Categoria: Politica

  • La politica economica in un mondo che cambia

    La politica economica in un mondo che cambia

    Nel prossimo futuro la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo

    di Mario Draghi

    15 febbraio 2024

    Vi proponiamo il discorso integrale che Mario Draghi ha tenuto al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

    Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.
    Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.
    Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.
    Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia.
    Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’UE, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti.
    Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi paese o gruppo di paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.
    Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Cina non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’OMC avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla.
    Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.
    La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera.

    Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato. Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia.

    Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’UE erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del PIL nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del PIL mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

    L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria.

    Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950.

    Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione.

    Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno. La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

    Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.

    Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento.

    E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito. L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’UE danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio.

    Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui.

    Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

    È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito.

    In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di GNL costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo.

    Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia.Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati. Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino.

    La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.

    Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

    Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul PIL con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere.

    Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione.

    Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del PIL. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

    Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica.

    Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto.

    Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati.

    Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali. In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali.

    Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

    Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi.

    In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani.

    In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’UE è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine.In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione. Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva.

    In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde. E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate.

    Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

  • Noam Chomsky manipolazione della democrazia.

    Noam Chomsky manipolazione della democrazia.

    Dedicate 5 minuti e non ve ne pentirete.

    Non foss’altro per ampliare le proprie conoscenze.

    • 1-La strategia della distrazione

    L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti.

    La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza.

    Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

    • 2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

    Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

    • 3- La strategia della gradualità.

    Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.

    • 4- La strategia del differire.

    Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

    • 5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

    La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno” (vedere “Armi silenziosi per guerre tranquille”).

    • 6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

    Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti.

    • 7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

    Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.

    “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.

    • 8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

    Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti …

    • 9- Rafforzare l’auto-colpevolezza.

    Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!

    • 10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono.

    Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

    Noam Chomsky, uno dei piu’ importanti intellettuali oggi in Vita, ha elaborato la lista delle 10 strategie della manipolazione attraverso i mass media.

    https://democraziamanipolazionetrasparenza.quora.com/https-viaggiareconlentezza-quora-com-Noam-Chomsky-uno-dei-piu-importanti-intellettuali-oggi-in-Vita-ha-elaborato-la-li?ch=18&oid=111193508&share=0f6a055d&srid=vNXkr&target_type=post

  • 8 consigli per una campagna elettorale efficace tratti da “I segreti dell’urna”

    8 consigli per una campagna elettorale efficace tratti da “I segreti dell’urna”

    La campagna elettorale può essere vista come una vera e propria campagna militare. Nulla deve essere affidato al caso: analisi, strategia, comandanti, squadra, spirito. Senza questi, le conquiste di Alessandro Magno, Giulio Cesare o Napoleone Bonaparte non sarebbero esistite. 

    Ecco 8 consigli su come svolgere una campagna elettorale al meglio, tratti dal libro “I segreti dell’urna” di Giovanni Diamanti.

    1. Conosci te stesso, il tuo avversario e il contesto

    Bisogna conoscere alla perfezione l’attacco e la difesa degli avversari per poterli colpire. Ricorda però che prima devi conoscere te stesso: le tue qualità, i tuoi difetti, i punti di forza da valorizzare e i punti deboli da arginare sui quali faranno leva gli avversari. 

    Una volta che hai acquisito coscienza di chi sei e di chi è il tuo avversario, analizza attentamente il campo da gioco, ossia il contesto

    Nel 2008 Obama spiazzò gli avversari investendo fortemente negli stati repubblicani. Questa mossa nacque da un’attenta analisi che prese in considerazione l’evoluzione demografica dei territori in questione. Emerse che nello Stato chiave della Virginia la componente afroamericana era sempre più numerosa. Per chi avrebbero votato se non per un giovane candidato che probabilmente sarebbe diventato il primo afroamericano Presidente degli Stati Uniti d’America?

    2. Abbassa le aspettative per sorprendere

    Aspettative, sorprese, delusioni: come utilizzarle? 

    Nel 2004 lo staff di Bush dipinse l’avversario John Kerry come un oratore imbattibile, innalzando così le aspettative intorno alla sua figura. Così facendo, pose le basi per provocare, in caso di sconfitta di Kerry nel dibattito tra candidati, un forte sgomento tra i suoi sostenitori. Fu ciò che avvenne. 

    Non sempre però si ottengono i risultati sperati: talvolta abbassare troppo le aspettative sul proprio conto genera un senso di impotenza e sconfitta preannunciata, regalando così la vittoria all’avversario. Fondamentale è il ruolo dei media: gran parte della popolazione non segue i dibattiti veri e propri ma si fa un’idea sulla base della narrazione mediatica. Questo spiega perché alcune vittorie sono considerate “mutilate” e alcune sconfitte “gloriose”. Per esempio, se sei un candidato di destra e perdi di poco in un “terra rossa” (o, viceversa, se sei di sinistra e vinci in un territorio storicamente di destra) punta l’attenzione sull’ottimo risultato che avete ottenuto tu e la tua lista: la sconfitta verrà percepita come “gloriosa” e porrà le basi per una futura candidatura. Vincere non è sempre l’obiettivo: a volte bisogna puntare sul lungo termine, sulle sfide future.

    3. Vinci senza combattere

    In alcune circostanze si può portare a casa il risultato senza sporcarsi le mani. Come? 

    Parti in anticipo, scendi in campo prima degli altri

    Se sei un personaggio noto nel tuo territorio, i possibili competitor saranno scoraggiati nel vedere che dovranno competere con te, quindi non si candideranno o si ritireranno in corsa. 

    In ogni caso, uno strumento che può venirti incontro è il sondaggio: dimostrando che sei in vantaggio rispetto agli altri, instillerà timori ed incertezze tra gli avversari.

    Appena nei hai la possibilità, organizza eventi e coinvolgi più persone possibili: i bagni di folla spaventeranno gli altri candidati.

    4. Scegli il campo di battaglia

    Sun Tzu, generale e filosofo cinese, diceva che il generale esperto non va, ma fa venire l’avversario. Così si sceglie il terreno dello scontro. 

    Una tecnica formidabile è il framing: l’interpretazione che si impone ai media quando si parla di un determinato argomento. Ne ha parlato George Lakoff nell’opera “Non pensare all’elefante” (consigliato da noi in questo articolo, insieme ad altri libri e alcuni film sulla comunicazione politica). 

    Un esempio è il tema “immigrazione”: in base allo schieramento politico e ideologico, ogni personaggio politico cerca di imporre la propria visione che può essere “pericolo per la sicurezza”, “opportunità per nuova forza lavoro” oppure “questione di umanità e moralità”. 

    Anche qui conta la tempistica: se sei il primo a parlare di un argomento, impostando preventivamente la tua visione, avrai più successo nel dibattito. Meglio se sei tu a sollevare una questione, così da avere il dominio sul campo da gioco. Sempre riguardo al tema immigrazione, la Lega è stato il primo partito a parlarne con un messaggio forte e chiaro, precedendo gli altri partiti, i quali hanno dovuto spesso rincorrerla su questo tema. Se assumi determinate posizioni e noti che quelle del tuo avversario sono più premiate dall’opinione pubblica, non cambiare idea per copiare le sue, rimani coerente e alla lunga potrai essere premiato. La gente preferisce l’originale all’imitazione

    5. Valorizza i tuoi punti di forza

    Una strategia di marketing efficace prevede di incentrare le campagne pubblicitarie su un’unica ragione di vendita da comunicare in maniera quasi compulsiva.

    Il contenuto del messaggio, come diceva James Carville (consulente di Bill Clinton), deve avere tre requisiti: semplicitàrilevanza e reiterazione. Avrai sicuramente notato come gli esponenti politici rilancino le stesse proposte e gli stessi slogan sempre e ovunque. Pochi messaggi chiari e di impatto, questa è la regola. 

    Il motivo è che le persone sono spesso disinteressate ed il livello dell’attenzione è sempre più basso. I messaggi che lanci devono dunque suscitare interesse ed essere compresi nel minor tempo possibile. Anche in questo caso la tempistica è fondamentale: definisciti prima che ti definiscano gli altri! Prendi subito posizione e ritaglia il tuo profilo politico con caratteristiche positive, puntando sui pregi. Se lo fai tu, puoi giocare in vantaggio. Se lo fanno gli altri, punteranno sui tuoi difetti.

    6. Non trascurare i punti di debolezza

    Fare un bilancio dei tuoi punti di forza e di debolezza è una pratica indispensabile. Mettiti nei panni dell’avversario: ti permette di immaginare su cosa andranno a parare i suoi attacchi verso di te. Prevedere questo permette di preparare una strategia di difesa efficace

    Talvolta si riesce persino a ribaltare gli attacchi, trasformando i punti di debolezza in punti di forza. Per esempio, se un tuo avversario ti etichetta come “mister nessuno” puoi giocare la carta del “cittadino comune” che si candida per dar voce ai normali cittadini e risolverne i problemi, così da far trasparire il tuo lato umano agli occhi degli elettori.

    7. Ordine e disciplina

    Il comitato elettorale è un organo fondamentale a tutti i livelli, sia che tu ambisca a diventare sindaco, sia che tu voglia essere il futuro Presidente del Consiglio. L’anarchia è il male assoluto: organizza i volontari in base alle competenze ed ingaggia professionistidel settore come il manager della campagna, l’esperto social, il sondaggista e così via.

    Il tutto deve essere fortemente gerarchizzato e centralizzato con una figura di fiducia del candidato a cui spetta l’ultima parola. Seguendo questo schema, potrai lavorare serenamente ed efficientemente. In caso contrario, annegherai nel caos delle faide tra collaboratori, come è avvenuto nello staff di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016 negli USA. Tieni bene a mente: un pessimo clima tra i tuoi più stretti collaboratori influenza negativamente l’intera campagna

    8. Mai sottovalutare l’avversario

    Un leone utilizza la sua intera forza anche per uccidere un coniglio. Ricorda di utilizzare tutto l’arsenale disponibile per giungere alla vittoria, anche se parti come favorito. La campagna elettorale di Pier Luigi Bersani nel 2013, nonostante i sondaggi lo dessero in largo vantaggio, portò ad una “non vittoria”.

    Ciò avvenne perché il Partito Democratico non investì adeguatamente nella campagna, senza chiamare all’azione in modo efficace attivisti, volontari ed elettori. I sondaggi davano Bersani come vincitore, motivo per cui il partito e gli elettori si erano adagiati sugli allori, credendo di avere già la vittoria in pugno. Questo portò la coalizione di centro-destra ad un passo dalla vittoria e permise al Movimento 5 Stelle di ottenere un risultato altissimo rispetto alle aspettative.

    ***

    Con questi accorgimenti avrai una marcia in più rispetto ai molti che improvvisano. Ricorda però che la progettazione della campagna e l’arruolamento di figure competenti ti permettono di puntare al massimo risultato. Affidati ad agenzie di comunicazione politica per strutturare al meglio la tua campagna. Se non ne conosci, noi possiamo aiutarti.

    https://respolitics.it/

  • FASCISMO MAINSTREAM

    FASCISMO MAINSTREAM

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro “Fascismo Mainstream”. E considerando le risposte reazionarie dei governi globali a crisi sociale e catastrofe climatica, la domanda appare lecita.

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro, Fascismo Mainstream (Fandango Libri 2021). E la domanda non sembra affatto campata in aria, soprattutto a ben vedere le deboli e vacue risposte dei governi globali al dramma dell’emergenza climatica, e le crudeli e disumane risposte degli stessi a quei fenomeni migratori di massa che spesso e volentieri nascono proprio dai disastri ecologici.

    La stessa domanda se l’era posta qualche anno fa Peter Frase nel suo Quattro modelli di futuro (Treccani 2019) in cui combinando automazione e crisi climatica l’autore individuava quattro possibili sistemi sociali ed economici a venire: il comunismo (abbondanza e uguaglianza), il renditismo (abbondanza e gerarchia), il socialismo (scarsità e uguaglianza) e lo sterminismo (gerarchia e scarsità).

    Per evitare che sia l’ultimo a prendere il sopravvento, come molti indicatori sembrano prefigurare, è quindi necessario individuare la dottrina alla base dello stadio più avanzato dello sviluppo capitalista: quello che Valerio Renzi chiama “Fascismo Mainstream”. «Un orizzonte possibile nel nostro futuro» scrive l’autore, «perché i valori, l’organizzazione sociale e la ratio profonda dei rapporti sociali espressi da questo nuovo pensiero reazionario, non solo sono perfettamente compatibili con il capitalismo neoliberista, ma ne rafforzano alcuni elementi diventando una possibile via di fuga dentro la crisi».

    Se come avvertiva Mark Fisher non siamo più in grado d’immaginare mondi diversi e possibili – perché abbiamo introiettato che dal presente neoliberale non c’è alcuna via di fuga, il famigerato «there is no alternative» sentenziato dalla “Iron Lady” –, ecco che il (nuovo) fascismo trova il suo fertile terreno.

    L’ideologia migliore per sopravvivere in un sistema fondato sul continuo replicarsi e acuirsi delle diseguaglianze (di classe, genere, etnia…) alla ricerca di un biglietto della lotteria che non capiterà mai, è quella fascista: una dottrina sapientemente ibrida e confusa, terrorizzante e salvifica, che ci permette di trovare sempre qualcuno sotto di noi su cui scaricare le nostre frustrazioni.

    «Il funzionamento di questo universo discorsivo» scrive Renzi, «non sarebbe stato possibile senza una salda egemonia neoliberista sulle società occidentali, senza la disgregazione della solidarietà di classe, l’abbassamento della conflittualità sindacale e sociale, l’allenamento all’individualismo proprietario e alla competizione.»

    A questo punto, se la catastrofe ecologica sembra inevitabile, forse possiamo ancora fare qualcosa per evitare che sia accompagnata da un sistema sociale e politico fondato sullo “sterminismo” di cui parla Frase. Il compito è quindi duplice: innanzitutto capire come e perché siamo arrivati fino a qui; in secondo luogo, dotarci degli strumenti per riconoscere il Fascismo Mainstream non solo nelle sue plastiche rappresentazioni – come possono esserlo i vari Trump, Salvini e Bolsonaro – ma anche e soprattutto nella sue forme più infide e nascoste.

    Per intraprendere la prima parte del percorso Valerio Renzi, giornalista e attivista che da anni si occupa dei fenomeni dell’estrema destra, ci accompagna lungo un doppio binario. Non solo l’evoluzione del pensiero fascista-reazionario, da Julius Evola alla nouvelle droite di Alan De Benoist, il cosiddetto gramscismo di destra che ha avuto l’abilità di teorizzare per primo alcune degli elementi oggi al cuore del Fascismo Mainstream, ma anche e soprattutto gli errori della sinistra.

    Da una parte quella che l’autore, aumentando il concetto di sacralizzazione della memoria della Shoah teorizzato dalla ricercatrice Valentina Pisanty, chiama “Religione Antifascista di Stato”. Una fossilizzazione del pensiero che «si è trovata a difendere il mondo così come lo conosciamo. È diventata un’ideologia conservatrice, utile a confermare la realtà così com’è, una foglia di fico morale per l’inconsistenza della democrazia liberale, per l’impotenza di un sistema politico ormai esautorato dal capitalismo finanziario».

    Dall’altra l’adesione totale e totalizzante della sinistra occidentale ai precetti non tanto del libero mercato, cui già era iscritta, quanto della sua variante austriaca con il portato della sua nefasta ideologia. Per di più tradotta in ordinamento giuridico come hanno spiegato benissimo Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi 2013). Un percorso cominciato negli anni ‘90 con i vari Clinton e Blair che hanno portato la sinistra occidentale a essere incapace di reagire alle varie crisi del capitale del 2008 e del 2011.

    E siamo alla seconda questione: come riconoscere il Fascismo Mainstream – cioè il nuovo e spaventoso fascismo che imperversa in modo apparentemente innocuo nei programmi televisivi in prima serata e nei post su Facebook dello zio sorrentiniano – oltre le sue rappresentazioni più plastiche ed evidenti, ovvero nelle sue forme di governo e nel proliferare di attentati di estremisti di destra per nulla solitari e sempre più connessi e organizzati?

    Valerio Renzi individua le fondamenta della dottrina del Fascismo Mainstream in due capisaldi, o come acutamente rilevava lo storico Furio Jesi per il fascismo, in due “miti”: il differenzialismo e il politicamente corretto. Due termini d’uso talmente comuni da sembrare ormai neutri, ma che racchiudono invece una molteplicità di ideologie tossiche, pericolose e aberranti.

    Il differenzialismo è un razzismo all’apparenza non biologico ma culturale, introdotto dalla nouvelle droite, che al mito del “sangue” sostituisce quello del “suolo”. Non ci sono più, o non ci sono solo, o ci sono ma non lo si dice, razze inferiori biologicamente, più stupide o più cattive, con le quali non ci si deve mischiare. Ma ci sono razze diverse, con bisogni e desideri diversi, che non dobbiamo assimilare ma che dobbiamo “aiutare a casa loro”. Inutile approfondire come sia il “noi” privilegiato della parte di mondo che detiene il 99% della ricchezza globale, dopo averla estratta e depredata all’altra parte, a decidere come sia meglio che gli “altri” restino lì dove sono.

    Il politicamente corretto è invece quella foglia di fico, quella mistificazione della realtà dietro cui si nasconde, come spiega molto bene la giurista Kimberlé Crenshaw, l’attacco dei privilegiati all’intersezionalità, ovvero la rivendicazione dell’impossibilità di scindere le oppressioni di classe, genere e razza. Ecco che il maschio bianco, nei secoli proprietario dei mezzi di produzione, della terra, delle donne e degli schiavi – perché ogni fascismo nasce sempre e solo per difendere la proprietà e il sistema sociale ed economico che la garantisce – sentendosi minacciato accusa l’esistenza di una fantomatica dittatura, quella del “politicamente corretto”.

    Ribaltando completamente il senso comune, negando decenni di conquista di diritti attraverso le lotte, secondo i proprietari che si sentono minacciati vivremmo oggi in tempi bui, in cui non si possono più insultare le minoranze, infierire contro chi è più debole di noi, altrimenti si erigerebbe una terribile censura orchestrata da fantomatiche lobby di femministe, di non bianchi, di omosessuali. Inutile approfondire, anche qui, come dietro queste fantomatiche lobby che impediscono ai fascisti di essere tali si celi sempre l’antica e innominabile idea che a governare il mondo ci siano loro: gli ebrei.

    Avendo accolto il concetto di “Fascismo Mainstream” proposto dall’autore come cassetta degli attrezzi per comprendere il presente, e avendo stabilito come questo sia la forma di governo più semplice e facilmente attuabile per governare la catastrofe, agli essere umani dotati ancora di un minimo di buona volontà resta un solo compito: individuare le manifestazioni di questo inedito pensiero reazionario non tanto nelle sue rappresentazioni più becere ma in quelle apparentemente più innocue, in chi professandosi liberale attacca la fantomatica dittatura del politicamente corretto, in chi da sinistra blatera di “esercito industriale di riserva” per giustificare il suo odio nei confronti dei migranti e ricacciarli indietro. E sarebbe il caso di riconoscere queste persone per quelle che sono: i nuovi fascisti.

  • “Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto” (di Oleg Orlov)

    “Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto” (di Oleg Orlov)

    Le forze oscure che, dopo il crollo dell’impero sovietico, sognavano una rivincita totale e a poco a poco si impadronivano della Russia negli ultimi mesi hanno festeggiato la propria vittoria. Questa guerra ha consegnato l’intero paese nelle loro mani

    24 Dicembre 2022 alle 11:36


    Memorial Italia pubblica il seguente testo di Oleg Orlov,
     copresidente del Centro per i diritti umani Memorial, vincitore nel 2022 del Nobel per la pace. Il testo originale è stato pubblicato dal blog Mediapart che ringraziamo per la concessione dei diritti. La traduzione è di Luisa Doplicher. Scritto un mese prima che Memorial ricevesse il Nobel per la pace, da Mosca Oleg Orlov, dissidente russo e copresidente del Centro dei diritti umani Memorial, descrive in questo testo una Russia in cui le persone sono ridotte a zombie e dove la propaganda di stato, negando l’esistenza stessa del popolo ucraino e della sua cultura, presenta i chiari sintomi del fascismo. Questo testo è il primo di una serie nata dalla collaborazione tra il Club de Mediapart e una rete di dissidenti della Russia attuale.

    La guerra sanguinosa scatenata in Ucraina dal regime di Putin non si limita a perpetrare l’assassinio di massa degli abitanti e la distruzione delle infrastrutture, dell’economia e della cultura di quel paese meraviglioso. E nemmeno si tratta soltanto della violazione delle basi stesse del diritto internazionale.

    È anche un duro colpo al futuro della Russia.

    Le forze oscure che, dopo il crollo dell’impero sovietico, sognavano una rivincita totale e a poco a poco si impadronivano della Russia – quelle che mai si stancavano di soffocare la libertà di espressione, di reprimere la società civile e di annientare un sistema giudiziario indipendente – negli ultimi mesi hanno festeggiato la propria vittoria.

    Vi potreste chiedere: ma quale vittoria? Dopotutto, sui fronti dell’Ucraina le cose non vanno affatto bene per le truppe russe. È vero, ma all’interno della Russia quelle stesse forze hanno vinto definitivamente.

    Questa guerra ha consegnato l’intero paese nelle loro mani. Da molto tempo volevano scrollarsi di dosso ogni freno. Non auspicano il ritorno del sistema comunista, benché qualcuno di loro si dichiari favorevole. Apprezzano il sistema ibrido che si è instaurato in Russia negli ultimi vent’anni: per metà feudalesimo e per metà capitalismo di stato corrotto fino al midollo. Eppure, mancava ancora qualcosa…

    Che cosa? L’impressione che il sistema fosse concluso. Adesso lo è. Adesso possono proclamare apertamente e senza vergogna: “Un popolo, un impero, un capo!”. Senza la minima vergogna.

    In breve, volevano il fascismo e l’hanno ottenuto.

    Il paese che trent’anni fa aveva preso le distanze dal totalitarismo comunista è ripiombato in un altro totalitarismo, quello ormai fascista.

    Molte persone non sono d’accordo con me: “Ma dove lo vedi, il fascismo?”. Dov’è il partito di massa che ha fondato il sistema ed è superiore allo stato stesso? Ti sembra che Russia Unita (il partito di Putin, N.d.R.), una banda di burocrati, possa somigliargli? E dove sono le organizzazioni di massa che inquadrano tutti i giovani?

    Per prima cosa, le iniziative per ridurre i giovani a zombie e creare organizzazioni che li inquadrino ideologicamente non battono sicuramente la fiacca. Inoltre, il fascismo non è soltanto l’Italia di Mussolini o la Germania nazista (tra l’altro, oggi in Russia è prassi comune contrapporre il fascismo «buono» al nazismo «cattivo»); ci furono anche l’Austria prima dell’Anschluss, la Spagna di Franco e il Portogallo di Salazar. Ogni regime fascista aveva caratteristiche diverse e specifiche. E la Russia degli ultimi anni di Putin sarà di certo inclusa in questo elenco. 

    Esistono varie definizioni di fascismo. Nel 1995, su richiesta del presidente Boris El’cin, l’Accademia delle scienze russa ha elaborato la seguente: “Il fascismo è un’ideologia e una pratica che affermano l’esclusiva superiorità di una data razza o nazione e proclamano l’odio interetnico, giustificano la discriminazione contro i membri di altri popoli, negano la democrazia, affermano il culto del capo, utilizzano la violenza e il terrore contro gli oppositori politici e ogni tipo di dissidenza, e giustificano la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali”.

    Secondo me, ciò che avviene in Russia corrisponde in tutto e per tutto a questa definizione. Si contrappone la Russia al presente, al passato e al futuro degli stati circostanti (soprattutto di quelli europei); si afferma la superiorità della cultura russa (dove l’aggettivo non va inteso in senso etnico, ma imperiale); si nega l’esistenza stessa del popolo, della lingua e della cultura dell’Ucraina… tutto ciò è ormai la base della propaganda di stato. Quanto a negare la democrazia, affermare il culto del capo e sopprimere la dissidenza, non c’è niente da dimostrare, è una cosa che salta agli occhi…

    Di chi è la colpa se la Russia è diventata fascista? La risposta più semplice sarebbe: di Putin. Non si può negare che la sua responsabilità sia notevole; ci sono però molte altre persone che, magari senza volerlo, gli hanno spianato la strada.

    Le masse aspiravano all’impero, all’uomo forte, al mito di Stalin. Opinioni rintracciabili sia “in vetta”, fra le élite che dirigono il paese (dipendenti pubblici, forze di sicurezza, deputati, dirigenti di aziende pubbliche e oligarchi) sia “in fondo”, tra i più poveri. Tra quelli che hanno Mercedes, yacht e castelli, e tra chi non ha neanche il bagno in casa. A tutti, però, il sistema autocratico di Putin nega qualunque diritto.

    Ai primi non interessava combattere l’arbitrarietà di questo sistema; con un governo diverso non avrebbero mai avuto i vantaggi materiali di cui godono. Ma per compensare questa deplorevole mancanza di diritti, ci voleva qualcosa in cambio: l’impressione di avere un potere assoluto sui loro “nemici”, di poter sfuggire, almeno in questo ambito, a qualsiasi controllo… fatto salvo quello del Capo. Volevano considerarsi una classe di nuovi aristocratici, eletti dalla Storia e dalla Provvidenza a guidare il paese. Ma si sono ritrovati qualche bastone tra le ruote: i miseri resti della libertà di espressione, il giornalismo investigativo nelle sue varie declinazioni, i militanti per i diritti umani e i guastafeste che riuscivano a far scendere la gente in piazza ogni tanto. E anche alcuni membri delle élite che la pensavano diversamente e volevano conservare qualche parvenza di legalità liberale nell’amministrazione del paese.

    Il secondo gruppo, le persone “in fondo” alla gerarchia, non credevano affatto alla possibilità di avere la meglio in un eventuale scontro: a confermarglielo bastava la loro stessa vita, durissima, e cos’era successo ai loro genitori e nonni.

    Chi ha beneficiato della breve parentesi di relativa democrazia negli anni ’90 ne è rimasto scottato: intorno tutto cambiava, le scelte andavano fatte in prima persona e in circostanze difficili, cosa insolita e spiazzante. Queste persone hanno trasmesso ai figli i loro timori: i cambiamenti sono sempre in peggio. Bisogna sempre contare sulle autorità, sui superiori. Al massimo si possono scrivere petizioni e reclami da inoltrare ai dirigenti.

    Queste persone non saranno forse la maggioranza, ma costituiscono un gruppo significativo; la società civile russa si è rivelata incapace di fornire loro spazi e strumenti necessari a lottare per i propri diritti. Credo, inoltre, che gli stessi attivisti per i diritti umani abbiano a volte assunto un atteggiamento paternalista… Quando qualcuno si rivolgeva a noi, non lo trattavamo come un compagno di lotta, ma come “cliente”; cercavamo di aiutarlo, ma era raro che ci mettessimo a spiegargli quali fossero gli obiettivi di quella lotta.

    Di conseguenza, i “clienti” ricevevano un aiuto gratuito, tornavano a fare la loro vita, e alle elezioni seguenti votavano di nuovo le persone indicate dai superiori. Compensavano privazioni e mancanza di diritti sentendosi parte di qualcosa di grande, un ingranaggio dell’enorme macchinario di un impero che si stava ricostituendo. 

    Il regime di Putin soddisfaceva alcuni bisogni simili, ma non ancora del tutto.

    La guerra è stata quindi un grande obiettivo unificatore. Dopo tanti anni, è rinato un vecchio slogan: “Tutto per il fronte, tutto per la vittoria!”. L’opposizione è stata spazzata via, la poca libertà che restava è stata eliminata, pronunciare in pubblico termini come liberalismo e democrazia senza aggiungere una parolaccia presenta i suoi rischi. La “vetta” e il “fondo” della gerarchia si sono riuniti in un’estasi di patriottismo e di… odio per l’Ucraina indipendente.

    Certo, l’estasi non coinvolge la maggioranza dei russi, tutt’altro, ma vi si riconoscono in parecchi.

    Fino a poco tempo fa, però, per istinto di autoconservazione, la maggioranza preferiva semplicemente chiudere gli occhi su ciò che succedeva. “Protestare è pericoloso, non si può cambiare niente, e blaterare sugli eccessi compiuti dai nostri in Ucraina riuscirà soltanto a tenerci svegli la notte e a deprimerci”. È meglio far finta di credere a ciò che dicono in tv e, anzi, provare a crederci sul serio.

    Un comportamento che, probabilmente, è il più diffuso in qualsiasi regime fascista.

    Una minoranza minuscola cerca di reagire. Un movimento che si oppone alla guerra e ha i suoi prigionieri politici, i suoi eroi.

    Gli attivisti continuano a difendere i diritti umani quasi in clandestinità: forniscono mezzi legali per evitare la mobilitazione e il reclutamento, stilano elenchi di prigionieri politici, procurano loro gli avvocati, forniscono assistenza giuridica e umanitaria ai rifugiati provenienti dall’Ucraina e fanno in modo che possano arrivare in Europa.

    È però inevitabile che la difesa dei diritti umani venga stravolta, in un paese in cui la legalità non esiste più. Oggi i russi che se ne occupano si trovano nella stessa posizione dei dissidenti d’epoca sovietica, loro predecessori. Cercare di farsi conoscere al pubblico russo ed estero diventa un obiettivo primario. Il dissidente russo Sergej Kovalëv, grande difensore dei diritti umani che ha trascorso dieci anni nei gulag, aveva questo motto: “Fai ciò che devi e vada come vada”; oggi è più vero che mai.

    Quanto durerà, tutto questo, in Russia?

    Chi può dirlo…

    Il futuro del nostro paese si decide nei campi dell’Ucraina.

    Se le truppe russe vinceranno, il fascismo si radicherà definitivamente in Russia. E viceversa…

    Nel mese scorso, l’”estasi” di cui sopra ha iniziato piano piano a sfumare nello smarrimento generale: com’è possibile che il nostro esercito, grande e invincibile, venga battuto su tutti i fronti?

    I postumi della sbornia sono sempre pesanti. E possono essere gravi.

    Molto dipende dai paesi dell’Europa centrale e occidentale. È naturale che ogni persona sana di mente preferisca la pace alla guerra. Ma la pace a qualsiasi prezzo? L’Europa ha già cercato di mantenere la pace tentando di rabbonire un aggressore. Conosciamo tutti il risultato catastrofico di quei tentativi. 

    Per di più, una Russia fascista vittoriosa diventerà inevitabilmente una seria minaccia per la sicurezza dei suoi vicini e di tutta l’Europa.

  • Il popolo di nessuno

    Il popolo di nessuno

    A) Sul piano politico interno, in Italia più che altrove accade la messinscena della teatrocrazia con la specifica che c’è un doppio potere del teatro. C’è il potere del teatro che viene inscenato rappresentando i dati di realtà e il potere che si esprime direttamente nella realtà intesa come teatro della vita. A ciascuno è dato di esprimersi nell’una o nell’altra forma.

    B) La politica non vive nella realtà del teatro. Aleggia la sua vanagloria nel teatro della realtà, in quel teatro di autoreferenzialità che prende a pugni la realtà delle cose, simulandola maldestramente, e dove nessun attore conta qualcosa fuori dalla scena.

    La politica nell’era del suo sfinimento non è più in grado di sussulti eroici. Non dipende dall’incapacità degli attori. Dipende dalla realtà della scena della democrazia contemporanea. In essa il potere del popolo si esercita tanto più quanto il rappresentante esercita solo un metapotere di facciata.

    C) Un tempo c’era il popolo democristiano o fascista o comunista.

    Ora c’è solo il popolo di nessuno. Il popolo di nessuno coincide con la popolazione.

    La politica gli è indifferente e questa indifferenza

    non esprime un assenza di desiderio di libertà, ma al contrario una ricerca affannosa di essa. Il popolo di nessuno desidera essere libero ma vive la sua libertà al di fuori della sfera politica.

    L’indifferenza verso il potere politico non è percepita dal popolo di nessuno come una limitazione della propria libertà; è viceversa percepita come la forma superiore di libertà nelle democrazie contemporanee.

    D) Le libertà sono vieppiù scisse dal potere politico. Non è più il potere politico a decidere quali forme di libertà può tollerare, ma sono le libertà diffuse della popolazione che decidono quali forme di potere politico tollerare. Il potere è avvertito come ostile appena supera la sua soglia di indifferenza verso le libertà della popolazione. E) Ciò che conta ai popoli di nessuno non è quello che avviene nelle sfere dei diritti politici, ma in quelle dei diritti civili. I diritti politici sono un semplice

    passpartout per garantirsi, quando occorre, i diritti civili.

    F) I diritti civili sono la forma superiore di protagonismo delle masse contemporanee che partecipano così alla vita collettiva nonostante l’indifferenza verso il resto della sfera politica.

    G) Chi, con le vicende del covid o del climate change, teme un collasso della democrazia prende

    un abbaglio. Nella sospensione di alcune regole democratiche della politica contemporanea non c’è nessuno stato d’eccezione da reincarnare come uno stolido infinito avatar di Karl Schmidt. In quel presunto collasso c’è l’orgasmo della democrazia.

    H) Il potere del popolo di nessuno – sempre orrifico, come qualsiasi potere di qualcuno – muta le forme della democrazia, ne mette in mora alcune e ne esalta altre onde adattarsi allo stato della diffusione spazio temporale dei poteri.

    I) La democrazia – quel potere che permette i privilegi di parte con il formale consenso di tutti – è viva proprio perché alcuni suoi istituti appaiono morti.

    L) I partiti, per esempio. Chi ne ha nostalgia? Come dice il loro nome, fanno gli interessi di una parte, ma le parti della contemporaneità sono troppo fluide per essere rappresentate stabilmente. Infatti, i partiti trionfano e collassano in tempi rapidissimi. Il loro trionfo è già nella caduta.

    M) Fin quando sopravvivono, per sopravvivere, i partiti residui fanno ciò che devono fare. Non essendo in grado di decidere, sono costretti a fare ciò che la realtà delle cose ha già deciso. Prendono decisioni non conformi alle idee, che mancano o sono sempre emendabili, ma alla possibilità di racimolare qualche, per quanto fatuo, consenso. Sono attratti da quel consenso che li ossigena e subito dopo li fa

    morire.

    N) Chi non ha problemi di consenso, Draghi e i suoi avatari, esercita un ruolo efficace fintanto che, e solo se, è in grado di porsi anziché come ostaggio delle parti, al di là e al di sopra di esse.

    O) Draghi e i suoi avatari non esistono in rappresentanza dei partiti ma come espressione delle istituzioni.

    P) Draghi e i suoi avatari riflettono il primato in questa fase storica delle istituzioni rispetto alla politica e ai politici.

    Q) Ciò che sta profondamente cambiando è il regime politico che chiamiamo democrazia. Diversamente da altri periodi storici, il potere tanto più si esercita diffusamente tanto meno necessita che questo esercizio venga rappresentato dalla mediazione politica classica. Dal primo lato, dall’esercizio del potere diffuso, i regimi attuali, in particolare in Europa, sono iperdemocratici. Dal secondo lato, appaiono sempre più ipodemocratici. Il funzionamento del regime politico più diffuso nella contemporaneità – che per comodità si chiama ancora democrazia – esige nel contempo massima diffusione del potere e massima concentrazione della decisione formale a condizione che l’uno e l’altra non vadano in corto circuito.

    R) C’è un gran peana sulla crisi della democrazia

    che si riflette nella perdita di ruolo dei votati e dei partiti. I partiti sono divenuti un simulacro della democrazia. Il simulacro dei partiti esigerebbe che la democrazia esistesse perché ci sono e fintanto che i partiti esistono. Occorre invece registrare che la democrazia vige nonostante i partiti. Le istituzioni anziché collassare ricevono linfa dalla necrosi dei partiti.

    S) I legislatori fanno meno le leggi di quanto le leggi fanno i legislatori. L’Italia rimane una repubblica parlamentare nonostante il Parlamento abbia un ruolo sempre più marginale e il Parlamento approvi decisioni prese in buona parte altrove.

    T) Un altro simulacro della democrazia è diventato il voto. Siccome si vota si è in un regime di democrazia. Questo è il pensiero comune. E a un superiore numero di votanti corrisponde un maggiore gradiente di democrazia. Questo è il corollario.

    Eppure, la realtà dice altro. Dice che senza alcun bisogno di votare, si conoscono in ogni momento le opinioni del popolo di nessuno. Si vota per necessità e per ritualità.

    Ma non è nelle forme più o meno massive in cui si esprime il voto che si possono intuire benessere e malessere delle democrazie.

    V) Quando votano tutti vuol dire che c’è paura di qualcuno, quando votano in pochi vuol dire che c’è

    indifferenza verso l’esito delle elezioni, indifferenza che significa

    assenza di paura. Nell’astensione dal voto il popolo di nessuno dice: non ho paura.

    Tutto sommato, nell’astensione politica non c’è una crisi di fiducia, ma al contrario la consapevolezza che, comunque vadano le cose, chiunque sia eletto, i semafori continueranno a funzionare, la macchina istituzionale governerà la sua inerzia.

    Z) L’indifferenza verso la politica è una forma di libertà, un lusso, che le società democratiche avanzate si possono permettere.

    ZZ) Il voto è diventata una forma di consumo. Si vota se se ne sente la necessità e fino a quando quel voto viene ritenuto abile a qualcosa.

    ZZ..) Il voto usa e getta esprime una sensibilità diffusa al consumismo della politica.

    Il voto oltre il consumismo è una forma di dipendenza. Il voto come forma di dovere, come feticcio, che il popolo di nessuno avverte sempre meno.

    ZZ.. ) Un tempo, ciascuno aveva bisogno del voto per sentirsi, almeno un po’, sovrano. Ora, è il sovrano che ha bisogno del voto, per sentirsi, ancora un po’, re.

  • Teatrocrazia della Repubblica

    Teatrocrazia della Repubblica

    In Italia nasce la diarchia dell’uno. Contro ogni principio giuridico, i due poteri su cui si è appoggiata l’architrave della democrazia degli ultimi lustri rimangono formalmente differenti ma vengono unificati nello stesso nome.

    La contemporaneità irride i canoni consunti del diritto e della politica. Le regole costituite, i protocolli del diritto e della politica prevedono che il Presidente del Consiglio non possa ricoprire anche la carica di Presidente della Repubblica.

    Nella matematica della realtà l’uno non può diventare due così come il due non diviene uno.

    Nella realtà formale l’Italia non ha ciò che è già nella realtà delle cose.

    Il fatto è che, comunque vada, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica sono Mario Draghi.

    La realtà formale si srotola secondo la Teatrocrazia di platonica memoria. La realtà delle cose invece accade su un piano parallelo, quello di una matematica virtuale in cui si contempla la possibilità che al di là di divenire formalmente l’uno o l’altro –

    Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica – Mario Draghi sia già l’uno e l’altro, uno e bino – Presidente del Consiglio e Presidente della

    Repubblica.

    Per ricoprire le due cariche è indifferente che egli venga eletto Presidente della Repubblica o rimanga alla Presidenza del Consiglio. Chiunque eletto formalmente nella carica non ricoperta da Draghi è un suo avataro.2

    Se anche le due cariche non risultano formalmente ricoperte da lui, sono comunque suoi avatari. L’avataro di Draghi, sia ben inteso, non risponde al suo comando. Non è né un suo clone né un suo ologramma. Draghi, egli medesimo, infatti, è un avataro di Draghi. L’avataro di Draghi ha poco a che fare con le identità posticce dove proliferano improbabili credenze, regni soporiferi e supereroi della frustrazione.

    L’avataro di Draghi nasce dalla realtà dinamica della storia contemporanea la cui vivescenza brilla proprio dove più appare sfinita.

    Il due dell’uno non è l’uno reincarnato. È l’uno che appare anche in forma di due o di tre. In questo caso, è Draghi sia se si chiama come lui, sia se assume altro corpo e nome.

    È ridicolo quando a una singola persona vengono attribuiti i meriti o le infamie di un’intera comunità. Lei, quella persona, a meno dei deliri egoici sempre partoribili, sa bene di essere un avataro di ciò che è inscritto nel suo nome, dell’azione storica che interpreta

    più o meno degnamente. In lei si esprime ciò che intere comunità balbettano sul palcoscenico della storia. Lei, quella persona, pur balbettando e 2 Chiamiamo avataro l’ubiquitaria forma di chi mantiene i suoi caratteri essenziali anche quando muta corpo o nome. L’avataro non è uguale all’originale sia perché l’originale esso stesso di continuo muta sia perché pur nell’ubiquità due cose uguali non esistono.

    incespicando come ha fatto il 17 febbraio 2021 Draghi da Presidente del consiglio chiedendo la fiducia – ricordate? “… in questo momento due milioni sono ricoverati in terapia intensiva” – deve semplicemente risultare, nonostante i propri spasmi e le proprie meschinità, all’altezza di quella storia inscenata davanti ai suoi occhi.

    Draghi e i suoi avatari assumono le forme di un accadere storico che li prescinde incarnandoli. Il vero avataro di Draghi, ciò che lo muove in ogni istante, ha un nome: Italia mundi. L’Italia che non appartiene solo a se stessa ma al mondo intero.3

    La realtà è teatro. Il teatro della realtà non può prescindere dalla realtà, ma è costretto a stargli sempre o troppo avanti o troppo indietro. Vi sono le retroguardie e le avanguardie. La politica sta in retroguardia, asfittica e impotente. Le cose stanno in avanguardia.

    In avanguardia ci sono le Istituzioni, c’è Draghi Presidente del Consiglio e Draghi Presidente della Repubblica. In retroguardia ci sono i politici, i partiti, e il parlamento.

    Nessuno vuole Draghi alla Presidenza della Repubblica, ma siccome nessuno è in grado di decidere chi altro eleggere si finisce per votarlo o si vota un suo avataro.

    Nel caso di un moto improprio, dell’elezione di un partigiano non avataro di Draghi, l’eletto si adegua presto a lui o va a schiantarsi tra Scilla e Cariddi dell’Europa.

    Non è semplice pusillanimità italica. La politica in ogni parte del pianeta è incapace di agire. Reagisce tardi e a fatica solo sul baratro.

    Draghi e i suoi avatari non prenderebbero forma se nella realtà del teatro politico contemporaneo non fossero accadute grandi trasformazioni. In particolare, sul piano internazionale:

    1) Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia suo malgrado svolge un ruolo centrale nell’UE.

    2) L’austerità, anche grazie al generale Covid, non intossica più l’aria europea.

    3 Per questo concetto si rimanda a Europa Mundi, rilasciato da pianetica.org nel settembre 2021

    3) Per effetto di una perdurante inadeguatezza, gli Usa non sono in grado di tenere un profilo d’equilibrio nella situazione internazionale. Il caso Ucraina è eclatante. Eppure, in quel contesto l’avataro di Draghi avrebbe già una proposta: è inutile che l’Ucraina entri nel moribondo involucro della Nato –

    la Russia ha un buon pretesto a chiedere che non vi entri – a condizione che l’Ucraina possa, quando lo vorrà e quando ne avrà i presupposti, entrare nella UE. Nei territori contesi, il modello Alto Adige – riconoscimento delle specificità lingustiche, privilegi anziché discriminazioni nell’appartenere a un Paese d’altra lingua – è pronto ad assicurare pace e prosperità della frontiera.

    4) Tutti gli attori geopolitici che disgraziatamente ancora sgomitano per avere un peso maggiore nelle gerarchie mondiali necessitano di un punto oblativo di contatto e di mediazione. Questo punto oblativo sempre più chiaramente si chiamerà: Europa. Ne hanno bisogno la Russia, la Cina, gli Usa, il mondo intero.

    5) Le crisi planetarie devastanti e ricorrenti non possono essere affrontate secondo gli interessi delle singole parti. Emerge sempre più chiaramente che nessun interesse particolare può essere coltivato prima e contro l’interesse planetario.

    6) Sugli aspetti fondamentali, gli interessi dell’Europa, dunque dell’Italia, coincidono con gli interessi planetari. Europa mundi è Italia mundi.

    7) Ne consegue che all’Italia tocca giocare in Europa lo stesso ruolo che compete all’UE nel resto del pianeta.

    8) In questo momento storico allo spazio geografico chiamato Italia tocca un ruolo mai avuto dai tempi della massima unità di Augusto o della massima frammentazione dei Comuni. Un essere per il mondo al di là della particolarità dell’essere. Ecco la singolarità d’avanguardia – personale, spaziale, temporale

    – ai tempi della Pianetica4.

    Per il concetto di Pianetica si rimanda al libro in uscita: Pianetica, di Pino Tripodi e Giuseppe Genna, Milano 2022

  • Prima dello gnomologio tanatologico.

    Prima dello gnomologio tanatologico.

    Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre

    bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.

    L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama

    forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il

    calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.

    Il cambiamento climatico.

    L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.

    La confusione è sovrana.

    Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.

    Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.

    Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.

    Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.

    Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?

    Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .

    Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.

    Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.

    Siamo in disaccordo nella filìa.

    Un attimo stiamo parlando.

    Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.

    Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.

    Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.

    Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.

    Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che

    siamo noi.

    Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.

  • Res Ponso Abili

    Res Ponso Abili

    Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.

    Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.

    Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –

    e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.

    Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della

    morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.

    La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.

    Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.

    Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.

    La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.

    È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.

    C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.

    In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.

    È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.

    Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.

    È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.

    Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.

    Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.

    Vuoti di responsabilità pieni di diritti.

    La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.

  • Suicidio eutanasia

    Suicidio eutanasia

    Morte di Stato

    Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte. Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.

    Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.

    Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.

    In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema

    di definire il sostantivo.

    Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.

    Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.

    Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.

    Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.

    Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.

    Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento

    della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.

    Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.

    Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.

    Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:

    Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.

    Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.

    L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.

    Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.

    Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.

    Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.

    L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.

    Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.

    Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.

    Dallo stato di morte alla morte di Stato

    Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.

    In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili

    e ad atroci agonie.

    Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.

    La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.

    Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia –

    se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.

    Lo Stato della morte

    Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.

    Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura

    – suicidio o eroismo.

    Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.

    Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.

    In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.

    Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una

    battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.

    La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.

    Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna

    ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.

    Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.

    L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?

    La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata,

    è sempre un abominio.

    Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.

    Esiste la buona morte?

    Ma: esiste la buona morte?

    La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.

    Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.

    1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.

    2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a

    comminarla è lo stesso Stato.

    3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?

    4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?

    5) Quale libertà vale più di altre libertà?

    Suicidio assistito e analgotanasia

    Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.

    Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.

    Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?

    Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.

    Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.

    Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.

    Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.

    Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.

    Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.

    Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.

    La differenza tra suicidio e suicidio assistito è

    abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.

    Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può

    affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.

    Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.

    Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.

    La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.

    In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi

    deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.

    Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.

    Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.

    Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.

    Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.

    Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.

    Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.