Categoria: Politica per i nipoti

  • Il dramma di Meloni

    Il dramma di Meloni

    Per chi crede ancora nelle ragioni della buona politica, il Riformista fa un regalo prezioso: le riflessioni di uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: il senatore Rino Formica.

    In molti hanno parlato e scritto di quelle del 25 settembre come di elezioni “storiche”. Lei che la storia politica italiana l’ha vissuta per decenni da protagonista, come la vede?
    In questo Paese diventa storico il suono della sveglia. Quel voto è una sveglia. Il Paese era nell’area della tranquillità, della serenità. Nella politica italiana vi sono due periodi fondamentali: uno fino al ’92 e poi quello dal ’92-’94 e seguenti. Sino al ’92 questa tranquillità di fondo veniva data da un forte rapporto fiduciario tra il cittadino e la democrazia organizzata. Era quasi un rapporto di carattere religioso. È come la fede nella religione. Anche la religione ha un problema di rapporto tra fede e ragione. Nella fase di sviluppo naturale della democrazia in Italia, nei primi 40-50 anni di vita repubblicana, essa era in parte legata alla ragione delle classi dirigenti e in parte alla fede di massa. Il legame tra fede di massa e ragione delle classi dirigenti portava ad una sintesi tra fede e ragione. Questo si è rotto all’inizio degli anni ’90.

    Perché senatore Formica?
    Perché è venuto meno il sistema di rete della democrazia organizzata. Questa mancanza di rete della democrazia organizzata è stata interpretata dalle classi dirigenti, che si sono immediatamente adeguate al nuovo corso dimostrando così tutta la natura profonda dell’opportunismo e del trasformismo di cui erano intrise ma che era coperto da una condizione che era propria della democrazia organizzata, e così abbiamo avuto un progressivo distacco tra masse popolari e non solo la democrazia organizzata nell’interno del sistema ma un distacco con le istituzioni. Questo distacco dalle istituzioni non modificava le condizioni di diseguaglianza di carattere economico, sociale, civile e territoriale del Paese. Quelle restavano tutte in piedi e questo in un mondo che stava cambiando con la globalizzazione. E la globalizzazione portava a un nuovo e diverso livello le conoscenze di massa in sede globale. L’elemento della coscienza per via di conoscenze da parte delle masse nel mondo, non aveva però un elemento coagulante e unificante su scala globale. Perché su scala globale restava unificante la forza impetuosa del capitalismo che sganciato dai compromessi nazionali diventava sempre di più una forza di un imperial capitalismo. Questo imperial capitalismo era sbilanciato. Perché da una parte era l’imperial capitalismo tutelato da minoranze detentrici del potere dell’ineguaglianza nella società e dall’altra parte vi erano le grandi masse che prendevano coscienza che non era sufficiente la presenza ma il protagonismo per cambiare le condizioni andando al cuore del capitalismo imperiale. Tutto questo poneva un problema…

    Quale?
    Il problema che quello che era stato detto e gabellato e cioè che la società evolvendo, il progresso di carattere economico e la diffusione del benessere nel mondo sia pure in parti ineguali, spegneva la lotta di classe. La lotta di classe c’è. Sicuramente è più complicato poterla interpretare e poterla guidare perché le classi non sono più regolabili in un conflitto sociale su base nazionale ma su base universale dove le lotte di classe sono differenziate, ineguali e diverse tra di loro. E qui nasce il problema.

    Di che problema si tratta?
    Se si osserva bene, si coglie il fatto che le uniche forze che hanno un elemento di unificazione a livello sovranazionale sono le grandi religioni. Le grandi religioni hanno percepito questo elemento di inquietudine generale. Il mondo è inquieto. Cosa vuol significare il Papa quando dice che bisogna cambiare il modello di sviluppo? Questo era il linguaggio che negli anni ’70 era degli extraparlamentari. Cambiare il modello di sviluppo. Cioè si pone il problema della inadeguatezza dell’imperial capitalismo. Ma le religioni non sono in condizioni di condurre una lotta politica perché per condurre una lotta politica le religioni devono perdere il loro carattere universale e diventare nazionali. Come lo è diventata improvvisamente la Chiesa ortodossa russa che ha dovuto perdere il carattere universale e ha dovuto affermare, per diventare nazionale, che c’è una sanatoria dei peccati se vai a combattere in Ucraina. Resta il fatto, enorme, che le religioni universali pongono il problema non solo dell’inadeguatezza ma della ingiustizia intrinseca, strutturale, di quei processi politici, economici e sociali che non soltanto non hanno attenuato le condizioni dell’ineguaglianza ma che hanno esasperato le vecchie ineguaglianze e creato delle nuove. Qui sta la crisi della politica e delle sue forme organizzate. Il non essere all’altezza di questa sfida del cambiamento globale e globalizzato. D’altro canto la storia del Novecento sta lì a ricordare che il capitalismo quando si è trovato in difficoltà è diventato repressivo e guerrafondaio. E questo può accadere anche con l’imperial capitalismo che, messo alle strette o comunque in difficoltà, trova la soluzione della guerra. Noi ci troviamo di fronte al rischio che la riflessione di carattere politico generale della nuova globalizzazione delle conoscenze, che potrebbe spingere l’umanità a creare delle forze internazionaliste di organizzazione delle condizioni umane differenziate che ci sono nella società, i deboli con i deboli contro i forti che sono una minoranza non solo nelle realtà nazionali ma sempre più minoranze nell’assetto globale, si possa bloccare questo processo di riflessione attraverso una espansione del conflitto oggi in Europa e domani chissà dove.

    Quelle che lei ha fin qui sviluppato sono riflessioni di portata epocale. Ma venendo alla politica italiana, lei non ritiene che una sinistra o comunque una forza progressista, il Pd, per provare a ritrovare ragione di sé proprio su queste grandi tematiche dovrebbe cimentarsi e non avvitarsi nella spirale mortifera di una resa dei conti sul nuovo segretario?
    Ma porta su di sé il peso enorme di trent’anni in cui ha sposato la linea dello svuotamento del sistema politico. La sinistra è stata artefice dello svuotamento politico del sistema. E qui sta il suicidio politico. Perché lo svuotamento politico del sistema colpiva innanzitutto la sinistra.

    Perché, senatore Formica?
    Vede, i conservatori hanno una politica oggettiva che cammina da sé. Conservare l’esistente. A sinistra la politica è intrecciata indissolubilmente al cambiamento. E quando questa politica viene meno all’interno del sistema, viene meno l’esigenza del cambiamento e con essa la sinistra stessa. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, l’interrogativo attorno al quale provare a sviluppare una riflessione collettiva dalla quale dipende l’esistenza stessa futura della sinistra, è perché la sinistra è andata progressivamente perdendo consenso, entusiasmo, passione, capacità di essere forza creativa nella società, capace di modificare, di innovare, di riformare. Perché?

    Una domanda “esistenziale”. Qual è la sua di risposta?
    Perché si è lasciata guidare dalla destra. Il minimalismo sociale è una scelta ideologica. Il minimalismo sociale non può non produrre che il populismo massimalista. L’indifferenza istituzionale non può non provocare che l’abbandono della via democratica alla costruzione del proprio sistema di vita e all’ingresso di forze dominanti che finiscono per diventare prima reazionarie e poi repressive. Ecco perché hanno ragione coloro che dicono che la responsabilità non è del gruppo dirigente in carica nel momento dell’ultima clamorosa sconfitta della sinistra. La responsabilità è di tutta quanta la classe dirigente, il ceto politico dominante della sinistra da trent’anni a questa parte, accumulando una serie impressionante di errori. Alcuni dei quali sono partiti non con la consapevolezza dell’errore ma come una furbizia per mimetizzare la propria determinazione di rovesciare il tavolo senza che nessuno se ne accorgesse, spacciando una presunta furbizia per machiavellica capacità tattica. Ma alla fine la legge bronzea della quotidianità del vivere ha fatto sì che il trasformismo delle classi dirigenti sia diventato un trasformismo per adeguamento e per rassegnazione delle masse popolari. Ma di questo non possono godere neanche i vincitori di queste elezioni, cioè Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Vuol sapere qual è il vero dramma della Meloni?

    Sono tutto orecchie, senatore Formica.
    Lei avrebbe avuto tanto, ed era attrezzata per poterlo fare, un gran desiderio di poter essere l’Evita Peron della socialità di massa populista in Italia. Ma sarà condannata dalla forza delle cose ad essere una burbera Thatcher senza neanche avere l’autonomia della guida. Perché la guida spetta ad altri. Su sede sovranazionale. Ne vuole la prova?

    Certo che sì.
    Questa maggioranza si riunirà il 13 ottobre. Con la maggioranza che ha, con il tempo che ha avuto per ristabilire l’ordine al proprio interno, per avere la certezza di una maggioranza di governo, in tre giorni Meloni avrebbe potuto definire gli organismi dirigenti interni, eleggere i suoi organi di rappresentanza in Parlamento, avere l’incarico dal Presidente della Repubblica e presentare in ventiquattr’ore il nuovo Governo. Sarebbe stato un gesto corrispondente al superamento di una legge elettorale balorda. Almeno si poteva dire di lei che in tre-quattro giorni aveva saputo eleggere gli organi per l’efficienza del Parlamento e gli organi di Governo del Paese. Invece no. Il “lord protettore” le ha detto che il 20 di ottobre alla riunione dei capi di Governo dell’Unione Europea va lui. E che la campanella passerà di mano alla fine di ottobre. E la Meloni non ha risposto con l’orgoglio di una maggioranza indicata dal voto popolare, sia pure con una legge balorda, e insediata in Parlamento, col dire: no il 20 ci sarà probabilmente il nuovo Governo e a quella riunione ci sarò io che di quel Governo sarò la premier.

    Quando fa riferimento al “lord protettore” della premier in pectore, il suo nome e cognome è Mario Draghi.
    Mario Draghi adesso ma chi per lui domani. Un “lord protettore” che guiderà la destra italiana a stare nel solco del conservatorismo parassitario europeo ci sarà comunque. È la funzione che conta non il nome di chi sarà chiamato ad esercitarla. Noi siamo sotto protettorato. Oggi il “lord protettore” più credibile sul piano internazionale e più disponibile per il momento è Draghi. E probabilmente lo sarà. Sicuramente per il primo semestre di questo Governo.

  • La dettatura europea

    La dettatura europea

    Sovente viene evocata a sproposito la nozione di dittatura: dittatura sanitaria, dittatura di Bruxelles…

    La dittatura evocata esprime il timore pallido – non la convinzione granitica – che il potere politico si concentri in un solo organo o in una sola persona.

    Al timore agito enfaticamente e demagogicamente su ogni genere di media si accompagna tutto un lamento inscenato e insensato sul bisogno di politica e sui guasti dell’antipolitica. La politica viene richiesta a gran voce come nobile rimedio per ogni situazione mentre è essa, la politica, la causa di tanti problemi. Il motivo è semplice: la politica è organicamente incapace di far fronte alle questioni preminenti della contemporaneità i quali necessitano di uno sguardo largo e cooperativo, pianetico, non dello sguardo miope e proprietario tipico della politica. [1]

    La politica non è una leva di progresso, ma solo una componente macchinale e consunta dell’organizzazione sociale.

    La nozione di dittatura poco serve a visualizzare l’immagine dei poteri politici presenti, non solo in Europa.

    Più utile potrebbe risultare la nozione di dettatura.

    Per quanto abbiano delle affinità linguistiche e musicali, la dettatura è ben diversa dalla dittatura ma non è di minore importanza.

    Differentemente dalla dittatura, la dettatura indica una situazione nella quale le decisioni da prendere sono storicamente segnate. La dettatura è indifferente agli organi o alle persone, si enuncia con le cose in divenire, con le cose da realizzare indipendentemente dalle persone che la interpretano.

    La dittatura nasce da uno stato incerto e dalla speranza che la forza ( di una persona o di un partito) sia in grado di risolvere i problemi.

    La dettatura nasce invece dallo stato di certezza e dalla sicurezza che la strada intrapresa sia in grado, se non proprio di risolvere i problemi, di affrontarli al meglio secondo i canoni costituiti.

    La dittatura concentra il potere e lo personalizza.

    La dettatura al contrario rende possibile la massima diffusione del potere e ne istituzionalizza la parte macchinica, politica.

    La dittatura annulla la democrazia distruggendo tutti i suoi riti. 

    La dettatura è una più alta forma di democrazia perché mantiene intatti i suoi riti e rende possibile il massimo potere diffuso del demos sottraendogli ed evitandogli la responsabilità e la noia della decisione della macchina politica.

    La dittatura arriva dove la democrazia perisce.

    La dettatura dove la democrazia mantiene i suoi riti anestetizzandone gli spasmi.

    La dettatura non si fonda sul primato degli uomini, ma su quello delle cose.

    La dettatura è amnio e alveo entro cui si decidono e si producono le cose quando il cammino è ben segnato.

    La dettatura non è un limite della macchina politica o il canto del cigno della democrazia, ne è invece il  rituale compimento.

    L’indifferenza alla politica sotto il regime della dettatura non marca la generale insensibilità, anzi può avvenire in presenza di una sensibilità sociale diffusa capace di esprimersi in tutti gli altri campi della vita vivente.

    Nell’epoca della dettatura, la politica si muove entro binari definiti. Finché questi binari assicurano l’esercizio del potere diffuso, il potere rituale del popolo – i rappresentanti, le elezioni, le istituzioni – è salvo.

    La dettatura è dunque la forma che il potere politico assume quando la direzione è certa. In Italia e in Europa, in questo momento, l’orizzonte è chiaro.

    Ciò che occorre fare, ciò che si può fare, è già interiorizzato dalla macchina istituzionale che è avviata nella sua direzione.

    L’Italia è sotto dettatura. Comunque vadano le cose, per chiunque si voglia votare, il regime della dettatura comporta che le cose proseguano il loro corso nell’alveo già fissato da almeno 6 anni.

    L’amnio della dettatura è segnato:

    1. dal nuovo corso dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno unito;
    2. dal ruolo di leadership che il Paese inevitabilmente deve avere in Europa;
    3. dal ruolo autonomo e pianetico che l’Unione europea inevitabilmente assume;
    4. dalla crisi climatica;
    5. dall’asimmetria demografica.

    Tali priorità rendono fantasmatiche le frontiere e necessiterebbero di una visione pianetica, la quale impone una totale messa in mora dei paradigmi della politica.

    In assenza di una visione pianetica, i governi sono costretti a comportarsi seguendo, magari in modo acefalo e tortuoso, l’onda.  Quando deviano dalla direzione di marcia sono costretti – dopo aver sbattuto contro la realtà delle cose – non da qualcuno ma da quella medesima direzione a riseguitare il cammino. In questo caso, mancando alla politica – per intrinseca deficienza – la capacità d’interpretare la direzione e di seguirla, tocca alle istituzioni dettare le regole, istituzioni generalmente guidate da persone indipendenti dalla politica o che si rendono tali in forza del loro ruolo istituzionale.

    La dettatura diviene il luogo della decisione effettiva al di là di ciò che deciderebbe la politica e in forza della sua impotenza.

    In regime di dettatura, alla politica tocca solo l’indispensabile ruolo di confermare tramite tutti i rituali del voto le decisioni già dettate dalle forza delle cose.

    L’Italia vive da tempo sotto la dettatura di Mattarella e di Draghi, ma anche in loro assenza la dettatura rimarrebbe in vigore. Solo in caso di rivolgimento regressivo e funesto della situazione la dettatura verrebbe meno.

    In caso di shock – uscita dall’UE e dall’Euro, indifferenza ai problemi climatici, distruzione dei diritti civili, guerra ai migranti -, quando si rischia che il cammino prestabilito venga disarcionato, allora si comincerebbe a sentire il lezzo della dittatura.

    Dettatura, democrazia e libertà

    L’Italia e l’Europa sono sotto dittatura? Ha ancora senso che ci siano le elezioni? Qualcuno pensa ancora di votare veramente? Se sì, per chi? Per che cosa? Gli eletti hanno voce in capitolo?

    E il parlamento, è in grado di decidere qualcosa?

    Tutte legittime domande poste ogni qualvolta in Europa si replica l’indispensabile benché esausto rito delle elezioni.

    Esausto perché privo di pathos, privo di passione, incapace di elevare anche il meno nobile impeto dell’animo umano, capace solo di intercettare qualche profanissimo interesse della mediocrità generale. Rito stancamente riprodotto su scene calcate da attori stinti, improvvisate passerelle di transeuntissimi protagonisti dell’ultima chiacchiera di cortile, pessimi presunti salvatori di patrie ormai estinte.

    Tutto questo orrifico circo della politica prolifera tra annoiati commentari ma anche tra estese voci che ostentano indignazione mentre piluccano nella consunzione generale.

    La storia quando è esausta non abbandona facilmente i riti. Spesso li conserva anche quando risultano botulinosi.

    Non è sragione la sua, anzi è raziocinio puro. I riti della politica infatti tanto sono esausti tanto risultano essere ancora indispensabili.

    La domanda alla quale occorre rispondere è proprio questa: perché ciò che esausto anziché perire in fretta prolunga all’infinito la sua agonia?

    La sfinitudine della politica si esprima con la massima impotenza nel rito elettorale.

    Nel rito elettorale non c’è la festa, non c’è l’attesa. L’entusiasmo non è di casa illo tempore.

    Per ridare un po’ di carica fibrillatoria alla noia elettorale ci sarebbe bisogno di qualche pallida o effettiva paura (il fascismo alle porte, l’aborto cancellato, l’invasione dei migranti).

    In effetti, in Francia, in Italia, in Svezia o altrove si è vista qualche minimale paura all’opera, ma poi inevitabilmente la paura sfuma in fretta. Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nelle ultime elezioni, dopo qualche spasmo digitale, si rimette in carreggiata. La marcia della democrazia riprende a macinare i suoi felpati passi lungo il cammino della dettatura.

    Tutto sembra inutile, eppure tutto rimane così indispensabile. Perché?

    Perché, per quanto decerebrato, è nel rito elettorale che si coglie il carattere indispensabile della democrazia.

    Senza libere elezioni non c’è democrazia. Senza democrazia niente libere elezioni.

    La democrazia è nota per essere il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri.

    Nonostante tutti i suoi limiti, non c’è regime politico migliore della democrazia. La democrazia è la più alta forma di politica. Lo è perché tutti i suoi ciclopici limiti intrinseci anziché assassinarla la rafforzano.

    La democrazia è il regime politico che rende possibile sentirsi universalmente liberi. Sentirsi liberi equivale a essere effettivamente liberi? Ovviamente no.

    È il sentirsi liberi al di là dell’esserlo effettivamente.

    Nella democrazia tutto può essere deciso finché le masse pensano di deciderlo tramite il voto.

    Il voto, questo esausto rito, è lì a dimostrare che la libertà è data proprio nel momento in cui essa viene meno.

    La democrazia è il regime della facoltà. La facoltà, in questo regime, conta più dell’effettività. La facoltà di votare, per esempio, conta più del voto. In effetti, una parte considerevole della popolazione non esercita il suo diritto.

    Nella facoltà si esprime l’intima connessione tra la simulazione e la realtà, tra la rappresentazione e l’espressione.

    La rappresentazione elettorale simula l’espressione sociale senza mai poterla realmente compiere.

    Tanto più la simulazione si tiene in vita tanto più l’espressione sociale è attiva.

    La simulazione – per quanto marginale –  è parte costitutiva della realtà. 

    La libertà ha a che fare con la facoltà. Essa si esprime nel suo esercizio, ma si esalta quando l’esercizio viene sospeso da chi lo possiede. La libertà non si esprime quando si ha l’obbligo di esercitarla ma quando è  facoltà che può non essere esercitata. Non c’è musica senza silenzio.

    La facoltà di votare fa sentire liberi, ma il non esercizio del voto – volontario, autonomo da ogni prescrizione – non è contrario della libertà, né la limita, tutt’altro. Ne è semmai intima espressione, privilegio afferente a chi presume che l’inesercizio del voto non metta in alcun modo a rischio il resto delle facoltà.

    L’indifferenza verso la politica nella contemporaneità, anziché marcare, come i più ritengono, l’insensibilità generale della popolazione, esprime questo privilegio. Simile privilegio si manifesta – soprattutto tra la popolazione giovane – riguardo alle attività e al tempo di lavoro.  Anche la scelta tra lavorare e non lavorare, tra attività autogestite o eterodirette, con tempi di lavoro limitati o espansi a tutta la giornata biologica va a marcare il tempo presente.

    La libertà esiste se c’è possibilità di scelta. La prima opzione – votare o non votare – non inibisce la libertà, anzi la esalta.

    Chi non vota perché non desidera esercitare la facoltà non è detto che si senta meno libero di chi si comporta in modo avverso, anzi.

    L’indifferenza verso il voto e verso la politica – anche se è espressione di variegatissime situazioni – indica comunque una diversa concezione della libertà.

    Tale concezione può esprimersi con due metafore, dei semafori e dei pompieri.

    Ciò che interessa alle persone comuni – ciò che le fa sentire libere, ciò che permette loro di essere libere – è che i semafori funzionino e che i pompieri intervengano celermente in caso d’incendio.

    Una volta tranquilla sui semafori e sui pompieri, chiunque può concentrarsi sui suoi interessi, sulla sua vita, indifferente al chiacchiericcio politico.

    Ma questo sentirsi liberi ha davvero a che fare con la libertà?

    Chi si sente libero non è detto  che non lo sia.

    Si sente libero chi crede di sviluppare i propri interessi, le proprie attitudini senza subire pregiudiziali limitazioni esterne.

    Chi si sente libero certamente lo è, ma ben al di sotto di quanto presume, ben meno delle reali possibilità. È libero fino ai limiti imposti dalla situazione. Se oltrepassa i limiti, se li vìola, se li sfida, la sua libertà se ne va a ramengo.

    La politica è un limite alla libertà o è una sua leva?

    La democrazia è il regime peggiore, esclusi gli altri, perché il potere del demos – che ufficialmente viene esercitato per suo conto dai rappresentanti o si esercita in modo diretto – rimane in buona parte al demos. Quel demos che delega volentieri la parte politica del potere come escamotage per trattenere tutto il resto.

    La democrazia permette che l’esercizio del potere diffuso marginalizzi nella società e nell’esperienza della vita singolare il ruolo della politica.

    Quel demos indistinto che ha interessi, passioni, gusti attitudini, attributi, comportamenti estremamente variegati. Più questa variegazione è in grado di esprimersi, meno è importante il potere sul demos. La politica si sgonfia in misura proporzionale alla crescita di questa variegazione.

    Tutto questo insieme esprime il vero status del potere contemporaneo. Intenderlo ancora come attributo unico o preponderante della politica è anticaglia priva di qualsiasi valore.

    Il potere diffuso è il miglior antidoto contro il potere politico.

    Alla politica rimane di governare a fatica soltanto la sua incapacità di governare. 

    La dittatura è l’espressione più nefasta della politica.

    La dettatura è un bagno di luce sul suo tramonto.

    Il tramonto della politica annuncia la necessità della pianetica.

    La dettatura è la fase necessaria e transitoria tra la politica e la pianetica.


    [1] Per approfondire la differenza tra la nozione di Politica e quella di Pianetica, vedasi Lettera al Presidente Putin, maggio 2022, rilasciata dalla news letter di Pianetica, e Pino Tripodi – Giuseppe Genna, Pianetica, febbraio 2022, libro autoprodotto disponibile al link https://milieuedizioni.it/product/pianetica/

  • Il discorso di Draghi

    Il discorso integrale di Mario Draghi in Senato
    Nel suo discorso programmatico chiede unità, fiducia e coesione e traccia la rotta dell’azione di governo su alcuni punti fermi: accelerare il piano vaccinale, affrontare con misure immediate l’emergenza economica e sociale, usare al meglio le risorse del Recovery Fund seguendo le linee segnate da Bruxelles su digitale e ambiente
    tempo di lettura: 47 min
    MARIO DRAGHI SENATO
    aggiornato alle 11:29
    17 febbraio 2021
    discorso integrale mario draghi senato
    © Monaldo Pool / AGF – Mario Draghi
    Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini.
    Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno. Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo.
    Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini di con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole.
    Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour:”… le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività.
    Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia.
    Dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività
    Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato.
    La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese.
    Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità.
    Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo
    Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza.
    Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato.
    Questo è lo spirito repubblicano del mio governo.
    La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo. Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione. L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro.
    Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura
    Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto. Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.
    Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.
    Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro
    Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.
    Lo stato del Paese dopo un anno di pandemia
    Da quando è esplosa l’epidemia, ci sono stati — i dati ufficiali sottostimano il fenomeno — 92.522 morti, 2.725.106 cittadini colpiti dal virus, in questo momento 2.074 sono i ricoverati in terapia intensiva. Ci sono 259 morti tra gli operatori sanitari e 118.856 sono quelli contagiati, a dimostrazione di un enorme sacrificio sostenuto con generosità e impegno. Cifre che hanno messo a dura prova il sistema sanitario nazionale, sottraendo personale e risorse alla prevenzione e alla cura di altre patologie, con conseguenze pesanti sulla salute di tanti italiani.
    L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali.
    La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento.
    Si è anche aggravata la povertà. I dati dei centri di ascolto Caritas, che confrontano il periodo maggio-settembre del 2019 con lo stesso periodo del 2020, mostrano che da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che oggi si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Tra i nuovi poveri aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, degli italiani, che sono oggi la maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa, di fasce di cittadini finora mai sfiorati dall’indigenza.
    Il numero totale di ore di Cassa integrazione per emergenza sanitaria dal 1 aprile al 31 dicembre dello scorso anno supera i 4 milioni. Nel 2020 gli occupati sono scesi di 444 mila unità ma il calo si è accentrato su contratti a termine (-393 mila) e lavoratori autonomi (-209). La pandemia ha finora ha colpito soprattutto giovani e donne, una disoccupazione selettiva ma che presto potrebbe iniziare a colpire anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
    Il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi
    Gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza. In assenza di interventi pubblici il coefficiente di Gini, una misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sarebbe aumentato, nel primo semestre del 2020 (secondo una recente stima), di 4 punti percentuali, rispetto al 34.8% del 2019. Questo aumento sarebbe stato maggiore di quello cumulato durante le due recenti recessioni. L’aumento nella diseguaglianza è stato tuttavia attenuato dalle reti di protezione presenti nel nostro sistema di sicurezza sociale, in particolare dai provvedimenti che dall’inizio della pandemia li hanno rafforzati. Rimane però il fatto che il nostro sistema di sicurezza sociale è squilibrato, non proteggendo a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi.
    Le previsioni pubblicate la scorsa settimana dalla Commissione europea indicano che sebbene nel 2020 la recessione europea sia stata meno grave di quanto ci si aspettasse — e che quindi già fra poco più di un anno si dovrebbero recuperare i livelli di attività economica pre-pandemia – in Italia questo non accadrà prima della fine del 2022, in un contesto in cui, prima della pandemia, non avevamo ancora recuperato pienamente gli effetti delle crisi del 2008-09 e del 2011-13.
    La diffusione del Covid ha provocato ferite profonde nelle nostre comunità, non solo sul piano sanitario ed economico, ma anche su quello culturale ed educativo. Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli nelle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la Didattica a Distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Un dato chiarisce meglio la dinamica attuale: a fronte di 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, nella prima settimana di febbraio solo 1.039.372 studenti (il 61,2% del totale) ha avuto assicurato il servizio attraverso la Didattica a Distanza.
    Le priorità per ripartire
    Questa situazione di emergenza senza precedenti impone di imboccare, con decisione e rapidità, una strada di unità e di impegno comune.
    Il piano di vaccinazione. Gli scienziati in soli 12 mesi hanno fatto un miracolo: non era mai accaduto che si riuscisse a produrre un nuovo vaccino in meno di un anno. La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente.
    Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private. Facendo tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati. E soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus.
    Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari
    Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La “casa come principale luogo di cura” è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata.
    La scuola: non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà.
    Occorre rivedere il disegno del percorso scolastico annuale. Allineare il calendario scolastico alle esigenze derivanti dall’esperienza vissuta dall’inizio della pandemia. Il ritorno a scuola deve avvenire in sicurezza.
    È necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni
    È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo.
    Infine è necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni.
    In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. E’ stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate.
    La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici. Occorre infine costruire sull’esperienza di didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza.
    Oltre la pandemia
    Quando usciremo, e usciremo, dalla pandemia, che mondo troveremo? Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così.
    Il riscaldamento del pianeta ha effetti diretti sulle nostre vite e sulla nostra salute, dall’inquinamento, alla fragilità idrogeologica, all’innalzamento del livelllo dei mari che potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili. Lo spazio che alcune megalopoli hanno sottratto alla natura potrebbe essere stata una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo.
    Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo
    Come ha detto papa Francesco “Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore”.
    Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane.
    Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno cambiare. Ad esempio il modello di turismo, un’attività che prima della pandemia rappresentava il 14 per cento del totale delle nostre attività economiche. Imprese e lavoratori in quel settore vanno aiutati ad uscire dal disastro creato dalla pandemia. Ma senza scordare che il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato.
    Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Questa osservazione, che gli scienziati non smettono di ripeterci, ha una conseguenza importante. Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Acune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi.
    A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro
    La capacità di adattamento del nostro sistema produttivo e interventi senza precedenti hanno permesso di preservare la forza lavoro in un anno drammatico: sono stati sette milioni i lavoratori che hanno fruito di strumenti di integrazione salariale per un totale di 4 miliardi di ore. Grazie a tali misure, supportate anche dalla Commissione Europea mediante il programma SURE, è stato possibile limitare gli effetti negativi sull’occupazione. A pagare il prezzo più alto sono stati i giovani, le donne e i lavoratori autonomi. E’ innanzitutto a loro che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro, strategia che dovrà coordinare la sequenza degli interventi sul lavoro, sul credito e sul capitale.
    Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito.
    Il cambiamento climatico, come la pandemia, penalizza alcuni settori produttivi senza che vi sia un’espansione in altri settori che possa compensare. Dobbiamo quindi essere noi ad assicurare questa espansione e lo dobbiamo fare subito.
    La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create.
    Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta.
    Parità di genere
    La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo.
    Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge
    Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro.
    Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese.
    Il Mezzogiorno
    Aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, investire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite. Vi sono poi strumenti specifici quali il credito d’imposta e altri interventi da concordare in sede europea.
    Per riuscire a spendere e spendere bene, utilizzando gli investimenti dedicati dal Next Generation EU occorre irrobustire le amministrazioni meridionali, anche guardando con attenzione all’esperienza di un passato che spesso ha deluso la speranza.
    Gli investimenti pubblici
    In tema di infrastrutture occorre investire sulla preparazione tecnica, legale ed economica dei funzionari pubblici per permettere alle amministrazioni di poter pianificare, progettare ed accelerare gli investimenti con certezza dei tempi, dei costi e in piena compatibilità con gli indirizzi di sostenibilità e crescita indicati nel Programma nazionale di Ripresa e Resilienza. Particolare attenzione va posta agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio, incoraggiando l’utilizzo di tecniche predittive basate sui più recenti sviluppi in tema di Intelligenza artificiale e tecnologie digitali. Il settore privato deve essere invitato a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.
    Next Generation EU
    La strategia per i progetti del Next Generation EU non può che essere trasversale e sinergica, basata sul principio dei co-benefici, cioè con la capacità di impattare simultaneamente più settori, in maniera coordinata.
    Dovremo imparare a prevenire piuttosto che a riparare, non solo dispiegando tutte le tecnologie a nostra disposizione ma anche investendo sulla consapevolezza delle nuove generazioni che “ogni azione ha una conseguenza”.
    Come si è ripetuto più volte, avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni.
    Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti
    Queste risorse dovranno essere spese puntando a migliorare il potenziale di crescita della nostra economia. La quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo tramite la principale componente del programma, lo Strumento per la ripresa e resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica.
    Il precedente Governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma di ripresa e resilienza (PNRR). Dobbiamo approfondire e completare quel lavoro che, includendo le necessarie interlocuzioni con la Commissione Europea, avrebbe una scadenza molto ravvicinata, la fine di aprile.
    Gli orientamenti che il Parlamento esprimerà nei prossimi giorni a commento della bozza di Programma presentata dal Governo uscente saranno di importanza fondamentale nella preparazione della sua versione finale. Voglio qui riassumere l’orientamento del nuovo Governo.
    Le Missioni del Programma potranno essere rimodulate e riaccorpate, ma resteranno quelle enunciate nei precedenti documenti del Governo uscente, ovvero l’innovazione, la digitalizzazione, la competitività e la cultura; la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva.
    Dovremo rafforzare il Programma prima di tutto per quanto riguarda gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano.
    Obiettivi strategici
    Il Programma è finora stato costruito in base ad obiettivi di alto livello e aggregando proposte progettuali in missioni, componenti e linee progettuali. Nelle prossime settimane rafforzeremo la dimensione strategica del Programma, in particolare con riguardo agli obiettivi riguardanti la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G.
    Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione.
    Nella sanità dovremo porre le basi per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina
    In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti.
    Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021.
    Chiariremo il ruolo del terzo settore e del contributo dei privati al Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza attraverso i meccanismi di finanziamento a leva (fondo dei fondi).
    Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro
    Nella sanità dovremo usare questi progetti per porre le basi, come indicato sopra, per rafforzare la medicina territoriale e la telemedicina.
    La governance del Programma di ripresa e resilienza è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti che definiscono le politiche e i progetti di settore. Il Parlamento verrà costantemente informato sia sull’impianto complessivo, sia sulle politiche di settore.
    Infine il capitolo delle riforme che affronterò ora separatamente.
    Le riforme
    Il Next generation EU prevede riforme.
    Alcune riguardano problemi aperti da decenni ma che non per questo vanno dimenticati. Fra questi la certezza delle norme e dei piani di investimento pubblico, fattori che limitano gli investimenti, sia italiani che esteri. inoltre la concorrenza: chiederò all’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, di produrre in tempi brevi come previsto dalla Legge Annuale sulla Concorrenza (Legge 23 luglio 2009, n. 99) le sue proposte in questo campo.
    le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta
    Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza. Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli.
    Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata.
    Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio
    In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale.
    Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia
    L’altra riforma che non si può procrastinare è quella della pubblica amministrazione. Nell’emergenza l’azione amministrativa, a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche, ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza e a un uso intelligente delle tecnologie a sua disposizione. La fragilità del sistema delle pubbliche amministrazioni e dei servizi di interesse collettivo è, tuttavia, una realtà che deve essere rapidamente affrontata.
    Particolarmente urgente è lo smaltimento dell’arretrato accumulato durante la pandemia. Agli uffici verrà chiesto di predisporre un piano di smaltimento dell’arretrato e comunicarlo ai cittadini
    La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.
    Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione.
    Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite. Ancoraggi che abbiamo scelto fin dal dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale. Profonda è la nostra vocazione a favore di un multilateralismo efficace, fondato sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite. Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa.
    Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite
    Gli anni più recenti hanno visto una spinta crescente alla costruzione in Europa di reti di rapporti bilaterali e plurilaterali privilegiati. Proprio la pandemia ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l’Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania. Ma occorrerà anche consolidare la collaborazione con Stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro. Continueremo anche a operare affinché si avvii un dialogo più virtuoso tra l’Unione europea e la Turchia, partner e alleato NATO.
    L’Italia si adopererà per alimentare meccanismi di dialogo con la Federazione Russa. Seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina.
    Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati.
    L’avvento della nuova Amministrazione USA prospetta un cambiamento di metodo, più cooperativo nei confronti dell’Europa e degli alleati tradizionali. Sono fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intesificarsi.
    Dal dicembre scorso e fino alla fine del 2021, l’Italia esercita per la prima volta la Presidenza del G20. Il programma, che coinvolgerà l’intera compagine governativa, ruota intorno a tre pilastri: People, Planet, Prosperity. L’Italia avrà la responsabilità di guidare il Gruppo verso l’uscita dalla pandemia, e di rilanciare una crescita verde e sostenibile a beneficio di tutti. Si tratterà di ricostruire e di ricostruire meglio.
    Insieme al Regno Unito – con cui quest’anno abbiamo le Presidenze parallele del G7 e del G20 – punteremo sulla sostenibilità e la “transizione verde” nella prospettiva della prossima Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico (Cop 26), con una particolare attenzione a coinvolgere attivamente le giovani generazioni, attraverso l’evento “Youth4Climate”.
    Conclusioni
    Questo è il terzo governo della legislatura. Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. E’ un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un paese capace di realizzare i loro sogni. Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere. Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia.

  • Tornare alla lira?

    Annegare il debito pubblico in una gigantesca inflazione e’ stato sempre il sogno delle nazioni indebitate e storicamente e’ anche successo. Nei secoli scorsi l’Inghilterra e la Germania ad esempio hanno ripagato in questo modo molti dei loro debiti di guerra. Ma detto questo proverei a fare a tua mamma questa domanda: “Se l’oro ed i diamanti si potessero trovare come i sassi nel greto di un torrente avrebbero il valore che hanno?“. La risposta piu’ logica sarebbe:“Evidentemente no!”. E perche’? potrebbe obbiettare. Perche’ e’ la rarita’ di un bene che ne determina il suo valore. Nemmeno la moneta circolante (quella che abbiamo nel portafogli) sfugge a questa regola. Il valore della moneta e’ pari all’equivalente del suo corrispettivo in oro che le Banche Centrali detengono. L’oro e’ un metallo molto molto raro in natura e percio’ il suo valore e’ alto. Potremmo andare a cercarlo sulle Kilonove che sono delle stelle a neutroni ossia cio’ che rimane dopo un’esplosione di una supernova. Nel 2017 alcuni astrofisici scoprirono che ne esistono quantita’ enormi ma per adesso tutto questo e’ fuori dalla nostra portata. Percio’ se le Banche Centrali di uno stato sovrano stampano e mettono in circolo molta piu’ moneta di quella che e’ necessaria alla fine le cose da comprare costeranno sempre di piu’ creando quello che in economia si chiama inflazione. All’epoca della Repubblica di Weimar ad esempio l’inflazione raggiunse il 662,6% annuo aumentando sempre di piu’ al punto che per comprare il pane bisognava portarsi dietro valige piene di banconote. Ma al di la’ di questo caso limite e’ altrettanto vero che l’inflazione non colpisce allo stesso modo i vari soggetti economici. Certamente penalizzati sarebbero i lavoratori dipendenti ed i pensionati che vedrebbero poco alla volta eroso il loro potere d’acquisto. I commercianti ed i liberi professionisti al contrario potrebbero aumentare il prezzo delle cose che vendono o delle loro parcelle e se esportano quello che producono ne avrebbero un vantaggio perche’ gli acquirenti stranieri sarebbero avvantaggiati dal cambio tra le monete. Questo sarebbe un ulteriore danno per i consumatori perche’ per quelle aziende l’incentivo a migliorare i loro prodotti o a ridurre i costi per essere competitivi perderebbe ogni valore. La stabilita’ monetria di cui godiamo dopo aver aderito alla moneta unica europea (euro) ha permesso al nostro paese di sconfiggere l’inflazione portandola dal 21% del 1981 alla media europea di questi anni inferiore all’1%. Questo permette di avere una spesa per interessi irrisoria per chi contrae un mutuo o deve ripagare un prestito. Queste cose bisogna spiegarle con forza a quegli sprovveduti che si lasciano sedurre dalle idee di abbandonare l’euro propagandate dalla destra populista del nostro paese. Se tornassimo alla “liretta” lo stato disastrato dei nostri conti pubblici ne determinerebbe una svalutazione che secondo alcuni sarebbe dell’ordine del 30-50% rispetto all’euro. Ovviamente i prestiti ed i mutui contratti in euro andrebbero restituiti in quella valuta ed i risparmi degli Italiani sarebbero dimezzati di valore. Sarebbe in ultima analisi come una gigantesca patrimoniale che una destra irresponsabile finirebbe per infliggere a tutti gli italiani per il suo atteggiamento sovranista ed anti europeista. Paradossalmente quella stessa destra che vede come fumo negli occhi la patrimoniale proposta a carico di quelli ricchi per rendere sostenibile l’enorme debito pubblico che ci impedisce di crescere.

  • La questione del cambio Euro-Lira

    Il passaggio all’euro non è stato tutto rose e fiori per l’economia italiana. L’Italia entrò nell’euro con un cambio di circa 2000 lire per euro ( 1936,27 per la precisione). Ciò significa che se l’individuo X guadagnava 2 milioni di lire al mese, avrebbe percepito uno stipendio di 1033 euro al mese. Questo tasso venne fissato all’inizio del 1999 mentre la conversione vera e propria avvenne nel 2002.

    Ora l’opinione pubblica pensa che il cambio sia stato sbagliato, ovviamente a sfavore del popolo italiano e probabilmente il pensiero “populista” ci porta a designare come colpevole la Germania. Secondo questa tesi il cambio sarebbe dovuto essere 1 euro = mille lire. Ciò significa che 2 milioni di lire sarebbero equivalenti a 2000 euro. Questo individuo avrebbe quindi avuto il doppio della retribuzione reale, avrebbe raddoppiato il suo potere d’acquisto, insomma sarebbe stato il sogno di chiunque no? Il problema è che in economia non sempre ci si può permettere di fermarsi senza ragionare ulteriormente.

    La realtà dei fatti è diversa ma dobbiamo prima di tutto capire una cosa. Il cambio a 2000 lire non è stato inventato a caso da Prodi e Ciampi bensì è un valore più o meno coerente con i tassi di cambio prevalenti sui mercati finanziari prima dell’entrata nell’euro se si volevano mantenere invariati i rapporti di cambio tra i vari paesi dell’area euro.

    Nell’1998 occorrevano circa 1000 lire per comprare un marco tedesco. Quando la Germania entrò nell’euro il tasso di cambio fu il seguente: 1,95583 marchi per euro, cioè circa 2 marchi per un euro. Ciò comportava che, per mantenere invariato il cambio rispetto alla Germania, circa 2000 lire venissero scambiate con un euro. Quindi se un euro valeva 2 marchi allora un euro sarebbe dovuto essere equivalente a 2000 lire, visto che prima dell’euro con 2000 lire si compravano 2 marchi.

    Sulla base di cosa l’italia avrebbe dovuto pretendere un cambio diverso da quello che avrebbe potuto mantenere invariato il cambio tra Italia e Germania? Non è chiaro.

    Supponiamo che l’Italia fosse riuscita a ottenere il cambio tanto desiderato : 1000 lire = 1 euro. In questo modo “saremo stati tutti più ricchi”. Questo fatto avrebbe fatto crollare e fallire le esportazioni del nostro paese. Perché? Ipotizziamo che un’impresa abbia un dipendente pagato 2 milioni di lire al mese e che in un mese producesse una sedia. Supponiamo che non vi siano costi aggiuntivi se non quello del dipendente e non vi siano profitti. L’impresa vende quindi la sedia per un prezzo di 2 milioni di lire che è l’equivalente di 2000 euro (secondo il nostro ipotetico cambio tanto desiderato). Negli altri paesi europei invece avremmo un prezzo delle sedie di 1000 euro. A questo punto risulta chiaro che i prodotti italiani non avrebbero trovato nessun acquirente. L’azienda avrebbe dovuto vendere il prodotto a 1000 euro per essere competitiva e avrebbe quindi operato in perdita. Risultato: l’impresa fallisce, il dipendente è diventato disoccupato e di certo non più ricco.

    Possiamo due estrapolare due cose fondamentali:

    1. Il cambio 2000 lire = 1 euro era inevitabile
    2. Entrare con un tasso di cambio di 1000 lire = 1 euro non ci avrebbe reso più ricchi, anzi ci avrebbe rovinato.
  • Perché i governi in Italia cadono così facilmente?

    Perché i governi in Italia cadono così facilmente?

    Il grandissimo Giovanni Sartori spiegava che esistono due diversi tipi puri di democrazia.

    (foto da Il Post)

    Il più antico è il sistema presidenziale come quello nato alla fine del Settecento negli Stati Uniti d’America, che si basa sul dualismo tra Presidente e Parlamento. Ha il pregio di fare scegliere entrambi agli elettori e di essere molto chiaro. Se però Presidente e Parlamento bisticciano invece di collaborare il rischio è che il sistema si blocchi. In effetti, è un sistema che ha funzionato bene solo negli USA dove è nato, mentre ha funzionato malissimo in tutti i paesi (quasi tutti sudamericani) dove hanno provato a copiarlo.

    Il secondo tipo è il sistema parlamentare puro, nato con la Costituzione del Belgio del 1831 e che si basa sul dualismo tra maggioranza ed opposizione. Quando funziona bene il capo del governo controlla sia il potere Esecutivo che quello Legislativo ed ha potenzialmente molto più spazio di manovra di un Presidente americano, anche se non sembra. Se però il Parlamento non riesce ad esprimere una maggioranza chiara, si rischia di finire nell’assemblearismo. Ossia una gran confusione politica in cui nessuno riesce ad esprimere una visione di lungo periodo.

    Per questo sono nate due forme intermedie di democrazia, atte a mitigare i difetti delle due forme pure.

    La prima è il rinforzo del capo del governo. Questo è nato spontaneamente in Gran Bretagna a causa di un sistema elettorale che riesce a dare quasi sempre (ma purtroppo non sempre) risultati così chiari da non lasciare troppo spazio decisionale al Parlamento. In Germania ne è nata una variante basata non sul sistema elettorale, ma su regole costituzionali che rinforzano il Cancelliere rispetto agli altri ministri e rispetto al Parlamento.

    La seconda è il semi-presidenzialismo, nato in Francia negli anni Cinquanta del secolo scorso. In questo modello, le cose tendono a funzionare come in un sistema parlamentare quando dalle elezioni escono risultati chiari: il governo si forma in aula e il Presidente fa il mero arbitro. Nel caso che invece il Parlamento non riesca ad esprimere una maggioranza chiara, il sistema tende a funzionare come il sistema americano e il dualismo passa dall’essere maggioranza/opposizione ad essere governo del presidente/parlamento.

    E in Italia? La nostra Costituzione disegna un sistema parlamentare puro, che ha funzionato bene nei primi anni grazie ad un sistema di partiti forte ed una classe politica forgiata nella lotta contro il fascismo. Ma con il tempo ha cominciato a funzionare sempre peggio e presto si è cominciato a pensare di modificarla in direzione di un cancellierato o di una repubblica semi-presidenziale. Ma da almeno quarant’anni non ci si riesce a mettere d’accordo.

    Quando la situazione è particolarmente caotica, il nostro Presidente tende a smettere di fare il notaio e comincia ad avere un ruolo piuttosto attivo. Per questo in molti pensiamo che basterebbe eleggere direttamente il Presidente della Repubblica per dargli l’autorità di gestire le crisi con più efficacia. Non si tratterebbe che mettere nero su bianco quello che già accade con regolarità e spontaneamente almeno dai tempi di Sandro Pertini in poi.

    Per un decennio una legge elettorale parzialmente maggioritaria (uscita da due referendum del 1991 e del 1993) fece funzionare il nostro sistema in maniera abbastanza simile al sistema inglese. Purtroppo furono anni avvelenati dalla diatriba tra berlusconiani ed antiberlusconiani, ma per i 12 anni in cui rimase in vigore la legge Mattarella noi sapevamo assieme agli esiti del voto anche chi sarebbe andato al governo il giorno dopo. Quelli furono gli anni di maggiore durata dei nostri governi.

    I due falliti referendum voluti dal CDX nel 2006 e dal CSX nel 2016 erano entrambi un tentativo di reimpostare il nostro sistema verso un cancellierato di tipo tedesco. Quindi si basavano su regole che rinforzavano il Presidente del Consiglio abbinate però ad un sistema elettorale meno polarizzante. In entrambi i casi l’opposizione, dopo aver appoggiato il disegno, si sfilò e addirittura alla fine si oppose alla proposta. Cosa paradossale, vista la somiglianza tra i due progetti. Il risultato è che il sistema “simil-britannico” basato sul sistema elettorale venne cancellato, ma senza sostituirlo con il cancellierato. Quindi siamo ricaduti nell’assemblearismo che nel frattempo si è ulteriormente aggravato da una sempre maggiore frammentazione dei partiti. E anche, diciamolo, a causa di un crollo verticale della qualità del parlamentare medio.

    Che fare? La strada più semplice sarebbe ripristinare la legge elettorale che tra l’altro porta il nome del nostro attuale Presidente della Repubblica. Alcuni propongono invece di adottare il sistema elettorale dei Comuni e delle Regioni, assegnando un premio di maggioranza alla coalizione vincente in un secondo turno. Anche quella potrebbe essere una soluzione. L’elezione diretta dal Capo dello Stato potrebbe essere un’altra possibilità, ma essendo una modifica costituzionale avrebbe un iter molto più lungo e complicato.

    Staremo a vedere se il nuovo governo di unità nazionale sarà in grado di indirizzare il Parlamento verso una di queste riforme. Qualcosa bisognerà fare.

  • Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    Articolo: La trappola dell’ecofascismo

    La trappola dell’ecofascismo https://flip.it/P7mcDk

    IMMAGINE: ADOLF HITLER PASSEGGIA CON IL DIPLOMATICO TEDESCO WALTHER HEWEL NELLE ALPI DI BERCHTESGADEN, NEL 1942. FOTO DI WALTER FRENTZ/WW2GALLERY 21.1.2021

    La trappola dell’ecofascismo

    Appunti sul rapporto ingannevole e pericoloso tra ideologie autoritarie e preoccupazioni ambientaliste.

    L’estate del 2019 verrà ricordata per due attacchi terroristici: gli attentati di stampo islamofobo a Christchurch, in Nuova Zelanda, 50 morti, e la strage ispanofoba di El Paso, in Texas, 22 morti. Avevano un elemento comune evidente a tutti: gli autori erano suprematisti bianchi. Ma c’era anche dell’altro: negli scritti ritrovati dopo gli attacchi, gli attentatori parlavano, tra le altre cose, di ambiente. La stampa cominciò in quei giorni a usare la parola ecofascismo per descrivere l’ideologia che li muoveva. Il manifesto The Great Replacement, la grande sostituzione, diffuso nell’estate del 2019 da Brenton Tarrant, autore della strage di Christchurch, recitava: 

    Non esiste conservatorismo senza natura, non c’è nazionalismo senza ambientalismo, l’ambiente naturale della nostra terra ci ha formato tanto quanto noi stessi abbiamo fatto con esso. Siamo nati dalle nostre terre e la nostra stessa cultura è stata plasmata da esse. La protezione e la preservazione di queste terre ha la stessa importanza della protezione e preservazione dei nostri ideali e del nostro credo.

    Qualcuno si ricordò così del 2017, quando durante i disordini seguiti al raduno razzista dello Unite the Right Rally, a Charlottesville, in Virginia, venne assassinata Heather Heyer, manifestante di una contro-protesta anti-suprematista. Anche in quei giorni erano spuntate dichiarazioni che univano tutela ambientale ed estrema destra. “Abbiamo la possibilità di diventare gli amministratori della natura, o i suoi distruttori” aveva scritto Richard Spencer, esponente della cosiddetta alt-right, nel manifesto ideato per l’occasione.

    Con l’arrivo della pandemia si è tornato a parlare di ecofascismo. Durante i primi lockdown totali, sui social sono diventati virali foto e video (a volte artefatti) della natura che guariva e si riprendeva il pianeta, acque dei fiumi che tornavano limpide e animali che popolavano le strade deserte mentre buona parte degli esseri umani era confinata in casa. “Noi siamo il virus”, era la didascalia di queste foto, un meme diventato quasi subito parodia di sé stesso. Eppure, nonostante fosse nato con intenzioni completamente diverse, in molti hanno notato che, a volerlo prendere sul serio, non esiste slogan migliore di “Noi siamo il virus” per riassumere la violenza dell’ecofascismo e la sua misantropia. La narrazione della natura come soggetto puro che, una volta separato dall’uomo, risorge, è una narrazione feticizzata e pericolosa, proprio perché cancella le componenti sociali, culturali ed economiche. E, come ha scritto Grist, importante rivista statunitense di orientamento ambientalista: “la verità più insidiosa (e scomoda) è che inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista”. 

    Ma che cosa significa quindi ecofascismo? Non è semplice rispondere. Come con il fascismo eterno descritto da Umberto Eco, anche l’ecofascismo non sembra avere una semplice e univoca definizione, o una caratteristica esclusiva che lo possa definire. Dire cos’è l’ecofascismo non è una questione di dizionari, e oggi diverse fonti, anche diametralmente opposte, sembrano ancora servirsi di questa parola piuttosto liberamente. Per esempio James Delingopole, editor della testata di estrema destra Breitbart, negazionista climatico e scientifico (a inizio della pandemia ha cercato di vendere una cura, da lui “collaudata”, ai suoi seguaci), nel 2013  ha scritto un intero libro per denunciare l’ambientalismo mainstreamdefinendolo, appunto, ecofascista.

    Allo stesso tempo, nell’opposto spettro politico, alcuni ambientalisti hanno parlato di ecofascismo a proposito delle dichiarazioni della primatologa Jane Goodall, intervenuta al Forum economico mondiale del 2019. Goodall aveva detto che gran parte dei problemi ambientali erano dovuti all’aumento della popolazione mondiale e che quindi molti di questi non esisterebbero se il numero di esseri umani sul pianeta fosse quello di 500 anni fa. Per i critici affermazioni come queste rivelano un ingenuo malthusianesimo e, soprattutto, sollevano inevitabilmente domande pericolose: se siamo troppi sul pianeta, chi sarebbe in più? Se consideriamo la distribuzione della natalità, dovremmo concludere che sono di troppo proprio i paesi più poveri, di cui l’Occidente ha sempre sfruttato le risorse. Sono loro a dover essere oggi “contenuti”. Non è difficile immaginare le implicazioni di questo tipo di ragionamenti, ed è per questo che anche le parole di Goodall sono state tacciate di ecofascismo, e quindi criticate anche e soprattutto dal mondo ambientalista. Lo stesso trattamento che è stato riservato alla filosofa Donna Haraway, colpevole di dichiarazioni non dissimili sulla riduzione della natalità, nonostante il suo appello fosse in realtà costruito e argomentato in chiave femminista, antirazzista e anticolonialista. Tuttavia, come ha scritto la professoressa Banu Subramaniam, anche da queste prospettive, il controllo della popolazione non può essere separato dalla sua dimensione coercitiva e dal suo bagaglio razzista e coloniale, ancora attuale.

    Inquietanti filosofie sull’umanità sono sempre coesistite col pensiero ambientalista, ma una definizione semplice e univoca di ecofascismo non sembra esistere.

    A queste difficoltà “tassonomiche” aggiungiamo il fatto che sono in pochi a rivendicare apertamente il termine ecofascismo per descrivere la propria ideologia, o una sua parte. “Un tentativo di definizione di ecofascismo potrebbe essere questo: l’ideologia che affronta i problemi ecologici senza tenere conto dei problemi sociali di tutte e tutti, specialmente dei più deboli. E le soluzioni a questi problemi, o presunte tali, sono quindi autoritarie”. Parla Marco Armiero direttore dello Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology (Svezia). Come storico dell’ambiente Armiero si è occupato anche degli aspetti “verdi” del fascismo italiano. Una linea di ricerca già esplorata alla fine del secolo scorso a proposito della Germania nazista. 

    Eccoci allora di fronte a un ecofascismo che potremmo definire “storico”. Ma possiamo trovare un filo rosso che lega l’ecologismo attuale, o parti di esso, a quello studiato nei due regimi? Ci dovremmo chiedere, come fanno alcuni, se non sia l’ecologismo stesso un prodotto tossico di quel passato? In realtà, mi spiega Armiero, non è così semplice. Per usare un noto paradosso, il fatto che Hitler fosse o non fosse vegetariano e per quali motivi, non ci è di nessuna utilità per capire il vegetarianesimo attuale e le sue motivazioni.

    Camicie nere, retoriche verdi
    I regimi autoritari – racconta Armiero – mobilizzano tutto quello che è intorno a loro, quindi anche le spinte che definiremmo ecologiste. Possiamo a buon diritto parlare di ecofascismo “storico”, ma sarebbe un gravissimo errore credere che nazisti e fascisti avessero una coscienza ecologica così spiccata. La tesi delle radici naziste dell’ecologismo attuale è stata avanzata dalla storica Anna Bramwell alla fine dello scorso secolo. Ma da allora questa interpretazione è stata molto criticata, e per molte ragioni. Per esempio, la Germania aveva già una certa tradizione di protezione del paesaggio, che precedeva anche di secoli l’ascesa del nazionalsocialismo. Che ha, è vero, varato delle leggi apparentemente avanzate in merito, ma lo ha fatto nella misura in cui alimentava il mito propagandistico del sangue e del suolo. E alla fine, nonostante le tante parole di ammirazione per la natura e per i paesaggi bucolici, la Germania nazista era una macchina industriale, al servizio della guerra. Quando l’agognato conflitto arrivò, fu chiaro che non c’era posto per l’ambiente: tra suolo e sangue, era il secondo a contare davvero. Potremmo azzardare qui un paragone col cosiddetto nazismo esoterico, un aspetto che in molti prodotti di fiction (e non solo) è stato presentato come una colonna portante del Terzo Reich nonostante per gli storici i nazisti non fossero affatto ossessionati dall’occulto, come spesso ci piace pensare. Questo valeva forse solo per Himmler e pochi altri, mentre la nozione che il Terzo Reich avesse chissà quale legame con il magico è stata del tutto smentita dai documenti.

    In Italia possiamo fare un discorso simile riguardo al rapporto tra tutela ambientale e fascismo. Anche la nostra dittatura sanguinaria, complice del Führer, è intervenuta sul paesaggio in un modo che, in alcuni casi, almeno superficialmente, potremmo definire ecologista. In Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, Armiero e il collega Wilko Graf von Hardenberg (del Max Planck Institute for the History of Science) spiegano che anche i fascisti avevano la loro versione del mito del sangue e del suolo, modellata naturalmente sulle passate glorie di Roma. La natura doveva sì essere protetta, ma anche addomesticata, cioè sfruttata per alimentare il regime e la sua propaganda. Non solo con le celebri bonifiche, una delle “cose buone” che ai revisionisti piace ricordare. Venivano anche imposte grandi infrastrutture idroelettriche e, accanto, interventi di riforestazione il cui vero scopo, però, non era altro che proteggere dall’erosione i lucrosi invasi (e le riforestazioni erano sovvenzionate dalle stesse società idroelettriche). 

    Si può parlare di elementi di ecofascismo nell’ideologia nazista, ma sarebbe un gravissimo errore credere che il regime avessero una coscienza ecologica così spiccata.

    Dopo la Marcia su Roma il fascismo istituì anche dei parchi nazionali, come quello d’Abruzzo, di cui Mussolini appena insediato si intestò il successo. Peccato che, a ben vedere, il lavoro per proteggere quell’area, e gli orsi che ci abitavano, era cominciato ben prima, in epoca liberale. In altri parchi poi il regime continuò a costruire dighe, con gli stessi metodi. Nessuno di questi interventi però teneva in gran conto le relazioni ecologiche, e nemmeno di quelle sociali: il paesaggio doveva essere un’espressione del potere fascista, tanto sulla natura, quanto sulle persone. Per esempio, il fascismo cercò di proteggere i nuovi boschi e il suolo dichiarando guerra all’allevamento di capre, ma quegli animali servivano a chi sulle montagne ci viveva: anche gli abitanti dovevano essere addomesticati.

    Che cosa è sopravvissuto
    Ricondurre la nascita dell’ecologismo moderno al nazifascismo è quindi sbagliato a più livelli. Da un lato, l’ambiente è una questione politica da ben prima del Terzo Reich, o della Marcia su Roma. Nella storia umana sono esistite leggi a tutela dell’ambiente in moltissime civiltà, e anche prendendo in considerazione il solo Ventesimo secolo, non è possibile appiattire la discussione al presunto contributo di questi regimi. In secondo luogo, è dimostrabile come quel tipo di ecologismo, se davvero così si può chiamare, fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina del consenso e della repressione. 

    La domanda però rimane: quel primo ecofascismo ha comunque lasciato qualche pericolosa eredità di cui oggi dovremmo preoccuparci? L’ecologismo può diventare un cavallo di Troia attraverso il quale normalizzare ideologie genocide? Nel saggio di Janet Biehl e Peter Staudenmaier Ecofascismo. Lezioni dall’esperienza tedesca (1995), la tesi degli autori è proprio questa. A cinquant’anni dalla fine della guerra, qualche residuo di quella ideologia strisciava ancora nei discorsi di alcuni partiti e movimenti verdi in Germania, che in tempi non sospetti proponevano già un adagio che sarebbe diventato noto: non siamo né di destra, né di sinistra, siamo davanti. Uno slogan che gli autori del saggio riconoscono come storicamente ingenuo e politicamente fatale, dietro al quale si nascondeva (e spesso si nasconde ancora) l’estrema destra. Inquietanti simili sfumature si potevano trovare nello stesso periodo anche nei discorsi del Front National, in Francia, che provarono a porre il fenomeno migratorio all’interno della cornice della sostenibilità ambientale: non possiamo accoglierli tutti. 

    È possibile allora tracciare un filo rosso che parta, in maniera inequivocabile, da questi esempi a cavallo degli anni Novanta fino ai casi più recenti? Sappiamo del resto che oggi alcune comunità di suprematisti bianchi si sono effettivamente avvicinate al discorso ambientale, e che a volte sono davvero convinte tanto della necessità di mantenere pura la razza quanto dell’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Per esempio, l’ormai noto “Sciamano di QAnon”, Jake Angeli, al secolo Jacob Anthony Chansley, il più fotografato degli invasori del Congresso USA lo scorso 6 gennaio, aveva partecipato anche ad alcune marce per il clima. Vale la pena notare che questa rivelazione è stata immediatamente impugnata da Michael Shellenberger, influencer del negazionismo climatico cosiddetto “morbido”, che accetta il riscaldamento globale antropogenico ma ne minimizza i pericoli. Nei suoi tweet Shellenberger, vicino ai Repubblicani, ha ventilato (senza ironia) l’ipotesi che Jake Angeli fosse un attore pagato. La giornalista scientifica Emily Atking ha puntualizzato: “il tipo con le corna non è un attivista climatico, è un ecofascista”.

    Oggi nuovi gruppi di estrema destra rivendicano un interesse “ecologista”, ma l’ecofascismo rimane una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale.

    Ma possiamo davvero chiamare ecofascismo l’ideologia delle nuove destre, in USA e in Europa? Secondo Armiero è di nuovo importante contestualizzare la loro reale portata. Nessuno dovrebbe aver difficoltà a riconoscere l’ideologia tossica di questi movimenti, e della loro pericolosità abbiamo esempi concreti. “Ma dobbiamo considerare che se Casapound, per esempio, ha un gruppo ‘ecologista’ chiamato ‘Foresta che avanza’, non è certo per questo che è nota. Perché dovremmo preoccuparci dei vari paraventi ambientalisti, quando è così evidente che sono accessori, e per altro sconosciuti ai più? La coscienza ambientale, vera o presunta, nuova o ritrovata, di questo tipo di gruppi è insomma abbastanza irrilevante di fronte a tutto il resto”. L’opinione dello storico è simile a quella della filosofa Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina a Chapel Hill, che via mail mi scrive: “Per quanto mi risulta, l’ecofascismo è una deriva del tutto minoritaria dell’attivismo ambientale, legata a temi come il credo nazista del Blut und Boden e a un’interpretazione molto ‘selettiva’ ed ‘eclettica’ (per mancanza di termini migliori) di alcune idee di Heidegger e di Arne Naess (fondatore della Deep Ecology). Non sono a conoscenza di nuclei ‘ecofascisti’ in Italia (di solito, anzi, i neofascisti nostrani, specie nelle loro simpatie militaristiche, sono abbastanza alieni a preoccupazioni ecologiche).”

    Non si può nemmeno dire che sia una propaganda efficace, a conti fatti. Se guardiamo ai grandi movimenti ambientalisti, o agli stessi partiti “verdi” che ne dovrebbero esserne espressione, il moderno ecologismo è tradizionalmente portato avanti (nel bene e nel male) da sinistra, dice Armiero. Anche quando i Verdi lavorano in parlamento con le destre, come è accaduto in Svezia, non si tratta di destre nostalgiche, o autoritarie. “Sarebbe un grave errore dare a queste realtà un peso maggiore di quello che meritano”.

    Dall’ecofascismo all’ecoautoritarismoTorniamo allora alla definizione provvisoria di Armiero. L’ecofascismo è quando si affrontano i problemi ecologici in maniera autoritaria e senza considerare i problemi sociali di tutti e tutte. In fondo questa definizione, a ben vedere, non ha bisogno di ancorarsi a un preciso precedente storico. Nonostante il nome, l’ecofascismo non necessiterebbe così di trovare le vere e proprie camicie nere che lo esercitano. Forse questo è anche il motivo per cui la parola è usata in maniera incoerente, più per colpire un avversario che per definirlo politicamente.

    Proviamo allora a introdurre un concetto che è spesso del tutto sovrapponibile, ma forse suona meno problematico da usare: ecoautoritarismo. Uno degli esempi più noti riguarda la conservazione della natura negli Stati Uniti. I grandi parchi nazionali americani sono un vanto della nazione, e sono stati un esempio per altri paesi, Italia inclusa. Raramente però ricordiamo che quando cominciarono a essere istituiti, a metà dell’Ottocento, le popolazioni indigene eventualmente presenti non facevano assolutamente parte del disegno. Teddy Roosevelt fece della conservazione una priorità della sua presidenza (1901 – 1909), ma è anche passato alla storia per aver detto Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo”. Come ha scritto di recente Prakash Kashwan su The Conversation, oltre un secolo dopo Roosevelt la conservazione della natura, che a livello mondiale è in genere guidata da anglo-sassoni, ha ancora enormi problemi a riconoscere il ruolo delle popolazioni indigene. A questo proposito, basterebbe ricordare lo scandalo degli abusi commessi dalle milizie finanziate dal WWF per proteggere i parchi in diverse zone del mondo: dopo le denunce di Survival International relative alla persecuzione di pigmei Baka in Congo, un’inchiesta di Buzzfeed ha portato alla luce altri casi, offrendo prove che le comunità indigene sono ancora oggi sacrificate nel nome della conservazione. 

    Del resto, come nota Kashwan, gli indigeni nei documentari sulla natura spesso sono invisibili, nella migliore delle ipotesi. Questo rimosso non risparmia nemmeno quelli in cui sono coinvolti mostri sacri della divulgazione, come David Attenborough. Nel documentario Wild Karnataka (2019), da lui commentato, è stata oscurata, dalla narrazione, la presenza delle persone che chiamano casa quelle foreste e che hanno contribuito a creare e proteggere quella natura che vediamo nelle immagini mozzafiato HD del documentario. È la retorica della wilderness, intesa nella sua forma più tradizionale. L’idea ottocentesca ed eurocentrica che esistano grandi spazi incontaminati da preservare, sul modello statunitense, a uso e consumo di chi li esplora per la prima volta. Questo concetto di “natura originaria”, nota Iovino nel libro Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2008) è criticato da decenni da filosofi e storici come “un’invenzione”, ma è ancora utilizzato.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche (provvisoriamente) lontano dall’estremismo. Può sembrare addirittura ragionevole, persino in contesti democratici. Se l’ambiente che ci sostiene è in pericolo, se siamo in un’emergenza ecologica, non dovremmo essere disposti a soluzioni imposte dall’alto, purché radicali? Armiero mi fa l’esempio della casa che va a fuoco: chiamiamo subito i vigili del fuoco, non facciamo un’assemblea di quartiere. Nel caso dell’ambiente, però, questo decisionismo può diventare pernicioso, perché tende a ignorare, o sopprimere, le lotte sociali a esso collegate.

    L’ecoautoritarismo è più temibile e diffuso dell’ecofascismo, perché può essere anche, provvisoriamente, lontano dall’estremismo; può sembrare addirittura ragionevole.

    8Un possibile esempio di ecoautoritarismo viene allora dall’India, dove il governo ha lanciato un ambizioso programma di ripristino ecologico dei fiumi, che spesso accolgono i liquami prodotti nelle baraccopoli che sorgono sulle loro rive. Si tratta di un grave problema (senza contare il rischio delle piene) che il governo ha deciso di risolvere in maniera muscolare, semplicemente obbligando le persone a sparire da lì, distruggendo le loro abitazioni.

    Durante la conversazione Marco Armiero mi ricorda l’esempio di Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano il cui pensiero è spesso riassunto con la massima “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. La lotta di Chico Mendes per preservare la foresta Amazzonica andò di pari passo con quella per i diritti dei lavoratori che da quella foresta dipendevano. Lo stesso Mendes era infatti un seringueiro, cioè un raccoglitore di caucciù. Come molti, aveva cominciato a lavorare da bambino e l’istruzione gli era stata negata dagli stessi che lo impiegavano. Ormai adulto imparò a leggere e cominciò la sua attività di sindacalista. Col declino dei prezzi della gomma, infatti, la foresta cominciò a essere bruciata e tagliata e la battaglia dei seringueiros per proteggerla si intrecciò con quella del movimento ambientalista. Mendes introdusse il concetto di riserva estrattiva, cioè aree naturali protette, di proprietà pubblica, ma che non escludono lo sfruttamento economico da parte delle persone, a partire dagli indigeni che ci vivevano dentro. Oggi la parola sostenibilità è abusata, usata come vuota parola d’ordine, ma negli anni Ottanta Mendes aveva davvero capito il suo significato. Era infatti convinto della necessità di diversificare i prodotti estraibili dalla foresta, perché valorizzare una sola risorsa (il legno, per esempio) esponeva ambiente e lavoratori a rischi maggiori. Fu assassinato nel 1988, a 44 anni, dal proprietario terriero Darly Alves da Silva e da suo figlio Darci, che materialmente premette il grilletto.

  • SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    SVILUPPO UGUALE PROGRESSO?

    Sessanta anni fa non esisteva la raccolta dei rifiuti, non esisteva neppure la parola “rifiuti”. Com’era possibile? Cosa buttiamo oggi nel sacchetto dell’organico?

    ‘l berò

    Le Bucce della frutta, gli scarti della verdura, gli avanzi di cibo. Dobbiamo separali diligentemente, poi vengono trasportati e trattati (si spera) per essere ridotti, dopo mesi, a terriccio. Ai tempi della mia infanzia, avevamo un impianto di riciclo formidabile, “il maiale”.

    La trocca

    Spazzava via tutto e anziché del terriccio avevamo i prosciutti, le “salcicce”, i salami. Al posto dell’operatore ecologico c’era il “pistarolo”.

    I piatti venivano lavati con l’acqua calda della pasta (non esistevano i detersivi né i loro contenitori in plastica, non esisteva proprio la plastica!), l’acqua incorporava gli ultimi residui di cibo e, trasformata in “broda”, finiva nella “trocca” del porco. Il grugnito della cara bestiola sottolineava la sua estasi nel cibarsi di quell’intruglio.  

    Bottiglie di plastica, scatolette, confezioni ecc.. non esistevano. Si comprava un etto di conserva o di sardine o di tonno, da Severì, piuttosto che da Santina o Lisetta; come per la pasta, veniva tutto incartato nella carta oleata o con la carta paglia, la stufa, sempre accesa, provvedeva a trasformarla in cenere.

    La piazza con le botteghe di Santina, Elio e Severì.
    Bucato con la cenere

    E la cenere? Serviva per la “lisciva”, ci si lavavano le lenzuola, e quello che restava era concime per l’orto. Residuo zero. Non c’erano le vaschette del supermercato a contenere la carne. Il pollame veniva “scannato” in casa, con le piume (specialmente quelle d’oca) si riempivano cuscini e materassine. Il coniglio veniva spellato, la pelle messa da parte in attesa di un altro operatore ecologico “il pellaretto”.

    Passava con una cassetta di legno sopra la bicicletta e lanciava il suo grido, noi ragazzini, sempre attenti; ti dava 10 lire per la pelle, se era bianca, meno se scura, normalmente restavano nelle nostre tasche.  Maglie e maglioni, pantaloni (rigorosamente corti sia in inverno che in estate per risparmiare la stoffa) subivano infiniti adattamenti, attraversavano le generazioni, per poi finire dallo “stracciarolo”.

    Il pezzo di sapone con cui si lavavano i “pagni”, era lo stesso usato per il bagno settimanale, dentro la tinozza. Spesso la stessa acqua serviva per due o più bambini (l’ultimo faceva i fanghi, ma avevamo degli anticorpi giganteschi). Chi poteva si faceva il sapone in casa, utilizzando il grasso del maiale.

    Idrolitina - Wikipedia

    In famiglia c’era qualche bottiglia di vetro, quella per la tavola aveva la chiusura con la guarnizione di gomma; serviva per l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni. Una polverina che rendeva l’acqua frizzante, si utilizzava solo d’estate, per rinfrescare la gola, non serviva conoscere il modo di schiacciare la bottiglia in Pet prima di depositarla nell’apposito contenitore.

  • Umberto Eco “…del fascismo”

    È uno dei massimi esperti di fascismo transnazionale e di populismo globale, in America Latina e non solo. Professore di storia presso la New School for Social Research e l’Eugene Lang College di New York, nonché direttore del Janey Program in Latin American Studies presso l’NSSR, Federico Finchelstein è autore di numerosi libri e articoli anche su “guerre sporche”, genocidio e antisemitismo in America Latina e in Europa. Collabora con importanti giornali e media statunitensi, europei e latinoamericani, tra cui The New York Times, The Washington Post, Clarin, Folha de S.Paulo e Corriere della Sera. Uno dei suoi ultimi lavori, From Fascism to Populism in History (University of California Press, 2017), in uscita in Italia nel 2019, rappresenta un tentativo di comprensione della realtà attuale attraverso gli strumenti della storia, in particolar modo di quella del fascismo e del populismo. «In una fase in cui, a livello globale, non pochi sono coloro i quali si mostrano sorpresi di fronte all’avvento dei cosiddetti “neo-populismi”, come nel caso dell’affermazione di Donald Trump negli Stati Uniti – racconta Finchelstein – il libro propone una lettura storica che presenta casi precedenti di populismo, soprattutto al potere, e questo, ovviamente, non con l‘obiettivo di prevedere cosa accadrà nel prossimo futuro, ma allo scopo di dotarsi di un parametro utile per leggere e interpretare la realtà del presente».

    Nel suo libro lo storico argentino non dà una definizione di populismo, categoria spesso abusata e utilizzata impropriamente, ma discute con quelle interpretazioni che non terrebbero conto della complessità richiesta dalla storia per la comprensione e la descrizione di questo importante fenomeno politico. «Certo, evidenzio alcune caratteristiche che a mio avviso si ripetono nel corso del tempo, sia in America Latina che fuori. Quindi, quella che emerge è una lista di tratti comuni, centrali nel populismo, sebbene non una definizione vera e propria». Quali sarebbero i tratti tipici del populismo, che si manterrebbero pressoché costanti nel tempo? Fra questi sicuramente «un leader carismatico, messianico, quasi mitico, che presenta sé stesso come colui il quale sa ciò che il popolo desidera, anche quando magari è il popolo stesso a non saperlo; in breve, un leader che si mostra come la personificazione del popolo».

    Un capo che promette – e questa sarebbe un’altra caratteristica ricorrente – di «realizzare finalmente quel “momento” in cui è il popolo a governare, ossia di dar vita ad una sorta di democrazia diretta o quasi». Tuttavia, quello che accade nella realtà, storicamente, è qualcosa di profondamente diverso: «alla fine è sempre il leader quello che governa, che decide, che parla, che impersona il popolo, che detiene materialmente il potere». In altre parole, quel che si produrrebbe costantemente sarebbe un duplice movimento di riduzione: «in primo luogo, il popolo viene sostituito dal leader, che parla e governa a nome di tutti; in secondo luogo, il popolo viene rappresentato come una massa compatta, che ha votato in blocco per il leader in questione e per i suoi sostenitori, anche quando è evidente che non è così». I populismi rappresenterebbero, pertanto, «un popolo che non esiste, e tutti coloro i quali non si riconoscono in questo popolo vengono presentati come dei nemici del popolo, come degli “anti-popolo”, come dei soggetti contrari ai desideri del popolo». Il prodotto finale di tutto questo è un evidente paradosso: «il populismo si manifesta come rappresentanza dell’antipolitica, anzi, di più, come un modo per risolvere una crisi della rappresentanza politica, per favorire una partecipazione più diretta della popolazione al processo decisionale. Ma è proprio questo che, alla fine, non accade mai. E il risultato, se vogliamo, è ancor più antidemocratico, perché l’accostare il popolo al governo sulla base dell’idea che i tradizionali rappresentanti non lo rappresentano – il che, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, è verissimo –, si conclude con l’unico effetto di individuare un solo rappresentante, o meglio, un soggetto che si ritiene o che si vuole ritenere come la persona alla quale è stato delegato il potere, producendo, pertanto, il passaggio da una rappresentanza molteplice, con tutti i suoi limiti, ad una rappresentanza unificata nella persona del leader».


    Donald Trump, murale, 2017

    Non è un caso se, secondo Finchelstein, sussistono forti elementi di contatto fra populismo e fascismo. «La connessione è prima di tutto storica», racconta. «I populismi esistono sicuramente già nel XIX secolo, tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti, quanto in America Latina, come forme politiche finalizzate ad avvicinare il popolo al potere. Ma in quel periodo non riescono ad arrivare al potere, cosa che accade invece nel subcontinente latinoamericano dopo il 1945. L’aspetto interessante è che molti di questi primi populisti che arrivano al governo in diversi paesi della regione, prima del ’45 erano stati fascisti, o comunque vicini al fascismo o compagni di strada del fascismo. Dopo la seconda guerra mondiale quel che accade è che questi fascismi vengono riformulati in chiave democratica. Il risultato di questo processo è, appunto, il populismo, che altro non è che una forma autoritaria di democrazia che non è più fascismo, avendo abbandonato alcune caratteristiche fondamentali di questo, come, ad esempio, la violenza politica e il razzismo, ma che ne conserva delle altre».

    Questo, tuttavia, costituirebbe un tratto tipico dei primi populismi che cercarono di allontanarsi dall’«eredità fascista», mentre «nei populismi di oggi, più recenti, di estrema destra, invece, vediamo l’affermazione dell’idea contraria, ossia l’utilizzo di xenofobia e razzismo per connettere il popolo con il potere, come dimostra chiaramente, fra gli altri, il caso di Donald Trump. Pertanto questi populismi attuali, non dico che si siano riconvertiti in fascismo, ma si avvicinano al fascismo, riprendono alcuni temi forti del fascismo che avevano definito quello che il populismo non era dopo il ’45. Se si guarda al fenomeno in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una storia del populismo che, in un primo momento, si allontana dal fascismo, riformulandolo in chiave democratica per ovvi motivi, e, in un secondo momento, oggi, per la precisione, dimostra di voler tornare a quel fascismo». Qual è il rapporto fra populismo e democrazia, quindi?

    «Non esiste populismo senza democrazia, questo deve essere chiaro. Il populismo è una “bastardizzazione” della democrazia, è una forma di democrazia autoritaria, come detto. Nella storia del populismo si contano sulle dita di una mano i casi in cui il populismo distrugge la democrazia. Nella maggior parte dei casi si tratta di dar vita ad una democrazia che non si distingue certamente per essere di tipo costituzionale, ma che risiede nella persona, nei desideri e nei capricci del leader. Ma in generale il populismo non distrugge la democrazia. Anzi, nella storia latinoamericana sono molto spesso le dittature anti-populiste che mettono fine alle democrazie populiste. Quando il populismo non mantiene le regole minime della democrazia non ci troviamo più di fronte ad un caso di populismo, ma ad un regime di tipo dittatoriale».

    Quella di populismo, per Finchelstein, costituisce una categoria importante, quindi, impossibile da ignorare e da escludere dall’analisi, nella misura in cui fa parte dell’esperienza quotidiana degli attori e dei soggetti politici. Guardando al contesto latinoamericano attuale, ad esempio, «se il sedicente “populismo di sinistra” è scomparso quasi ovunque, incluso in Venezuela, dove l’inesistenza, a mio avviso, di uno Stato di diritto impedisce di parlare di populismo, quello che possiamo rilevare, a cominciare dal paese più importante, il Brasile, è l’ascesa di un populismo di estrema destra che si è affermato attraverso campagne mediatiche di tipo quasi nazista». E le prospettive sono tutt’altro che rosee, se si osserva la situazione dal punto di vista della democrazia costituzionale: «in pratica, non sappiamo ancora se Bolsonaro governerà il paese come un leader populista o come un Pinochet. E questo non dipende solo da lui, ma anche dalla capacità della società civile e delle istituzioni di mettere dei limiti ad un personaggio così estremo, che si caratterizza per la sua omofobia, per il suo razzismo e per la sua demonizzazione e odio nei confronti di tutto quello che ritiene essere diverso». Non tanto meglio sembrerebbero andare le cose in altri paesi, come Argentina o Cile, dove non sono presenti governi di tipo populista ma «esecutivi neoliberisti ben caratterizzati dalla presenza di una tecnocrazia che ritiene di sapere quello che il mercato vuole».

    Brasilia, Jair Bolsonaro durante la nomina presidenziale, 2018

    Non bisogna dimenticare, infatti, che sono proprio questi governi di tecnocrati ad essere, in molti casi, «causa ed effetto del populismo, nella misura in cui questi, una volta al potere, non ascoltano tanto la voce di quei cittadini che hanno contribuito ad eleggerli, quanto quella del mercato, e il soggetto mercato, in questa prospettiva, è antidemocratico: non lo ha “votato” nessuno, ma finisce per incidere sulle decisioni di un esecutivo eletto democraticamente e che, invece, rappresenta gli interessi particolari di una parte molto ristretta della società. E cosa accade, quindi? Accade, molto spesso, che queste “tecnocrazie” creino terreno fertile per la diffusione di leader populisti che vogliono o dicono di voler avvicinare il popolo al potere, ma che finiscono, come detto, per essere governo di una sola persona o di un gruppo altrettanto ristretto».

    Come riconoscere un contesto favorevole alla diffusione del populismo, quindi? Il populismo si presenterebbe sempre «come la risposta a una crisi della rappresentanza politica ed economica. Questa crisi può essere reale, concreta, o anche solo una percezione e, pertanto, immaginaria. Ad esempio, negli Stati Uniti la situazione economica non era negativa al momento in cui è stato eletto Trump. Anzi, in una situazione di crisi reale, sul piano economico, venne eletto Obama, che di certo non era un leader populista, mentre in un contesto di andamento tutto sommato positivo dell’economia è stato eletto Trump, che ha utilizzato una “crisi”, economica, politica, sociale, che non esisteva, per trarne un vantaggio sul piano retorico e propagandistico. Ma per quelli che lo hanno eletto questa “crisi” esisteva».

    Oggi, quindi, in Europa, come in America Latina, come negli Stati Uniti ci troviamo di fronte ad un rischio di deriva autoritaria? «Sì, ma questa deriva autoritaria ha a che vedere a volte con il populismo e a volte con governi che, allo stesso modo, si allontanano dall’essere reali rappresentanti degli elettori, della cittadinanza, per farsi rappresentanti di realtà come quella del mercato. È sicuro che il populismo implica una nozione autoritaria della democrazia, ma bisogna pensare che la stessa democrazia che esiste al di fuori o prima dei populismi tantomeno costituisce un tipo di democrazia ideale, anzi, presenta anch’essa dimensioni antidemocratiche molto importanti e per niente da sottovalutare. Come se ne esce? Di fronte ad una crisi di rappresentanza, che né i tecnocrati né i populisti risolvono, convertendosi, anzi, in governi che pensano a portare avanti i propri interessi o quelli di pochi, sono necessarie opzioni politiche maggiormente connesse con i bisogni, le esigenze e gli interessi reali dei cittadini».

  • Comprendere l’ondata secessionista globale

    Comprendere l’ondata secessionista globale

    Interpretazioni spesso ardite del diritto all’autodeterminazione dei popoli, insieme all’azione di forze politiche ed economiche globali, stanno destabilizzando molte regioni del mondo. Nelle ultime settimane, i governi regionali della Catalogna in Spagna e del Kurdistan in Iraq hanno tenuto referendum non autorizzati sulla propria indipendenza. E in Camerun, i gruppi separatisti della regione inglese di Ambazonia hanno dichiarato unilateralmente l’indipendenza dalla parte francofona del paese.

    Nel frattempo, la Scozia sta valutando se tenere un altro referendum per poter continuare a far parte dell’Unione Europea una volta che la Brexit dovesse concretizzarsi. E decine di altre regioni con potenti forze separatiste – tra cui le Fiandre in Belgio, Biafra in Nigeria, Somaliland in Somalia e Québec in Canada – stanno osservando l’evoluzione di questi eventi con attenzione e si tengono pronte all’azione a loro volta.

    L’autodeterminazione dei popoli è stata una forza trainante della geopolitica del ventesimo secolo, portando alla creazione di molti nuovi stati dopo le due guerre mondiali e poi ancora dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quando le Nazioni Unite furono fondate nel 1945, vi erano solo 51 Stati membri; oggi, 193. Ma la strada verso l’indipendenza è di solito sanguinosa, violenta e lunga, come mostra l’esperienza africana caratterizzata da guerre civili e conflitti etnici. La pacifica divisione della Cecoslovacchia nel 1993 o della Norvegia e della Svezia nel 1905 sono le eccezioni alla regola.

    All’alba del ventunesimo secolo, la maggior parte delle aberrazioni storiche che il colonialismo e l’imperialismo sovietico avevano imposto sulla mappa del mondo erano state riassorbite e la spinta globale per l’autodeterminazione sembrava perdere vigore. Mentre tra il 1981 e il 1997 furono fondati quasi 30 nuovi paesi, dal 2000 ad oggi ne sono emersi solo 5. Con la globalizzazione, che aveva portato all’omogeneizzazione culturale, politica e economica, si era creata la percezione che le distinzioni regionali non contassero più. Il mondo era entrato in quello che il filosofo Jürgen Habermas definiva l’età dell’”identità post-nazionale”.

    Il riemergere del secessionismo oggi è quindi inatteso; ma non deve sorprendere. In molti casi, la democrazia diretta ha sostituito la forza militare come principale strumento di lotta. Persino Putin ha cercato di annacquare l’illegalità dell’invasione e dell’annessione della Crimea nel 2014 nella legittimità spuria di un referendum. Dalle democrazie mature come il Regno Unito alle democrazie fragili come l’Iraq, l’autodeterminazione sta alimentando nuove forme di micro-nazionalismo, alcune più legittime di altre.

    Visto il grande numero di movimenti secessionisti attivi e dormienti in giro per il mondo, l’importanza dell’irredentismo per il secolo attuale non può essere sottovalutata. Molto probabilmente continuerà a giocare un ruolo importante. Le analisi dei commentatori di Project Syndicate relative ai recenti eventi in Spagna, Iraq e sono di vitale importanza per capire quando la secessione sia davvero legittima.

    Il diritto a uno stato proprio
    L’autodeterminazione dei popoli, spiega Joseph S. Nye dell’Università di Harvard, “è generalmente definita come il diritto di un popolo a costituire il proprio stato” – un diritto introdotto nel 1918 dal presidente americano Woodrow Wilson e ancora sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945. Se da un punto di vista concettuale, l’idea dell’autodeterminazione è auto-esplicativa, la sua realizzazione pratica è alquanto complessa. Come osserva Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, “non esiste un insieme di standard universalmente accettato da applicare a leader e popolazioni che cercano di autodeterminarsi”.

    Gli stati nazionali rimangono i pilastri del sistema internazionale, e quindi la loro disintegrazione solleva inevitabilmente timori di destabilizzazione globale o regionale. Ma, come sottolinea Peter Singer dell’Università di Princeton, “violazioni diffuse dei diritti umani, causate o tollerate da un governo nazionale, possono dare origine a ciò che a volte viene chiamato un diritto rimediale alla secessione per gli abitanti di una regione”. In questi casi, che includono la separazione del Bangladesh dal Pakistan nel 1971 o la dichiarazione di indipendenza da parte della Serbia del Kosovo con l’appoggio della NATO nel 2008, “la secessione potrebbe essere giustificata come ultima risorsa, anche se impone grossi costi sullo stato di cedimento”.

    Quando invece non vi sia alcuna prova che una minoranza culturale o etnica sia oppressa, la secessione può avvenire solo attraverso un accordo negoziato, consensuale e legale tra la popolazione in partenza e lo stato che stanno lasciando. Nel minuscolo Liechtenstein, la costituzione effettivamente consente ai singoli comuni di separarsi dall’unione. E nel 2014, osserva lo storico Robert Skidelsky, “il primo ministro britannico David Cameron è stato costretto a consentire un referendum sull’indipendenza” in Scozia, in modo da “mantenere la governabilità” nella regione a seguito della vittoria parlamentare del Partito nazionale scozzese nel 2011.

    Tuttavia, queste sono eccezioni. La stragrande maggioranza delle costituzioni nazionali non consente la secessione. Nel 1998, ad esempio, la Corte Suprema del Canada ha dichiarato che il governo canadese sarebbe obbligato a negoziare con il Québec se gli elettori della provincia esprimessero un desiderio inequivocabile per l’indipendenza attraverso un referendum; ma ha anche stabilito che il Québec non ha il diritto di separarsi in modo unilaterale. E in alcuni paesi, tra cui la Turchia e la Spagna, il principio dell’integrità territoriale è esplicitamente sancito nella costituzione.

    Come tale, osserva l’ex ministro degli esteri spagnolo Ana Palacio, “un referendum sulla secessione” in Spagna “non può procedere legalmente senza compromettere l’ordine costituzionale che il paese ha costruito negli ultimi 40 anni, dalla morte del dittatore Francisco Franco nel 1975. “E inoltre, Palacio sottolinea che la Costituzione spagnola mira a” proteggere i diritti umani, la cultura, le tradizioni, le lingue e le istituzioni dei “popoli spagnoli”. “A causa di questo impegno costituzionale, ora c’è” un complesso di diritto che concede un’autonomia regionale, in particolare per la Catalogna, con importanti poteri trasferiti al governo regionale catalano “.

    Decidere chi decide
    Il referendum per l’indipendenza catalana del primo ottobre non era solo incostituzionale; era anche apertamente antidemocratico. Il governo regionale catalano ha adottato una “legge di disconnessione” senza consentire una corretta discussione sulle implicazioni dell’indipendenza. Peggio ancora, non ha neanche fissato una soglia minima per la partecipazione al referendum. Il risultato è stato de facto una dittatura della minoranza. “Solo il 43% della popolazione catalana ha votato al referendum”, osserva Shlomo Ben-Ami del Toledo International Center for Peace. Il fatto che “anche il sindaco di Barcellona, Ada Colau, sostenitore di stato, ha messo in discussione come fondamento per un piano unilaterale dichiarazione di indipendenza.”

    La situazione catalana – dove il presidente del governo regionale, Carles Puigdemont, ha dichiarato e sospeso l’indipendenza – sottolinea un paradosso centrale dell’autodeterminazione. Anche un voto non democratico e incostituzionale può avere implicazioni politiche enormi se i protagonisti lo dipingono come un’espressione della “volontà popolare”.

    Tuttavia, come osserva Singer, mentre un referendum è in realtà “una forma di persuasione rivolta al governo dello stato esistente”, può avere un effetto persuasivo solo con una “grande partecipazione che mostra una netta maggioranza per l’indipendenza”. Di conseguenza, nessuno può aspettarsi che la Spagna permetta alla Catalogna di staccarsi. Secondo Ben-Ami, “è ormai molto probabile che il governo centrale invochi l’articolo 155 della Costituzione spagnola, che gli permette di prendere il controllo diretto della Catalogna”.

    Anche se una super-maggioranza dei catalani avesse votato per la secessione, una questione fondamentale sarebbe rimasta. Come Nye si domanda: “chi ha il diritto di autodeterminarsi?” La risposta dipende da dove e anche quando le persone si determino. Negli anni ’60, quando i “somali nel Kenia nord-orientale” cercavano l’indipendenza, “volevano votare immediatamente”, mentre il Kenya, “ che per effetto del periodo coloniale era formato da decine di popoli o tribù”, avrebbe voluto “aspettare 40 o 50 anni per cercare di formare un’identità keniana a discapito delle vecchie etnie locali”.

    “Un altro problema”, secondo Nye, “è come tenere in considerazione gli interessi di coloro che rimangono indietro”. Si consideri l’esempio di Scozia ricca di petrolio, il cui distacco avrebbe causato notevoli danni economici al resto del Regno Unito. È ragionevole che tutti i britannici, e non solo gli scozzesi, debbano esprimere la propria opinione sull’indipendenza scozzese. E Singer ci ricorda che proprio questo è accaduto “quando i popoli della Nigeria orientale hanno deciso di separarsi e formare lo stato di Biafra negli anni ’60.” Considerando che “il Biafra inglobava gran parte del petrolio della Nigeria,” altri nigeriani “sostenevano che l’oro nero appartenesse a tutte le persone della Nigeria, non solo nell’area orientale “.

    Valutando la fattibilità
    Per essere legittima, una secessione deve tanto identificare il gruppo che sia autorizzato a fare una simile richiesta e rispettare il dettato costituzionale e le norme internazionali quanto preservare “la vitalità dello stato da cui si stacca e la sicurezza degli stati limitrofi”, scrive Haass.

    Per Volker Perthes del German Institute for International and Security Affairs, la sicurezza degli stati confinanti è una preoccupazione particolarmente rilevante nella questione dell’indipendenza dei curdi iracheni. “L’indipendenza curda potrebbe incoraggiare le richieste di autonomia nelle province a maggioranza sunnita che confinano con Siria, Giordania e Arabia Saudita”, scrive. E “rimuovendo il terzo elemento costitutivo – oltre agli arabi sciiti e sunniti – della politica irachena”, potrebbe aggravare la pericolosa “polarizzazione settaria” di quel paese.

    Ma altri respingono tali valutazioni aprioristiche della situazione kurda. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy ritiene che uno “stato-curdo rappresenterebbe una” città brillante su una collina “, una luminosa stella polare per i figli e le figlie persi del Kurdistan, e una fonte di speranza per tutti gli sfollati del mondo .”Allo stesso modo, Ben-Ami afferma che uno Stato kurdo non avrebbe solo” una reale possibilità di prosperare “, ma potrebbe anche” combinare la ricchezza delle risorse naturali con una tradizione di governance stabile e pragmatica, creando così una democrazia sostenibile “in una regione altamente volatile.

    Infatti, per Haass, la vitalità economica e politica dovrebbe essere un altro requisito preliminare per la secessione, in quanto il mondo ha già abbastanza stati falliti che destabilizzano le regioni circostanti. Nel 2011, il Sud Sudan era moralmente giustificato ad ottenere il proprio stato dopo decenni di oppressione.

    Ma le sue istituzioni politiche ed economiche erano così fragili che dopo neanche tre anni il paese era piombato in una sanguinosa guerra civile. Il conflitto nel Sud Sudan ha generato più di due milioni di rifugiati, frustrando le aspettative di Charles Tannock, membro del Parlamento europeo: “Un Sud Sudan indipendente obbligherebbe l’Occidente a fronteggiare le ortodossie relative all’Africa”. In particolare, l’esperienza del Sud Sudan tende a confermare “la convinzione che paesi come la Somalia e la Nigeria siano più stabili di quanto non sarebbero se fossero divisi in tante parti”.

    L’importanza del riconoscimento internazionale
    La sfera economica e politica di un paese dipende dal fatto che la sua indipendenza sia riconosciuta a livello internazionale. Gli Stati non riconosciuti, senza peso nel processo decisionale globale e incapaci di accedere ai mercati internazionali, tendono a collassare. Ecco perché, dieci anni fa, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fisher temeva che il mancato accesso del Kosovo ai prestiti sovrani della Banca mondiale o del Fondo Monetario Internazionale avrebbe potuto causare problemi, non solo per il Kosovo ma anche per l’UE, con la quale “il destino del Kosovo è intrecciata”.

    Ma la comunità internazionale è sempre meno propensa ad accettare nuovi membri. Dato che meno di un decimo dei paesi del mondo sono culturalmente omogenei, una secessione sancita a livello internazionale potrebbe incoraggiare i secessionisti di tutto il mondo. Come ha affermato Raju Thomas dell’Università Marquette nel 2007, “permettere al Kosovo di ottenere l’indipendenza dimostrerebbe che il secessionismo violento funziona”. In questo caso, ha concluso, “il mondo dovrebbe abituarsi a vedere la strategia del Kosovo applicata altrove “.

    In questo senso, Palacio esorta i leader mondiali e soprattutto europei a “resistere alle invocazioni dei separatisti catalani per la mediazione internazionale”. Chiede di non iniziare nessuna forma di dialogo che convalidi l’elusione da parte del governo catalano della costituzione spagnola. “Niente di meno che il futuro dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale in Spagna – e altrove – dipende da essa”, insiste. Dopo tutto, in un continente con 250 regioni definite da identità culturali, etniche o storiche, una indipendenza in Catalogna potrebbe scatenare un effetto domino, creando un’Europa dei mini-stati dove il processo decisionale sarebbe ancora più difficile di quanto già non sia.

    Naturalmente, la questione del riconoscimento diplomatico dei secessionisti ha più a che fare con meri calcoli di interesse nazionale piuttosto che con il rispetto di principi morali o legali. Quindi non sorprende che altri leader europei, preoccupati per i propri movimenti secessionisti, abbiano considerato la crisi catalana un problema di carattere squisitamente interno per la Spagna. Allo stesso modo, qualora il referendum scozzese del 2014 fosse passato, gli scozzesi (che sono storicamente sostenitori del progetto europeo) si sarebbero trovati al di fuori dell’Unione Europea, perché la Spagna avrebbe imposto il suo veto sull’adesione di Edimburgo, al fine di dissuadere la Catalogna dal provarci a sua volta.

    Anche nel caso dei curdi che chiaramente hanno diritto a uno stato, l’istinto di molti governi è quello di osteggiare il movimento indipendentista. Sotto il presidente americano Donald Trump, osserva Ben-Ami, gli Stati Uniti si sono opposti al referendum per l’indipendenza kurda sulla base del fatto che “avrebbe destabilizzato l’Iraq” e supportato “ i ribelli anti-governativi della Siria”. Allo stesso tempo, però, Trump ha anche dimostrato di essere disposto ad accettare l’annessione della Crimea da parte della Russia nel marzo 2014, anche se a dire di Jeffrey D. Sachs della Columbia University costituisce “una grave e pericolosa violazione del diritto internazionale”.

    Le cause del secessionismo
    Spinte verso la frammentazione politica in tutto il mondo stanno avvenendo per ragioni diverse. In Medio Oriente e in Africa, il secessionismo è guidato da lotte contro l’oppressione autocratica, e da appelli alle identità locali. Nelle ex repubbliche dell’Unione Sovietica, i movimenti di autodeterminazione sono in gran parte una manifestazione della politica delle grandi potenze, con un revanscista Cremlino che incoraggia l’irredentismo in Crimea, Abkhazia, Donetsk e Ossezia del Sud e minacciando di farlo altrove. E nell’Europa occidentale, i movimenti regionali per la secessione sono crollati in gran parte in risposta alle forze economiche strutturali e cicliche.

    In Europa occidentale, regioni ricche come la Catalogna e le Fiandre sono impazienti di sovvenzionare le regioni più povere; e il loro risentimento è cresciuto dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Scrivendo nel 2008, Ian Buruma, ora redattore della New York Review of Books, ha avvertito che il Belgio stava quasi collassando, a causa di un rinvigorimento etnico che “l’unità europea del dopoguerra avrebbe dovuto contenere. “I belgi francofoni hanno avviato la Rivoluzione Industriale Europea nel diciannovesimo secolo “, osserva. Ma “ora vivono un senso di rancore che necessita di sovvenzioni federali, una notevole quantità che deriva dalle tasse pagate dai fiamminghi più floridi e tecnologici”.

    Skidelsky ritiene che anche il referendum scozzese sia stato spinto dalla crisi finanziaria e dalla conseguente Grande Recessione, che ha aiutato la SNP ad ottenere la maggioranza parlamentare. Ma non bisogna pensare che i secessionisti europei siano motivati solo da fattori economici. Forze strutturali come la globalizzazione e il processo di integrazione europea hanno svolto un ruolo importante. Secondo Buruma, l’UE, promuovendo attivamente “gli interessi regionali, ha indebolito l’autorità dei governi nazionali”.

    Alberto Alesina dell’Università di Harvard ha sostenuto una simile idea quasi 20 anni fa: una forte integrazione economica, attraverso la rimozione delle barriere commerciali, riduce i costi di indipendenza e pregiudica la logica per le grandi giurisdizioni che compongono popolazioni eterogenee. “Con il libero commercio internazionale”, secondo Alesina, “i gruppi etnici, linguistici e religiosi possono trovare più conveniente separarsi se non devono sopportare i costi di trovarsi all’interno di un’economia e un mercato troppo piccolo. ”

    All’inizio di quest’anno, in un articolo per Foreign Affairs, ho sottolineato che i catalani e gli scozzesi capiscono perfettamente questa logica. Entrambi vogliono rimaner parte del mercato unico europeo e allo stesso tempo vogliono allontanarsi dal controllo centralizzato dei rispettivi governi nazionali. Inutile dire che questo è l’opposto di ciò che i fondatori dell’UE pensassero. Credevano che l’integrazione europea avrebbe diluito la sovranità nazionale dall’alto. Non prevedevano una minaccia dal basso per i vecchi stati nazionali. Oggi, i leader europei sono davanti a un dilemma: più spingono per l’integrazione politica ed economica, più rinvigoriscono il secessionismo regionale.

    Cosa attendersi
    Con le forze globali e locali che continuano a guidare il micro-nazionalismo, è probabile che nel prossimo futuro qualche regione diventi indipendente – in modo pacifico o violento. Un Kurdistan sovrano, in particolare, non è più un’idea irrealistica e potrebbe porre la parola fine all’ordine artificiale Sykes-Picot che gli inglesi e i francesi crearono dopo il crollo dell’Impero Ottomano.

    Ma, a differenza dell’era post-coloniale, gli stati di nuova costituzione faticherebbero a trovare sostegno internazionale. Al contrario, la maggioranza dei governi utilizzerebbe tutti i mezzi a propria disposizione, dal boicottaggio economico alla forza militare, per preservare l’unità nazionale. I regimi autoritari hanno la tendenza a reprimere con la forza i gruppi secessionisti, come sta accadendo in Camerun con Ambazonia e in Nigeria con il Biafra. Le democrazie ben consolidate, invece, ricorrono ai dettami costituzionali per prevenire la disintegrazione territoriale, come avviene ora in Catalogna.

    Tuttavia, la repressione dei gruppi separatisti dovrebbe essere l’ultima soluzione, soprattutto per i governi occidentali. Idealmente, i governi devono intervenire molto prima che gli elettori diventino radicalizzati. Si possono addolcire le istanze secessioniste attraverso trasferimenti finanziari, tasse speciali accordi o poteri devoluti. Come osserva Barry Eichengreen dell’Università della California, Berkeley, è importante, però, che i governi centrali mantengano il controllo della politica fiscale e monetaria, oltre alla supervisione della difesa e della politica estera.

    Quando le ambizioni separatiste sono ben radicate come in Catalogna, nelle Fiandre o in Scozia, i governi centrali dovrebbero considerare la rinegoziazione dei termini del rapporto, concedendo una maggiore autonomia. Ancora, Victor Lapuente Giné dell’Università di Göteborg ricorda che entrambi le parti della disputa spagnola si trovano ad affrontare “quello che gli scienziati politici chiamano un dilemma sociale: entrambi beneficiano dal comportamento egoistico a meno che l’altro lato si comporti a sua volta in modo egoistico, nel qual caso entrambi perdono. “Dopo tutto, un divorzio sarebbe costoso sia per la Catalogna e per la Spagna.

    Più in generale, l’ex ministro greco delle finanze pubbliche Yanis Varoufakis invita l’UE a “sviluppare un nuovo tipo di sovranità, che rafforzi le città e le regioni, dissolva il particolarismo nazionale e rispetti le norme democratiche”. Per Varoufakis, la “brutta crisi” catalana dovrebbe essere considerata “un’occasione d’oro per riconfigurare la governance democratica delle istituzioni regionali, nazionali e europee, portando così all’emergere di un’Unione Europea difendibile e quindi sostenibile”.

    In un modo o nell’altro, l’autodeterminazione dei popoli giocherà un ruolo importante nella storia del ventunesimo secolo, proprio come in quello precedente. Per garantire che non diventi nuovamente una fonte di instabilità e distruzione, i governi devono cercare di attenuarlo in anticipo. Possono pagare adesso, oppure possono pagare un prezzo ben più elevato in futuro.

    Edoardo Campanella