importanti. Quest’anno, il numero di persone senza accesso all’acqua potabile è sceso sotto i 700 milioni per la prima volta nella storia. Ciò significa che più di 6,6 miliardi di persone, ovvero il 91% della popolazione mondiale utilizza ora una migliore fonte di acqua potabile, dal 76% nel 1990. Nel 2015 solo tre paesi – Angola, Guinea Equatoriale e Papua Nuova Guinea – hanno una fornitura di acqua pulita inferiore al 50%, rispetto ai 23 paesi nel 1990. Solo nell’Africa sub-sahariana, 427 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, una media di 47.000 persone al giorno, tutti i giorni, negli ultimi 25 anni.

    10) La mortalità infantile è in diminuzione per il 43° anno di fila.
    Il tasso di mortalità, per i bambini sotto i cinque anni, è diminuito in quasi ogni paese della terra. Questo grazie ai progressi nella lotta contro le malattie come la malaria e la tubercolosi, agli integratori di vitamina A, ai nuovi farmaci contro l’HIV / AIDS e ad un migliore trattamento contro la diarrea e la polmonite. Ciò significa che nel 2015, per la prima volta in assoluto, il tasso di mortalità infantile globale (definito come la mortalità infantile sotto i 5 anni) è sceso al di sotto della soglia dei 6 milioni. Negli ultimi 25 anni, circa un terzo dei paesi del mondo – 62 in tutto – ha ridotto la mortalità sotto i cinque anni di due terzi, mentre altri 74 di almeno la metà. E il progresso è venuto da alcuni dei paesi più colpiti al mondo; 10 dei 12 paesi a più basso reddito che hanno ridotto i tassi di mortalità sotto i cinque anni, di almeno due terzi, sono in Africa.
    Ciò significa che si sono salvati circa 19.000 in più al giorno, nel 2015, rispetto al 1990, anno di riferimento per misurare i progressi. Solo dal 2000, abbiamo salvato la vita di 48 milioni di bambini. Questo numero è superiore a quello dei morti causati dalle guerre e dalle violenze durante lo stesso periodo. Significa che meno genitori, hanno dovuto seppellire i loro figli quest’anno che in qualsiasi altro periodo della storia umana. E’una delle notizie più sorprendenti del nostro tempo, e tuttavia il suo peso sui media è di 100 volte inferiore rispetto alle storie sul terrorismo.

    11) Abbiamo raggiunto un punto di svolta nella lotta contro il cambiamento climatico.
    Tre grandi cose sono accadute per il cambiamento della politica sul clima nel 2015. La prima è che il 2015 sembra destinato ad essere l’anno più caldo mai registrato. Questo significa che le temperature sono salito di 1 ° C a partire dalla rivoluzione industriale. Il periodo di cinque anni tra il 2011 e il 2015 è anche il più caldo mai registrato; le giustificazioni sul cambiamento climatico addotte dai negazionisti stanno diventando sempre più ridicole. Abbiamo svolato; chi nega l’influenza delle emissioni sul clima non viene più preso sul serio. Il mondo è andato avanti, e i contrari sono diventati reliquie irrilevanti.
    La seconda cosa è che, grazie al forte calo del consumo di carbone in Cina e un ad un continuo aumento delle energie rinnovabili in tutto il mondo, il 2015 sembra destinato ad essere il primo anno in assoluto durante il quale le emissioni di CO2 sono diminuite mentre l’economia mondiale in generale è cresciuta. Se la transizione energetica sia permanente, non è ancora chiaro, ma i segnali sono incoraggianti. Nei paesi sviluppati i segni sono evidenti. Hanno raggiunto un picco nel consumo complessivo di combustibili fossili e ora sta iniziando la transizione verso forme più pulite di energia.

    Il terzo, e più importante evento è stata la firma dell’accordo di Parigi. Il punto centrale è il cosiddetto ‘obiettivo a lungo termine’ che impegna quasi 200 paesi a mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 ° C, rispetto ai livelli pre-industriali, e di “proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a non più di 1,5 ° C” . L’obiettivo a lungo termine afferma inoltre che nella seconda metà di questo secolo, il mondo dovrebbe arrivare a un punto in cui le emissioni nette di gas serra dovrebbero essere pari a zero.
    Certo, non è abbastanza. C’è una lunga strada da percorrere prima che gli impegni corrispondano a tale obiettivo. Ma è più di quanto ci si potesse aspettare, e un trionfo per la diplomazia. Il più grande raduno di leader mondiali mai avvenuto, il problema più grande che l’umanità abbia mai affrontato, si è concluso con la stesura di un documento giuridicamente vincolante accettato da tutti i paesi. Jonathan Chait riassume perfettamente:
    Le forze tecnologiche e politiche sono finalmente in atto per realizzare il primo patto globale atto a limitare le emissioni di gas serra. Il mondo sta improvvisamente rispondendo all’emergenza clima con – per gli standard del suo comportamento precedente – velocità sorprendente. La partita non è finita. E i bravi ragazzi stanno iniziando a vincere.
    Il mondo non è un posto perfetto. Molte cose sono andate male per l’umanità di quest’anno. Abbiamo ancora grossi problemi, in particolare intorno al degrado ambientale, le migrazioni internazionali, l’estremismo politico e la disuguaglianza economica. Queste sono le grandi sfide del nostro tempo. Ed è anche vero che l’ondata di progresso non ha raggiunto tutti. Troppe persone vivono ancora in condizioni di povertà estrema, 6 milioni di bambini muoiono ancora ogni anno di malattie curabili e centinaia di milioni di persone non possono esercitare le libertà fondamentali. Ma, come uno dei miei preferiti di statistica dice Hans Rosling, “Devi essere in grado di contenere due idee in testa in una sola volta: il mondo sta migliorando e non è abbastanza buono!”
    E ‘facile essere cinici dicendo che nulla sta migliorando nel nostro mondo. L’evidenza empirica contraddice questo punto di vista; guardando a ciò che abbiamo già raggiunto come specie, dobbiamo quandare al futuro con fiducia. Stiamo costantemente sottovalutando le capacità dell’umanità di lavorare in modo cooperativo, affrontare nuove sfide e ampliare la prosperità globale e le libertà fondamentali. Ora abbiamo una finestra di opportunità per creare la più grande era di progresso nella storia umana. Non sarà facile, così come non lo è stato in passato, e ci vorrà coraggio, sacrificio e una forte leadership. Ma i potenziali sviluppi sono impressionanti. E riusciremo a farcela, possiamo sperare in un periodo d’oro per il genere umano e per la terra su cui viviamo.

    Tradotto ed adattato da
    https://medium.com/future-crunch/11-reasons-why-2015-was-a-great-year-for-humanity-70db584db748#.fp21siye4