Categoria: Politica per i nipoti

  • FASCISMO MAINSTREAM

    FASCISMO MAINSTREAM

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro “Fascismo Mainstream”. E considerando le risposte reazionarie dei governi globali a crisi sociale e catastrofe climatica, la domanda appare lecita.

    «Un nuovo fascismo sarà la forma di governo che ci accompagnerà dal nostro presente fino alla catastrofe ecologica?». Se lo chiede Valerio Renzi nel suo ultimo libro, Fascismo Mainstream (Fandango Libri 2021). E la domanda non sembra affatto campata in aria, soprattutto a ben vedere le deboli e vacue risposte dei governi globali al dramma dell’emergenza climatica, e le crudeli e disumane risposte degli stessi a quei fenomeni migratori di massa che spesso e volentieri nascono proprio dai disastri ecologici.

    La stessa domanda se l’era posta qualche anno fa Peter Frase nel suo Quattro modelli di futuro (Treccani 2019) in cui combinando automazione e crisi climatica l’autore individuava quattro possibili sistemi sociali ed economici a venire: il comunismo (abbondanza e uguaglianza), il renditismo (abbondanza e gerarchia), il socialismo (scarsità e uguaglianza) e lo sterminismo (gerarchia e scarsità).

    Per evitare che sia l’ultimo a prendere il sopravvento, come molti indicatori sembrano prefigurare, è quindi necessario individuare la dottrina alla base dello stadio più avanzato dello sviluppo capitalista: quello che Valerio Renzi chiama “Fascismo Mainstream”. «Un orizzonte possibile nel nostro futuro» scrive l’autore, «perché i valori, l’organizzazione sociale e la ratio profonda dei rapporti sociali espressi da questo nuovo pensiero reazionario, non solo sono perfettamente compatibili con il capitalismo neoliberista, ma ne rafforzano alcuni elementi diventando una possibile via di fuga dentro la crisi».

    Se come avvertiva Mark Fisher non siamo più in grado d’immaginare mondi diversi e possibili – perché abbiamo introiettato che dal presente neoliberale non c’è alcuna via di fuga, il famigerato «there is no alternative» sentenziato dalla “Iron Lady” –, ecco che il (nuovo) fascismo trova il suo fertile terreno.

    L’ideologia migliore per sopravvivere in un sistema fondato sul continuo replicarsi e acuirsi delle diseguaglianze (di classe, genere, etnia…) alla ricerca di un biglietto della lotteria che non capiterà mai, è quella fascista: una dottrina sapientemente ibrida e confusa, terrorizzante e salvifica, che ci permette di trovare sempre qualcuno sotto di noi su cui scaricare le nostre frustrazioni.

    «Il funzionamento di questo universo discorsivo» scrive Renzi, «non sarebbe stato possibile senza una salda egemonia neoliberista sulle società occidentali, senza la disgregazione della solidarietà di classe, l’abbassamento della conflittualità sindacale e sociale, l’allenamento all’individualismo proprietario e alla competizione.»

    A questo punto, se la catastrofe ecologica sembra inevitabile, forse possiamo ancora fare qualcosa per evitare che sia accompagnata da un sistema sociale e politico fondato sullo “sterminismo” di cui parla Frase. Il compito è quindi duplice: innanzitutto capire come e perché siamo arrivati fino a qui; in secondo luogo, dotarci degli strumenti per riconoscere il Fascismo Mainstream non solo nelle sue plastiche rappresentazioni – come possono esserlo i vari Trump, Salvini e Bolsonaro – ma anche e soprattutto nella sue forme più infide e nascoste.

    Per intraprendere la prima parte del percorso Valerio Renzi, giornalista e attivista che da anni si occupa dei fenomeni dell’estrema destra, ci accompagna lungo un doppio binario. Non solo l’evoluzione del pensiero fascista-reazionario, da Julius Evola alla nouvelle droite di Alan De Benoist, il cosiddetto gramscismo di destra che ha avuto l’abilità di teorizzare per primo alcune degli elementi oggi al cuore del Fascismo Mainstream, ma anche e soprattutto gli errori della sinistra.

    Da una parte quella che l’autore, aumentando il concetto di sacralizzazione della memoria della Shoah teorizzato dalla ricercatrice Valentina Pisanty, chiama “Religione Antifascista di Stato”. Una fossilizzazione del pensiero che «si è trovata a difendere il mondo così come lo conosciamo. È diventata un’ideologia conservatrice, utile a confermare la realtà così com’è, una foglia di fico morale per l’inconsistenza della democrazia liberale, per l’impotenza di un sistema politico ormai esautorato dal capitalismo finanziario».

    Dall’altra l’adesione totale e totalizzante della sinistra occidentale ai precetti non tanto del libero mercato, cui già era iscritta, quanto della sua variante austriaca con il portato della sua nefasta ideologia. Per di più tradotta in ordinamento giuridico come hanno spiegato benissimo Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi 2013). Un percorso cominciato negli anni ‘90 con i vari Clinton e Blair che hanno portato la sinistra occidentale a essere incapace di reagire alle varie crisi del capitale del 2008 e del 2011.

    E siamo alla seconda questione: come riconoscere il Fascismo Mainstream – cioè il nuovo e spaventoso fascismo che imperversa in modo apparentemente innocuo nei programmi televisivi in prima serata e nei post su Facebook dello zio sorrentiniano – oltre le sue rappresentazioni più plastiche ed evidenti, ovvero nelle sue forme di governo e nel proliferare di attentati di estremisti di destra per nulla solitari e sempre più connessi e organizzati?

    Valerio Renzi individua le fondamenta della dottrina del Fascismo Mainstream in due capisaldi, o come acutamente rilevava lo storico Furio Jesi per il fascismo, in due “miti”: il differenzialismo e il politicamente corretto. Due termini d’uso talmente comuni da sembrare ormai neutri, ma che racchiudono invece una molteplicità di ideologie tossiche, pericolose e aberranti.

    Il differenzialismo è un razzismo all’apparenza non biologico ma culturale, introdotto dalla nouvelle droite, che al mito del “sangue” sostituisce quello del “suolo”. Non ci sono più, o non ci sono solo, o ci sono ma non lo si dice, razze inferiori biologicamente, più stupide o più cattive, con le quali non ci si deve mischiare. Ma ci sono razze diverse, con bisogni e desideri diversi, che non dobbiamo assimilare ma che dobbiamo “aiutare a casa loro”. Inutile approfondire come sia il “noi” privilegiato della parte di mondo che detiene il 99% della ricchezza globale, dopo averla estratta e depredata all’altra parte, a decidere come sia meglio che gli “altri” restino lì dove sono.

    Il politicamente corretto è invece quella foglia di fico, quella mistificazione della realtà dietro cui si nasconde, come spiega molto bene la giurista Kimberlé Crenshaw, l’attacco dei privilegiati all’intersezionalità, ovvero la rivendicazione dell’impossibilità di scindere le oppressioni di classe, genere e razza. Ecco che il maschio bianco, nei secoli proprietario dei mezzi di produzione, della terra, delle donne e degli schiavi – perché ogni fascismo nasce sempre e solo per difendere la proprietà e il sistema sociale ed economico che la garantisce – sentendosi minacciato accusa l’esistenza di una fantomatica dittatura, quella del “politicamente corretto”.

    Ribaltando completamente il senso comune, negando decenni di conquista di diritti attraverso le lotte, secondo i proprietari che si sentono minacciati vivremmo oggi in tempi bui, in cui non si possono più insultare le minoranze, infierire contro chi è più debole di noi, altrimenti si erigerebbe una terribile censura orchestrata da fantomatiche lobby di femministe, di non bianchi, di omosessuali. Inutile approfondire, anche qui, come dietro queste fantomatiche lobby che impediscono ai fascisti di essere tali si celi sempre l’antica e innominabile idea che a governare il mondo ci siano loro: gli ebrei.

    Avendo accolto il concetto di “Fascismo Mainstream” proposto dall’autore come cassetta degli attrezzi per comprendere il presente, e avendo stabilito come questo sia la forma di governo più semplice e facilmente attuabile per governare la catastrofe, agli essere umani dotati ancora di un minimo di buona volontà resta un solo compito: individuare le manifestazioni di questo inedito pensiero reazionario non tanto nelle sue rappresentazioni più becere ma in quelle apparentemente più innocue, in chi professandosi liberale attacca la fantomatica dittatura del politicamente corretto, in chi da sinistra blatera di “esercito industriale di riserva” per giustificare il suo odio nei confronti dei migranti e ricacciarli indietro. E sarebbe il caso di riconoscere queste persone per quelle che sono: i nuovi fascisti.

  • Il popolo di nessuno

    Il popolo di nessuno

    A) Sul piano politico interno, in Italia più che altrove accade la messinscena della teatrocrazia con la specifica che c’è un doppio potere del teatro. C’è il potere del teatro che viene inscenato rappresentando i dati di realtà e il potere che si esprime direttamente nella realtà intesa come teatro della vita. A ciascuno è dato di esprimersi nell’una o nell’altra forma.

    B) La politica non vive nella realtà del teatro. Aleggia la sua vanagloria nel teatro della realtà, in quel teatro di autoreferenzialità che prende a pugni la realtà delle cose, simulandola maldestramente, e dove nessun attore conta qualcosa fuori dalla scena.

    La politica nell’era del suo sfinimento non è più in grado di sussulti eroici. Non dipende dall’incapacità degli attori. Dipende dalla realtà della scena della democrazia contemporanea. In essa il potere del popolo si esercita tanto più quanto il rappresentante esercita solo un metapotere di facciata.

    C) Un tempo c’era il popolo democristiano o fascista o comunista.

    Ora c’è solo il popolo di nessuno. Il popolo di nessuno coincide con la popolazione.

    La politica gli è indifferente e questa indifferenza

    non esprime un assenza di desiderio di libertà, ma al contrario una ricerca affannosa di essa. Il popolo di nessuno desidera essere libero ma vive la sua libertà al di fuori della sfera politica.

    L’indifferenza verso il potere politico non è percepita dal popolo di nessuno come una limitazione della propria libertà; è viceversa percepita come la forma superiore di libertà nelle democrazie contemporanee.

    D) Le libertà sono vieppiù scisse dal potere politico. Non è più il potere politico a decidere quali forme di libertà può tollerare, ma sono le libertà diffuse della popolazione che decidono quali forme di potere politico tollerare. Il potere è avvertito come ostile appena supera la sua soglia di indifferenza verso le libertà della popolazione. E) Ciò che conta ai popoli di nessuno non è quello che avviene nelle sfere dei diritti politici, ma in quelle dei diritti civili. I diritti politici sono un semplice

    passpartout per garantirsi, quando occorre, i diritti civili.

    F) I diritti civili sono la forma superiore di protagonismo delle masse contemporanee che partecipano così alla vita collettiva nonostante l’indifferenza verso il resto della sfera politica.

    G) Chi, con le vicende del covid o del climate change, teme un collasso della democrazia prende

    un abbaglio. Nella sospensione di alcune regole democratiche della politica contemporanea non c’è nessuno stato d’eccezione da reincarnare come uno stolido infinito avatar di Karl Schmidt. In quel presunto collasso c’è l’orgasmo della democrazia.

    H) Il potere del popolo di nessuno – sempre orrifico, come qualsiasi potere di qualcuno – muta le forme della democrazia, ne mette in mora alcune e ne esalta altre onde adattarsi allo stato della diffusione spazio temporale dei poteri.

    I) La democrazia – quel potere che permette i privilegi di parte con il formale consenso di tutti – è viva proprio perché alcuni suoi istituti appaiono morti.

    L) I partiti, per esempio. Chi ne ha nostalgia? Come dice il loro nome, fanno gli interessi di una parte, ma le parti della contemporaneità sono troppo fluide per essere rappresentate stabilmente. Infatti, i partiti trionfano e collassano in tempi rapidissimi. Il loro trionfo è già nella caduta.

    M) Fin quando sopravvivono, per sopravvivere, i partiti residui fanno ciò che devono fare. Non essendo in grado di decidere, sono costretti a fare ciò che la realtà delle cose ha già deciso. Prendono decisioni non conformi alle idee, che mancano o sono sempre emendabili, ma alla possibilità di racimolare qualche, per quanto fatuo, consenso. Sono attratti da quel consenso che li ossigena e subito dopo li fa

    morire.

    N) Chi non ha problemi di consenso, Draghi e i suoi avatari, esercita un ruolo efficace fintanto che, e solo se, è in grado di porsi anziché come ostaggio delle parti, al di là e al di sopra di esse.

    O) Draghi e i suoi avatari non esistono in rappresentanza dei partiti ma come espressione delle istituzioni.

    P) Draghi e i suoi avatari riflettono il primato in questa fase storica delle istituzioni rispetto alla politica e ai politici.

    Q) Ciò che sta profondamente cambiando è il regime politico che chiamiamo democrazia. Diversamente da altri periodi storici, il potere tanto più si esercita diffusamente tanto meno necessita che questo esercizio venga rappresentato dalla mediazione politica classica. Dal primo lato, dall’esercizio del potere diffuso, i regimi attuali, in particolare in Europa, sono iperdemocratici. Dal secondo lato, appaiono sempre più ipodemocratici. Il funzionamento del regime politico più diffuso nella contemporaneità – che per comodità si chiama ancora democrazia – esige nel contempo massima diffusione del potere e massima concentrazione della decisione formale a condizione che l’uno e l’altra non vadano in corto circuito.

    R) C’è un gran peana sulla crisi della democrazia

    che si riflette nella perdita di ruolo dei votati e dei partiti. I partiti sono divenuti un simulacro della democrazia. Il simulacro dei partiti esigerebbe che la democrazia esistesse perché ci sono e fintanto che i partiti esistono. Occorre invece registrare che la democrazia vige nonostante i partiti. Le istituzioni anziché collassare ricevono linfa dalla necrosi dei partiti.

    S) I legislatori fanno meno le leggi di quanto le leggi fanno i legislatori. L’Italia rimane una repubblica parlamentare nonostante il Parlamento abbia un ruolo sempre più marginale e il Parlamento approvi decisioni prese in buona parte altrove.

    T) Un altro simulacro della democrazia è diventato il voto. Siccome si vota si è in un regime di democrazia. Questo è il pensiero comune. E a un superiore numero di votanti corrisponde un maggiore gradiente di democrazia. Questo è il corollario.

    Eppure, la realtà dice altro. Dice che senza alcun bisogno di votare, si conoscono in ogni momento le opinioni del popolo di nessuno. Si vota per necessità e per ritualità.

    Ma non è nelle forme più o meno massive in cui si esprime il voto che si possono intuire benessere e malessere delle democrazie.

    V) Quando votano tutti vuol dire che c’è paura di qualcuno, quando votano in pochi vuol dire che c’è

    indifferenza verso l’esito delle elezioni, indifferenza che significa

    assenza di paura. Nell’astensione dal voto il popolo di nessuno dice: non ho paura.

    Tutto sommato, nell’astensione politica non c’è una crisi di fiducia, ma al contrario la consapevolezza che, comunque vadano le cose, chiunque sia eletto, i semafori continueranno a funzionare, la macchina istituzionale governerà la sua inerzia.

    Z) L’indifferenza verso la politica è una forma di libertà, un lusso, che le società democratiche avanzate si possono permettere.

    ZZ) Il voto è diventata una forma di consumo. Si vota se se ne sente la necessità e fino a quando quel voto viene ritenuto abile a qualcosa.

    ZZ..) Il voto usa e getta esprime una sensibilità diffusa al consumismo della politica.

    Il voto oltre il consumismo è una forma di dipendenza. Il voto come forma di dovere, come feticcio, che il popolo di nessuno avverte sempre meno.

    ZZ.. ) Un tempo, ciascuno aveva bisogno del voto per sentirsi, almeno un po’, sovrano. Ora, è il sovrano che ha bisogno del voto, per sentirsi, ancora un po’, re.

  • Teatrocrazia della Repubblica

    Teatrocrazia della Repubblica

    In Italia nasce la diarchia dell’uno. Contro ogni principio giuridico, i due poteri su cui si è appoggiata l’architrave della democrazia degli ultimi lustri rimangono formalmente differenti ma vengono unificati nello stesso nome.

    La contemporaneità irride i canoni consunti del diritto e della politica. Le regole costituite, i protocolli del diritto e della politica prevedono che il Presidente del Consiglio non possa ricoprire anche la carica di Presidente della Repubblica.

    Nella matematica della realtà l’uno non può diventare due così come il due non diviene uno.

    Nella realtà formale l’Italia non ha ciò che è già nella realtà delle cose.

    Il fatto è che, comunque vada, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica sono Mario Draghi.

    La realtà formale si srotola secondo la Teatrocrazia di platonica memoria. La realtà delle cose invece accade su un piano parallelo, quello di una matematica virtuale in cui si contempla la possibilità che al di là di divenire formalmente l’uno o l’altro –

    Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica – Mario Draghi sia già l’uno e l’altro, uno e bino – Presidente del Consiglio e Presidente della

    Repubblica.

    Per ricoprire le due cariche è indifferente che egli venga eletto Presidente della Repubblica o rimanga alla Presidenza del Consiglio. Chiunque eletto formalmente nella carica non ricoperta da Draghi è un suo avataro.2

    Se anche le due cariche non risultano formalmente ricoperte da lui, sono comunque suoi avatari. L’avataro di Draghi, sia ben inteso, non risponde al suo comando. Non è né un suo clone né un suo ologramma. Draghi, egli medesimo, infatti, è un avataro di Draghi. L’avataro di Draghi ha poco a che fare con le identità posticce dove proliferano improbabili credenze, regni soporiferi e supereroi della frustrazione.

    L’avataro di Draghi nasce dalla realtà dinamica della storia contemporanea la cui vivescenza brilla proprio dove più appare sfinita.

    Il due dell’uno non è l’uno reincarnato. È l’uno che appare anche in forma di due o di tre. In questo caso, è Draghi sia se si chiama come lui, sia se assume altro corpo e nome.

    È ridicolo quando a una singola persona vengono attribuiti i meriti o le infamie di un’intera comunità. Lei, quella persona, a meno dei deliri egoici sempre partoribili, sa bene di essere un avataro di ciò che è inscritto nel suo nome, dell’azione storica che interpreta

    più o meno degnamente. In lei si esprime ciò che intere comunità balbettano sul palcoscenico della storia. Lei, quella persona, pur balbettando e 2 Chiamiamo avataro l’ubiquitaria forma di chi mantiene i suoi caratteri essenziali anche quando muta corpo o nome. L’avataro non è uguale all’originale sia perché l’originale esso stesso di continuo muta sia perché pur nell’ubiquità due cose uguali non esistono.

    incespicando come ha fatto il 17 febbraio 2021 Draghi da Presidente del consiglio chiedendo la fiducia – ricordate? “… in questo momento due milioni sono ricoverati in terapia intensiva” – deve semplicemente risultare, nonostante i propri spasmi e le proprie meschinità, all’altezza di quella storia inscenata davanti ai suoi occhi.

    Draghi e i suoi avatari assumono le forme di un accadere storico che li prescinde incarnandoli. Il vero avataro di Draghi, ciò che lo muove in ogni istante, ha un nome: Italia mundi. L’Italia che non appartiene solo a se stessa ma al mondo intero.3

    La realtà è teatro. Il teatro della realtà non può prescindere dalla realtà, ma è costretto a stargli sempre o troppo avanti o troppo indietro. Vi sono le retroguardie e le avanguardie. La politica sta in retroguardia, asfittica e impotente. Le cose stanno in avanguardia.

    In avanguardia ci sono le Istituzioni, c’è Draghi Presidente del Consiglio e Draghi Presidente della Repubblica. In retroguardia ci sono i politici, i partiti, e il parlamento.

    Nessuno vuole Draghi alla Presidenza della Repubblica, ma siccome nessuno è in grado di decidere chi altro eleggere si finisce per votarlo o si vota un suo avataro.

    Nel caso di un moto improprio, dell’elezione di un partigiano non avataro di Draghi, l’eletto si adegua presto a lui o va a schiantarsi tra Scilla e Cariddi dell’Europa.

    Non è semplice pusillanimità italica. La politica in ogni parte del pianeta è incapace di agire. Reagisce tardi e a fatica solo sul baratro.

    Draghi e i suoi avatari non prenderebbero forma se nella realtà del teatro politico contemporaneo non fossero accadute grandi trasformazioni. In particolare, sul piano internazionale:

    1) Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia suo malgrado svolge un ruolo centrale nell’UE.

    2) L’austerità, anche grazie al generale Covid, non intossica più l’aria europea.

    3 Per questo concetto si rimanda a Europa Mundi, rilasciato da pianetica.org nel settembre 2021

    3) Per effetto di una perdurante inadeguatezza, gli Usa non sono in grado di tenere un profilo d’equilibrio nella situazione internazionale. Il caso Ucraina è eclatante. Eppure, in quel contesto l’avataro di Draghi avrebbe già una proposta: è inutile che l’Ucraina entri nel moribondo involucro della Nato –

    la Russia ha un buon pretesto a chiedere che non vi entri – a condizione che l’Ucraina possa, quando lo vorrà e quando ne avrà i presupposti, entrare nella UE. Nei territori contesi, il modello Alto Adige – riconoscimento delle specificità lingustiche, privilegi anziché discriminazioni nell’appartenere a un Paese d’altra lingua – è pronto ad assicurare pace e prosperità della frontiera.

    4) Tutti gli attori geopolitici che disgraziatamente ancora sgomitano per avere un peso maggiore nelle gerarchie mondiali necessitano di un punto oblativo di contatto e di mediazione. Questo punto oblativo sempre più chiaramente si chiamerà: Europa. Ne hanno bisogno la Russia, la Cina, gli Usa, il mondo intero.

    5) Le crisi planetarie devastanti e ricorrenti non possono essere affrontate secondo gli interessi delle singole parti. Emerge sempre più chiaramente che nessun interesse particolare può essere coltivato prima e contro l’interesse planetario.

    6) Sugli aspetti fondamentali, gli interessi dell’Europa, dunque dell’Italia, coincidono con gli interessi planetari. Europa mundi è Italia mundi.

    7) Ne consegue che all’Italia tocca giocare in Europa lo stesso ruolo che compete all’UE nel resto del pianeta.

    8) In questo momento storico allo spazio geografico chiamato Italia tocca un ruolo mai avuto dai tempi della massima unità di Augusto o della massima frammentazione dei Comuni. Un essere per il mondo al di là della particolarità dell’essere. Ecco la singolarità d’avanguardia – personale, spaziale, temporale

    – ai tempi della Pianetica4.

    Per il concetto di Pianetica si rimanda al libro in uscita: Pianetica, di Pino Tripodi e Giuseppe Genna, Milano 2022

  • Prima dello gnomologio tanatologico.

    Prima dello gnomologio tanatologico.

    Una di noi è penetrato con difficoltà, almeno pari alla lucidità, per non dire al coraggio, e quindi alla paura e all’amore che la rinfocola, quasi la paura ne fosse la carnagione – una di noi è penetrato in territori estremi, dove la mortevita è vitamorte, laddove l’ossigeno sembrerebbe troppo puro e saturante, cosicché a quelle latitudini il respiro si fa quasi impossibile. Come avremmo desiderato essere innervati in polmoni più capaci!, o comunque di fattezze altre, per riuscire a innescare il fiato più ampio, per corroborarci all’aria ultrafina, che rende le nostre

    bisacce più macre e inadatte alle lontananze dei cosmi, in cui avremmo in animo di adattarci. . Terre di gas nobilissimi e impossibili, crotti nei massicci asperrimi. Climi estremi in radure estreme. Asperità geometriche, come quarzi scuri, barbagli di un sole che fatica a penetrare e risplendere, così come fatica a penetrare e risplendere chi di noi è giunto là, dove lo spazio della mortevita e della vitamorte barbaglia e inghiotte. Pare un fuoco freddo e fatuo ciò che ci prende, noi grigie stole nella corona gelida dei territori mutili di tutto, privi di bandiera, poiché nessuno Stato ha qui reclamato la proprietà di lande e monti, di abissi. La Scizia del respiro. Dietro quelle altissime alture squadrate e quei crepacci e orridi non si pensa cosa c’è, lo si conosce soltanto. Ogni Prometeo incatenato, sarà costretto a scatenarsi, prima o poi.

    L’altra di noi, spaventato e riottoso, ha provato l’impresa, ma le forze lo hanno abbandonato. Crede di avere esplorato quei territori, sorvolandoli con le ali del pensiero, parole sibilline gli sono state sussurrate all’orecchio e le mastica e le rimastica negli anni e negli annali, prima di intraprendere il percorso diaccio, la formula delle decreazioni lo atterrisce e la esalta. Tutto è incerto: significa forse che non c’è controllo? Urla, scalpita, punta i talloni, non va dove è andato l’altro, ama

    forse non trascorrere verso il clima geometrico e duro dall’aria tepida in cui è stato finora e che ha il

    calore della guancia e dalla primavera che arrugginisce.

    Il cambiamento climatico.

    L’una di noi, penetrato in quelle terre di follia, torna indietro a riprendere l’altra di noi. Così fanno i compagni di viaggio. Sono fratelli e sorelle, sono padri e madri, sono figlie e figli e tutto ciò assieme, sconvolta ogni forma, esclusa la confusione, che regna sovrana.

    La confusione è sovrana.

    Ricongiuntisi, l’una di noi e l’una di noi annottano in una tenda, male in arnese, attorno al fornello chimico che un minimo di calore garantisce loro, di stare su una porziuncola di terra, di bere un poco di acqua scaldata al fuocherello, di inspirare l’aria non raddensata dal gelo finale.

    Discutono della morte, della vita, della morte della morte, della vita della vita.

    Discordano. S’agitano. Tentano ipotesi, le vedono sbricolarsi come cartigli egizi, lacerti di cartapecora vergati dal popolo emblematico, che ha elaborato per sempre e per mai il proprio universale libro dei morti.

    Si accapigliano, sembrano divorarsi l’un l’altra. Il crepitio delle loro parole incrina l’atmosfera? No.

    Perché, come se fossero vivi, vestiamo i morti?

    Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi, che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi. .

    Ma l’una di noi e l’una di noi confliggono, non credono all’altro e credono a se stessi.

    Questa è la filìa. E’ stare attenti, nella confusione che genera l’accordo e il disaccordo, forme generali che si partoriscono da sé nella filìa. Essere amici della sapienza è anzitutto essere amici. Così come la vita della vita, che è la morte della morte, si illustra nelle forme della vita e negli esiti della morte, anche la filìa, che è sapienza della sapienza e ignoranza dell’ignoranza, si definisce, transitoria e priva di supplica, nelle forme dell’accordo e del disaccordo.

    Siamo in disaccordo nella filìa.

    Un attimo stiamo parlando.

    Della morte diremo, della morte della morte, forse, qualche sillaba in più.

    Stiamo, stanno, estendendo il loro Gnomologio Tanatologico.

    Sono sentenze oscure, sbagliate, sballate, balbettano, sono barbare.

    Qualche sentenza, smozzicata dal viverla, la sentenza, arriverà.

    Non c’è discorso sul cosmo che non contempli la fine del cosmo. Loro sono a quel punto, loro che

    siamo noi.

    Abbiamo detto qualcosa. Abbiamo detto il qualcosa.

  • Res Ponso Abili

    Res Ponso Abili

    Il tema della responsabilità nella questione eutanasica è cruciale. Chi è abile a ponderare le cose ha generalmente l’onere della responsabilità, della risposta con un atto all’evenienza delle cose.

    Il rimpallo delle responsabilità è gioco ottuso nelle moderne selve dell’amministrazione democratica. La decisionalità e l’adecisionalità sono compagne assai frequenti dell’irresponsabilità per cui di norma accade che tutto venga agito nella più grande libertà senza che nessuno risulti responsabile. L’opacità della responsabilità è il frutto conseguente del guazzabbuglio delle regole. La libertà si presenta vieppiù come azione priva di responsabilità. Chi desidera essere libero desidera ancor di più sottrarsi alle responsabilità. Ogni conquista di libertà avviene con più che proporzionale delega della responsabilità.

    Se altrove si percepisce ormai con sufficiente chiarezza, sulla questione eutanasica –

    e in generale nel merito dei rapporti tra individui e Stato – il rapporto tra crescita delle libertà e delega delle responsabilità è eclatante.

    Forse così si assolve il gravoso compito di comprendere come mai, prima ancora di aver sottratto allo Stato il diritto di comminare una forma della

    morte, la società dei buoni scalpita per attribuirgli, con l’eutanasia, di nuovo, il potere di uccidere.

    La società, per sentirsi libera, chiede allo Stato di assumersi l’onere delle responsabilità che i singoli non vogliono più avere.

    Sono tanti i settori nei quali lo Stato è un surrogatore di prestazioni che tolgono ai singoli e alle loro tanto decantate famiglie le responsabilità sociali da cui intendono sottrarsi a tutti i costi.

    Il rapporto tra crescita delle libertà e ipertrofia delle deleghe di responsabilità dello Stato ha una lunga gestazione.

    La solidarietà sociale tra lavoratori per esempio inizia come mutuo soccorso e viene presto delegata e ingabbiata nello Stato e dallo Stato.

    È allo Stato che viene delegata ormai quasi completamente la responsabilità della cura.

    C’è una forma della libertà alla quale viene prestato scarso interesse. È la libertà dalla responsabilità e dalla cura. Si desidera essere liberi di non pulire la casa, di non cucinare, di non accudire i bambini, di non curare i genitori anziani. Si desidera essere liberi da ogni responsabilità. L’emancipazione dalle responsabilità di cura avviene o in forma di pecunia se se ne ha la possibilità o delegando allo stato tutto ciò che è possibile delegare.

    In quella delega ci si svincola dalle responsabilità, inoltre si rimane titolari a pieno titolo del privilegio alla critica, alla lamentela, alla pretesa di ottenere di più, sempre di più non per il servizio in sé, ma per sottrarsi alle responsabilità che moralmente permane come basso continuo di frustrazione e di indicibilità.

    È così che il più assatanato antistatalista non si avvede né della contraddizione né dell’ignominia di pretendere uno Stato ipertrofico.

    Lo Stato è condannato perciò a divenire responsabile delle irresponsabilità dei suoi abitanti. Più liberi pretendono di essere, più lo stato deve cumulare poteri. Ecco il potere di delegare i poteri. In questo Stato ricettacolo della irresponsabilità, ciascuno desidera di essere libero di fare ciò che vuole delegando lo Stato a fare tutto ciò che ciascuno non desidera fare e che non riesce, non vuole o non può pagarsi.

    È nelle corde di ogni libertario. Predicare la morte dello Stato ma renderlo immortale. Desiderare la morte e renderla immortale. Desiderare la vita è considerarla mortale. Volere uno Stato debole, ma nel contempo ipertrofico.

    Così si è liberi dallo Stato solo se si è liberi nello Stato.

    Liberi dalla responsabilità, tronfi nel diritto.

    Vuoti di responsabilità pieni di diritti.

    La deresponsabilità dei singoli accresce la responsabilità dello Stato. E ne nutre l’irresponsabilità e l’orrore.

  • Suicidio eutanasia

    Suicidio eutanasia

    Morte di Stato

    Attivisti d’ogni campo credono disputarsi la morte. Pretendono sapere quando la morte è buona, eutanasia, e quando invece è cattiva, distanosia o cacatonasia.

    Quando è dolorosa, algotanasia, e quando non lo è, analgotanasia.

    Si disputano la morte intuendo la vitalità capitale della partita. In quel sacco terminale, di fatti, si spenge e si illumina ogni anelito di vita.

    In verità si disputano l’aggettivazione della morte, buona-dolce-amara-cattiva, senza porsi il problema

    di definire il sostantivo.

    Che cosa è la morte. Qualcuno se lo domanda più? Domandarselo è forse inutile per la specie che tocca di propria mente il miraggio dell’immortalità. Ma se non si ha un’idea precisa di cosa sia la morte disputarsi quando sarebbe buona e quando invece è cattiva è sterilità pura.

    Tanto più che il tribunale del tempo giudica buono ciò che un tempo non lo era.

    Eutanasia in origine vuol dire buona morte. Ma il termine ha subìto nel tempo un poderoso slittamento semantico.

    Nella Grecia antica per eutanasia si intendeva per lo più la morte naturale, priva di dolore, accettata con animo sereno, perfetto compimento della perfetta vita. La buona morte dell’antichità avveniva per cause naturali, ma accadeva anche come atto volontario o come esito di una vicenda eroica. Il suicida o l’eroe che muore in battaglia non erano esenti da eutanasia. La buona morte li comprendeva.

    Il presupposto etico e teorico dell’eutanasia classica è che il volto della morte assuma le medesime forme della vita. Chi vive nella saggezza è sereno in vita e in morte.

    Affronta con tranquillità ogni evento della vita, anche quello ultimo e definitivo con cui la vita finisce di compiersi. Nell’accadere della morte, il compimento

    della vita deve essere coerente con lo svolgimento dell’intera vita.

    Il presupposto più cogente dell’eutanasia antica è che vi può essere buona morte solo se c’è stata buona vita.

    Purtroppo per il pensiero antico, per fortuna per le società d’ogni tempo, questo presupposto è privo di fondamento. Che i meritevoli in vita meritino una buona morte magari è auspicabile ma non è affatto dato. La fenomenologia della morte può essere coerente con la fenomenologia della vita, e qualche volta lo è, ma solo per caso. I filosofi dell’antichità hanno forzato il caos del caso trasformandolo in una necessità morale. Hanno preteso di costringere l’accadere in griglie etiche e causali destituite d’ogni fondamento.

    Ecco la cornice paradigmatica dell’eutanasia antica:

    Ciò che è deve combaciare con ciò che deve essere.

    Chi ha condotto buona vita è giusto che abbia buona morte e senz’altro l’avrà.

    L’eutanasia è l’atto finale dell’euzoia, della buona vita.

    Chi merita è giusto che consegua il bene in ogni campo, chi demerita invece no.

    Tale cornice paradigmatica – soprattutto nei lati estremi, che impregnano ogni altro sapere – era e rimane una delle dannazioni principali della filosofia.

    Diversamente da quei presupposti, la vita ci dice che, anche secondo i canoni della classicità, vi può essere buona vita e cattiva morte e viceversa non è raro rilevare che a vita cattiva corrisponda una buona morte.

    L’idea che l’eutanasia costituisca un giusto premio per chi ha vissuto nella giustizia e nella bontà è avvelenata dalla premialità.

    Il premio è un riconoscimento del merito solo per chi non ha mai davvero meritato.

    Chi per davvero merita nel premio scruta il trucco, la corruzione, l’ipocrisia. Il premio di chi per davvero merita non è la medaglia al valore o la gratifica. Il premio si compie e si esaurisce nell’atto meritevole, nelle pulsazioni che l’atto meritevole compie per colonizzare i non meritevoli i quali altrimenti continueranno a pretendere premi come risarcimento narcisistico per il congenito demerito del loro agire.

    Dallo stato di morte alla morte di Stato

    Il concetto di buona morte dell’antichità nulla ha a che fare con la contemporaneità.

    In epoca moderna per eutanasia si intende l’atto caritatevole compiuto per porre fine a sofferenze inenarrabili

    e ad atroci agonie.

    Se nell’antichità la buona morte è lo specchio della buona vita, nella contemporaneità l’eutanasia è un espediente per evitare la sofferenza e contrarre verso lo zero il tempo dell’agonia.

    La buona morte della contemporaneità non ha alcun legame con la buona vita.

    Indipendentemente da come ha condotto la propria esistenza, chiunque lo voglia –

    se vive in uno dei paesi che la contempla – ha diritto all’eutanasia. La buona morte non è assegnata solo ai meritevoli, ma è indicato come diritto universale.

    Lo Stato della morte

    Ma la differenza che più interessa il filosofare è: chi è il soggetto comminatore dell’eutanasia.

    Nell’antichità l’eutanasia era propinata dalla natura – vecchiaia – o dalla propria natura

    – suicidio o eroismo.

    Nella contemporaneità l’eutanasia non si ha né per diritto di natura né per inclinazione alla propria natura, ma per diritto eventualmente sancito dallo Stato.

    Ed è lo Stato eventualmente a garantirla, a regolarla e a comminarla.

    In questo acrobatico passaggio – dalla sfera naturale o singolare alla sfera statale – i movimenti eutanasici non ci vedono nulla di male. Non lo ritengono un problema.

    Questo problema – il fatto cioè che l’eutanasia comminata dallo Stato non sia visto come un problema – rischia di essere più importante del problema in sé dell’eutanasia. Come mai e perché non ci si avvede del pericolo tombale che a comminare la morte possa e debba essere lo Stato? Quel medesimo recalcitrante Stato a cui con immensa fatica, e con risultati non ancora del tutto universali, in una

    battaglia che dura millenni, si tenta di sottrarre il potere di comminare la morte a seguito di una condanna.

    La contrarietà verso la condanna a morte deriva da un principio etico immarcescibile: qualunque sia la colpa, chiunque sia il colpevole, nessuno, tanto meno lo Stato, ha diritto di uccidere perché uccidendo si macchierebbe di una colpa superiore. La colpa di esponenziare il torto anziché di ripararlo. La colpa di divenire aguzzino ingrassando il circolo dell’abominio. Gli aguzzini assurti a vittime e le vittime smaniose di passare nel campo dell’aguzzinio.

    Vietandogli la condanna a morte si nega allo Stato il diritto di uccidere. Quel medesimo diritto di uccidere contemporaneamente lo si chiede a gran voce con l’eutanasia non per eseguire una condanna

    ma per evitare una pena non giuridica, il dolore dell’agonia o i morsi inguaribili della malattia. Prima ancora di aver definitivamente sottratto allo Stato il suo potere di uccidere, si pretende che lo Stato sia ripristinato nel suo potere di comminare la morte. Questa iperbolica contraddizione si può giustificare solo con la solita giustificazione che ignora il giusto: il fin di bene giustifica il male. Ciò che risulta deplorevole – la condanna a morte comminata dallo Stato – risulta augurabile se agita a fin di bene. Ma chi decide qual è il bene? E chi decide qual è il fin di bene.

    Il bene e il buono hanno slittamenti semantici repentini. Si trovano a volte con disinvoltura in compagnia dei peggiori dei mali. Ciò non avviene solo per marcata ingenuità. Accade perché il male è mimetico. Niente, nessuno è capace di mimetizzarsi come il male.

    L’eutanasia nel secolo scorso si è ben sposata con l’eugenetica. Eugenetica ed eutanasia rischiano di tornare coppia vincente adesso che la specie ha imparato a dare la caccia a ogni malformazione genetica. Forse avremo geni perfetti, magari diverremo immortali ma per continuare a pretendere l’euzoia, la buona vita, non sarebbe il caso di non assegnare mai più, per nessun altro fine, allo Stato il diritto di uccidere?

    La morte di Stato, per qualunque fine venga comminata,

    è sempre un abominio.

    Salvarsi da quell’abominio è fondamentale se si vuole per davvero alleviare qualsiasi pena, pur anche quella della morte.

    Esiste la buona morte?

    Ma: esiste la buona morte?

    La morte è la morte. Catalogarla come buona o cattiva è errore filosofico di notevoli proporzioni. Meglio fermarsi all’obiettivo ultimo del significato che il termine eutanasia, forzando l’etimologia, ha assunto nella contemporaneità: la morte indolore, privata dalla prolungata sofferenza con cui spesso accade. La placida mors dei latini.

    Se la buona morte non esiste, se esiste la morte (di cui nulla si sa e nulla si può sapere, soltanto si è in grado di percepire essere qualcosa di differente dalla esperienza della comune vita; sulla quale sospendere il giudizio non per pigrizia etica, ma in quanto la morte si sottrae a qualsiasi giudizio) l’eutanasia antica come quella contemporanea è un’aberrazione. Aberrazione che si moltiplica per almeno altre cinque aberrazioni su cui urgerebbe discussione pubblica priva di contesa sulla cittadella dei supposti, nonché fatui, poteri.

    1) Con l’eutanasia si giudica la buona dalla cattiva morte giocando con l’assurdo.

    2) Con l’eutanasia si propina la morte di Stato e a

    comminarla è lo stesso Stato.

    3) Con quale coerenza lo Stato, privato nella gran parte dei paesi dalla pena di morte, propina la morte di sua propria mano?

    4) Se chi viene in nome dello Stato delegato a propinare la morte si rifiuta, diviene, per convinzione o per pretesto, obiettore di coscienza, si potrà lasciarlo libero di obiettare o la sua libertà varrà meno della libertà di praticare l’eutanasia?

    5) Quale libertà vale più di altre libertà?

    Suicidio assistito e analgotanasia

    Anche se l’eutanasia non è affatto buona come si pretende, rimane, tutto intero, il problema di evitare la sofferenza superflua in dipartita.

    Fino a che punto è lecito che un individuo sopporti livelli intollerabili di sofferenza.

    Quando a ciascuno è data la possibilità, se è data, di finire di soffrire?

    Sul final campo meglio evitare di sguazzare nell’ovvio.

    Anche nella sofferenza l’uguaglianza non esiste. Il gradiente di sopportazione della sofferenza è estremamente differenziato. Vi sono persone che non sopportano neanche l’idea di soffrire. Vi sono persone che vivono male nella sofferenza. Vi sono persone che nella sofferenza esprimono il meglio di sé. Vi sono persone che amano soffrire. Non c’è scandalo. Ciascuno ha diritto di vivere al suo livello di sopportazione.

    Chi può sapere veramente se quanto e come si soffre nella dipartita.

    Ciascuno ha diritto di pensare ciò che vuole della vita e della morte, quando inizia la vita e quando comincia la morte, cosa c’è prima della vita e cosa dopo della morte.

    Sul fatal caso, ciascuno ha diritto di tenersi i propri pensieri le proprie idee e le proprie credenze.

    Solo con la forza di tali premesse le parole acquistano senso. Anziché parlare di buona morte meglio parlare dunque di morte indolore, di analgotanasia, posto ma non assodato che il dolore o la sua assenza al momento della dipartita siano comparabili con quelli esperiti nella restante vita.

    Se l’eutanasia è aberrazione meglio optare per il suicidio assistito a condizione che non sia lo Stato a comminare la morte del suicida assistito.

    La differenza tra suicidio e suicidio assistito è

    abissale. Con il suicidio ciascuno può di propria mano infliggersi la morte indipendentemente dalle condizioni di salute.

    Ogni condanna di tal gesto è inutile e presuntuosa, in ogni caso tardiva. Si può

    affrontare il problema del suicidio in chiave pedagogica e sociale, ma qualsiasi singulto moralistico è fuori luogo. Dividersi tra stoici, favorevoli, ed epicurei, contrari, ha scarso senso.

    Il suicidio assistito invece riguarda quei casi nei quali, vista l’intollerabilità della sofferenza, assodata l’assenza di speranza, viene prestato suicidio aiuto senza passare per gli spesso tristi sentieri del suicidio.

    Il suicidio assistito può avvenire in due forme. La prima prevede che il medesimo suicida compia l’atto finale somministrandosi un farmaco o ordinando la fine dell’accanimento terapeutico.

    La seconda, laddove l’atto autonomo risulti impossibile, prevede che altri somministrino il farmaco o ordinino la fine dell’accanimento terapeutico in vece del suicida.

    In quest’ultimo caso: chi deve prestare materialmente aiuto? Chi deve somministrare il farmaco o ordinare la fine dell’accanimento terapeutico? Chi è giusto che si assuma questa responsabilità? A chi

    deve essere richiesta responsabilità così delicata? A un ente estraneo e terzo o a una persona di prossimità? A qualcuno a cui freddamente viene demandata una tecnicalità o a qualcun altro in grado di compiere un gesto caldo e amorevole.

    Non si dovrebbero nutrire dubbi in proposito, ma coltivare certezze. La responsabilità e l’atto del suicidio assistito dovrebbero tangere esclusivamente le persone di maggiore prossimità. Coniugi, figli, parenti, amici indicati preventivamente in testamento biologico e preventivamente d’accordo. Solo in assenza di persone di prossimità andrebbe ricercato un aiuto terzo, di volontari, ma mai dello Stato per mano di suoi funzionari.

    Lo Stato, le strutture mediche, devono solo predisporre che le cose avvengano in modo chiaro e congruo onde evitare confusione e abusi.

    Così tra l’altro si ovvierebbe ai casi, si presume numerosi, di obiezione di coscienza.

    Lo Stato deve essere sottratto con ogni forza al ruolo di comminatore della morte.

    Lo Stato può e deve permettere che il suicidio assistito avvenga. Lo Stato può e deve regolarlo, senza mai comminarlo in proprio.

    Il suicidio assistito è già praticato ma andrebbe diffuso universalmente sottraendolo al privilegio, agli abusi e al lucro.

  • Europa mundi – Pianetica

    Europa mundi – Pianetica

    Europa non è europea. Lo dice il mito.

    L’Europa non è solo europea. Lo chiarisce la storia.

    La geografia lo mostra: Europa è pregna di sconfini che rendono ardui e mutevoli i tentativi di definirla in una sua fisicità. E i mari e l’Atlantico, a suon di flutti, ora la dividono ora la uniscono al suo restante mondo.

    L’Europa è uno spazio alquanto indefinito che smargina il tempo e sopporta le sue slabbrature.

    In summa, l’Europa, che è anche europea, ha nei suoi geni i caratteri di Europa mundi.

    L’Europa esiste solo in quanto è Europa mundi. L’Europa del mondo.

    L’esplodere della crisi afghana ha reso baliosi e incontinenti i lamenti sull’inconsistenza militare dell’Europa, sulla necessità che essa crei un esercito proprio, rafforzi in armi la sua difesa, si metta al pari delle altre grandi potenze per giocare un ruolo analogo nei destini del mondo contemporaneo. Tali posizioni, prive di contraddittorio, nuocciono non solo all’Europa ma al mondo intero e mettono seriamente in pericolo i suoi abitanti.

    Per offrire una diversa chiave al problema, è utile chiedersi:

    Cos’è l’Europa?

    Qual è la sua forza?

    Dove inizia, dove finisce, quando e come si definisce? È uno spazio politico o è una politica dello spazio?

    La politica vive nell’imperituro imbarazzo di misurare l’Europa. Quanto è grande?

    Quanto è piccina?

    L’ossessione per la precisione tiene l’errore in agguato.

    Eppure, è possibile, forse anche conveniente, prendere le misure dell’Europa in modo non autistico, concependole come espressioni di relazione tra l’Europa e il suo mondo che è Europa solo se è l’intero mondo.

    Le misure dell’Europa come unità di relazione anziché come identità assoluta permettono di concepirla grande in grazia della sua piccolezza militare e piccina quando manifesta pruriti di grandezza.

    Al contrario di ciò che il canone politico ritiene, la forza dell’Europa sta nella sua debolezza militare, la sua consistenza strategica è direttamente proporzionale all’inconsistenza dei suoi armamenti, il suo benessere non è limitato dalla sua scarsa forza bellica ma è seriamente messo in pericolo dalla sua,

    per ora solo accennata, volontà di potenza.

    Inoltre, se l’Europa provasse a superare il gap militare con le altre grandi potenze, quanto tempo impiegherebbe? Con quali costi? E nella corsa agli armamenti, non finirebbe dissanguata come l’URSS?

    Ogni soggetto politico ritiene sempre valida l’equazione potere militare=forza economica.

    Ogni soggetto politico desidera aumentare la sua sfera d’influenza ritenendo così di

    ottenere enormi vantaggi competitivi.

    Le sfere d’influenza un tempo cristallizzavano le gerarchie di potere planetario. Ora sono ingiallite mummie dell’impotenza globale.

    Ma l’Europa non è un soggetto politico pari agli altri. L’Europa unita – una prima, larvale espressione dell’Europa a venire – deve il suo potere alla sua flebile potenza bellica. L’Europa unita non nasce da una grande vittoria militare, ma dall’infamia della più grande sconfitta.

    L’Europa unita è resa possibile solo dall’abbraccio tra nemici inceneriti dalle proprie guerre dopo secoli di contesa del medesimo spazio.

    La politica è tarda di memoria. Eppure chiunque, nell’ultimo tempo, abbia puntato sull’intervento militare, ha ricevuto solo reiterate umiliazioni sul campo,

    ottenendo in più solo svantaggi in termini di penetrazione economica e di controllo delle aree geografiche interessate. Di contro, i paesi al riparo dalla competizione militare e dai suoi immensi costi di protezione, hanno avuto ritmi di sviluppo prodigiosi.

    Le macerie sono il mercato ideale per le armi ma il mercato delle armi da almeno un secolo è un’infinitesima parte del mercato totale.

    I mercanti di armi non sono solo stolti assassini, sono anche dei pessimi mercanti.

    Anche l’Europa ha i suoi Afghanistan: tra gli altri, la Siria e la Libia dove più paesi che si pretendono europei hanno pensato stoltamente di inzupparsi nel torbido sicuri di ottenere notevoli vantaggi.

    Dal Vietnam alla Libia, passando per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, gli attori politici del mondo intero si comportano come vivessero ancora ai tempi di Machiavelli. Ma le regole della guerra sono nel frattempo completamente mutate.

    Le vere guerre del presente non si vincono con le armi, anzi si perdono con esse.

    Per vincere davvero una guerra nello spazio terrestre bisogna evitare accuratamente di usare le armi. Solo chi ci riesce può ritenersi vittorioso.

    I contendenti di una guerra a base d’armi sono

    sconfitti già prima di iniziare a combattere indipendentemente dall’esito militare del conflitto.

    Le armi sono solo zavorra di cui liberarsi se si vuole volare.

    È in ambiente extraterrestre lo spazio prediletto delle guerre prossime venture.

    Nello spazio extraterrestre e nel giuoco. Il rapporto tra giuoco e guerra si è invertito.

    Un tempo il giuoco simulava la guerra. Ora è la guerra a simulare il giuoco. Non è più il giuoco a preparare gli umani alla guerra, ma al contrario, la guerra a preparare gli umani al giuoco.

    Per l’economia globale l’esercizio delle armi ha un effetto molto più inibitorio che benefico.

    Per esportare la qualsiasi cosa non servono le armi. Le informazioni in forma di idee, di spettacolo, di bit, di denaro e di relazioni bastano e avanzano.

    Il multipolarismo, il bipolarismo o l’impero non funzionano più. Resistono come antichi retaggi di una storia consunta. Sconfitta irrimediabilmente dalle sue stesse armi.

    L’Europa non è condannata a rimanere un soggetto politico, ma a divenire un vettore pianetico.

    L’Europa vettore pianetico. Cosa vuol dire? Vuol dire che, proprio in virtù della sua inconsistenza militare, l’Europa è costretta a guardare il pianeta da

    altra prospettiva.

    Non come parte in ansia di conquistare il tutto, ma come parte di un tutto interamente da definire e da condividere, oggi, domani e sempre.

    Il carattere dell’Europa è oblativo. Il suo disinteresse è nell’interesse del mondo intero.

    L’Europa per riconoscersi ha bisogno di specchiarsi nel pianeta.

    Ogni altro luogo non può che guardare all’Europa se l’Europa si sottrae allo sguardo proprietario.

    Il Pianeta è uno spazio aperto in cui chiunque è in grado di giocare la sua parte a condizione che tutti possano giocare senza carte truccate dalle armi.

    Non ha senso tentare di esportare la democrazia o di imporre i propri valori. Essi, se hanno sensibilità, affetti e forza diffusiva, si impongono da sé senza bisogno di agenti autoritari e armati a esportarli.

    I valori dell’Europa, ammesso che qualcuno riesca con precisione a definirli, non sono migliori o peggiori di altri. Ciascuno li vede tali solo se indossa gli occhiali dell’identità che rendono ciechi anche i falchi.

    Non c’è bisogno di modelli. Il pianeta si modella secondo le sue volontà che sono

    molteplici, come i suoi valori, e sempre in discussione poiché in perenne gestazione.

    Riconoscersi peggiori o migliori è l’atto principiale del disastro.

    L’Europa non aspira a nessun primato.

    L’Europa è prima in ogni cosa come ogni altra cosa.

    Prima tra tutti i primi resi tali solo se si abbandona la folle voglia di diventare primi degli ultimi o primi fra gli ultimi.

    Non avere alcun primato da salvaguardare o da rivendicare è la condizione fondamentale per divenire primi anche tra non pari. Per divenire prima in tal guisa l’Europa non può che abdicare alla forza militare rendendo così più forte il pianeta sia nel suo insieme sia in ogni singola parte.

    Ciò che si prospetta non è un mero modello pacifista. La pace è la condizione agognata di ogni guerra. Guerra e pace sono gemelli siamesi. Nella contesa chiunque è colpevole tranne i disertori e gli abdicanti.

    La geopolitica dell’Europa fa cilecca.

    La politica, nata in quello spazio definito Europa, qui ha mostrato il suo fallimento.

    Non c’è governo della polis senza governo del pianeta. Ma il governarsi del pianeta non è affare di comandanti militari, di condottieri, di produttori d’armi.

    L’Europa ha bisogno di difendersi. Ma la sua più grande difesa non sono gli eserciti, il nucleare, le armi. La sua difesa massima è l’intelligenza. L’intelligenza che è l’esatto contrario dell’intelligence. Non sono i servizi segreti a tenerla in salvo. Sono invece

    i servizi evidenti.

    Intorno al covid, alle questioni monetarie e al cambiamento climatico Europa mundi ha iniziato molto timidamente a intravedersi.

    Se il pianeta è libero, l’Europa lo sarà. Se il pianeta è salvo, l’Europa non mancherà di godere della sua salvezza. Se il pianeta è ricco, l’Europa non si trastullerà nella miseria.

    L’Europa è la placca dell’idea di mondo necessaria per bloccare la deriva politica di questo come di ogni altro spazio incontinente.

    Europa mundi è terra, oceano, cielo. Europa mundi è in Asia, è Africa. Europa mundi è sponda del mondo intero. È il mondo nuovo di ogni mondo. Ed è il mondo di ogni nuovo mondo.

  • Il comunismo

    Il comunismo

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

  • Vassalli o liberi dagli americani?

    Vassalli o liberi dagli americani?

    Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941. Dopo avergli spedito milioni di emigranti italiani e senza che gli USA ci avessero torto un capello. E pure a tradimento gliel’abbiamo dichiarata, poche ore dopo che avevano subito la coltellata alla schiena dell’attacco a Pearl Harbor.

    E abbiamo perso la guerra.

    Sono arrivati, ci hanno cacciato dall’Africa, ci hanno invaso e alla fine ci hanno sconfitto. E non contenti, ci siamo divisi in due e una metà dell’Italia ha continuato a combattere contro gli americani.

    Chiunque altro ci avrebbe massacrati, triturati nel macinino da caffè e utilizzato la polvere come concime, trasformando l’Italia nel 51° stato dell’unione.

    Invece, non solo non ci hanno massacrati, né hanno massacrato i nostri emigrati. Ci hanno dato una mano a liberarci dai nazisti, ci hanno finanziato la ricostruzione e oggi siamo del tutto liberi di fare domande come questa e di scrivere una marea di risposte e commenti antiamericani che una marea di imbecilli non tarderà a postare.

    Direi che possiamo considerarci alleati. E fortunati.

    Dall’altra parte, sono stati invasi, conquistati, massacrati e occupati. E se qualcuno si azzardava a dire una parola contro i sovietici, finiva per concimare i licheni in Siberia. Non a spargere concime. Proprio lui diventava concime. E oggi con la Russia è lo stesso: se ti va bene finisci in galera, se ti va male ti entrano in casa con i carri armati, dopo una spruzzata di razzi e bombe come aperitivo.

    Direi che quelli erano (e qualcuno lo è ancora) vassalli.

  • Cause guerra Ucraina

    Cause guerra Ucraina

    Lo storico greco Polibio diceva che le guerre hanno tre cause:

    1. La profasis: la scusa raccontata al popolo per giustificare il conflitto e il sacrificio.
    2. L’aitia: la causa effettiva della guerra, riscontrabile spesso in un interesse economico.
    3. L’arché: l’evento o la scusa che porta, in concreto, all’inizio della guerra

    Tali aspetti si possono riscontrare in tutti i conflitti, basti pensare alla prima guerra mondiale. In essa, l’arché (la scusa), è stato l’omicidio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e della moglie ad opera di uno studente serbo. L’aitia, cioè il vero motivo, era il controllo dei Balcani.

    Nella guerra di secessione americana, il motivo apparente (profasis) era la liberazione degli schiavi dal sud del paese, ma la vera ragione era che il nord non riusciva a competere contro i prezzi troppo bassi del sud dovuti alla manodopera gratuita. Inoltre, al nord servivano operai per le industrie e gli schiavi potevano essere una soluzione. L’arché è stata la dichiarazione di indipendenza di alcuni stati meridionali.

    Nell’Unità d’Italia la profasis è stata l’unificazione nazionale, ma l’aitia è stata la paura dell’Inghilterra nei confronti dell’espansione francese verso sud e l’economia sempre più crescente dei Borboni.

    Ora, ritornando all’Ucraina.

    La profasis è la scusa russa di “denazificare” l’Ucraina. Una paura ancora viva in Russia. Una parte dell’Ucraina orientale aveva chiesto l’indipendenza i quanto si sente vicina all’identità russa. Vi furono delle repressioni assai sanguinose con dei crimini contro l’umanità compiuti da Kiev e riconosciuti nel 2016 dall’ONU. Alcuni battaglioni ucraini erano famosi per essere spalleggiati da estremisti di destra. Il presidente Zelensky non ha mai preso le distanze da questi eventi e ciò ha incrementato la profasis.

    L’aitia, il vero motivo, è riscontrabile sul fronte economico. La Russia ha investito molto nella parte orientale dell’Ucraina. Essa è anche la zona più ricca di risorse, come il grano e giacimenti minerali. Possiede i più grandi giacimenti di litio: metallo sempre più richiesto per la realizzazione di batterie. Vi sono anche tante centrali nucleari e parecchia manodopera. Inoltre, vi è il passaggio dei gasdotti, per cui gli ucraini volevano rivendicare il diritti di passaggio.