Categoria: Politica

  • Europa mundi – Pianetica

    Europa mundi – Pianetica

    Europa non è europea. Lo dice il mito.

    L’Europa non è solo europea. Lo chiarisce la storia.

    La geografia lo mostra: Europa è pregna di sconfini che rendono ardui e mutevoli i tentativi di definirla in una sua fisicità. E i mari e l’Atlantico, a suon di flutti, ora la dividono ora la uniscono al suo restante mondo.

    L’Europa è uno spazio alquanto indefinito che smargina il tempo e sopporta le sue slabbrature.

    In summa, l’Europa, che è anche europea, ha nei suoi geni i caratteri di Europa mundi.

    L’Europa esiste solo in quanto è Europa mundi. L’Europa del mondo.

    L’esplodere della crisi afghana ha reso baliosi e incontinenti i lamenti sull’inconsistenza militare dell’Europa, sulla necessità che essa crei un esercito proprio, rafforzi in armi la sua difesa, si metta al pari delle altre grandi potenze per giocare un ruolo analogo nei destini del mondo contemporaneo. Tali posizioni, prive di contraddittorio, nuocciono non solo all’Europa ma al mondo intero e mettono seriamente in pericolo i suoi abitanti.

    Per offrire una diversa chiave al problema, è utile chiedersi:

    Cos’è l’Europa?

    Qual è la sua forza?

    Dove inizia, dove finisce, quando e come si definisce? È uno spazio politico o è una politica dello spazio?

    La politica vive nell’imperituro imbarazzo di misurare l’Europa. Quanto è grande?

    Quanto è piccina?

    L’ossessione per la precisione tiene l’errore in agguato.

    Eppure, è possibile, forse anche conveniente, prendere le misure dell’Europa in modo non autistico, concependole come espressioni di relazione tra l’Europa e il suo mondo che è Europa solo se è l’intero mondo.

    Le misure dell’Europa come unità di relazione anziché come identità assoluta permettono di concepirla grande in grazia della sua piccolezza militare e piccina quando manifesta pruriti di grandezza.

    Al contrario di ciò che il canone politico ritiene, la forza dell’Europa sta nella sua debolezza militare, la sua consistenza strategica è direttamente proporzionale all’inconsistenza dei suoi armamenti, il suo benessere non è limitato dalla sua scarsa forza bellica ma è seriamente messo in pericolo dalla sua,

    per ora solo accennata, volontà di potenza.

    Inoltre, se l’Europa provasse a superare il gap militare con le altre grandi potenze, quanto tempo impiegherebbe? Con quali costi? E nella corsa agli armamenti, non finirebbe dissanguata come l’URSS?

    Ogni soggetto politico ritiene sempre valida l’equazione potere militare=forza economica.

    Ogni soggetto politico desidera aumentare la sua sfera d’influenza ritenendo così di

    ottenere enormi vantaggi competitivi.

    Le sfere d’influenza un tempo cristallizzavano le gerarchie di potere planetario. Ora sono ingiallite mummie dell’impotenza globale.

    Ma l’Europa non è un soggetto politico pari agli altri. L’Europa unita – una prima, larvale espressione dell’Europa a venire – deve il suo potere alla sua flebile potenza bellica. L’Europa unita non nasce da una grande vittoria militare, ma dall’infamia della più grande sconfitta.

    L’Europa unita è resa possibile solo dall’abbraccio tra nemici inceneriti dalle proprie guerre dopo secoli di contesa del medesimo spazio.

    La politica è tarda di memoria. Eppure chiunque, nell’ultimo tempo, abbia puntato sull’intervento militare, ha ricevuto solo reiterate umiliazioni sul campo,

    ottenendo in più solo svantaggi in termini di penetrazione economica e di controllo delle aree geografiche interessate. Di contro, i paesi al riparo dalla competizione militare e dai suoi immensi costi di protezione, hanno avuto ritmi di sviluppo prodigiosi.

    Le macerie sono il mercato ideale per le armi ma il mercato delle armi da almeno un secolo è un’infinitesima parte del mercato totale.

    I mercanti di armi non sono solo stolti assassini, sono anche dei pessimi mercanti.

    Anche l’Europa ha i suoi Afghanistan: tra gli altri, la Siria e la Libia dove più paesi che si pretendono europei hanno pensato stoltamente di inzupparsi nel torbido sicuri di ottenere notevoli vantaggi.

    Dal Vietnam alla Libia, passando per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, gli attori politici del mondo intero si comportano come vivessero ancora ai tempi di Machiavelli. Ma le regole della guerra sono nel frattempo completamente mutate.

    Le vere guerre del presente non si vincono con le armi, anzi si perdono con esse.

    Per vincere davvero una guerra nello spazio terrestre bisogna evitare accuratamente di usare le armi. Solo chi ci riesce può ritenersi vittorioso.

    I contendenti di una guerra a base d’armi sono

    sconfitti già prima di iniziare a combattere indipendentemente dall’esito militare del conflitto.

    Le armi sono solo zavorra di cui liberarsi se si vuole volare.

    È in ambiente extraterrestre lo spazio prediletto delle guerre prossime venture.

    Nello spazio extraterrestre e nel giuoco. Il rapporto tra giuoco e guerra si è invertito.

    Un tempo il giuoco simulava la guerra. Ora è la guerra a simulare il giuoco. Non è più il giuoco a preparare gli umani alla guerra, ma al contrario, la guerra a preparare gli umani al giuoco.

    Per l’economia globale l’esercizio delle armi ha un effetto molto più inibitorio che benefico.

    Per esportare la qualsiasi cosa non servono le armi. Le informazioni in forma di idee, di spettacolo, di bit, di denaro e di relazioni bastano e avanzano.

    Il multipolarismo, il bipolarismo o l’impero non funzionano più. Resistono come antichi retaggi di una storia consunta. Sconfitta irrimediabilmente dalle sue stesse armi.

    L’Europa non è condannata a rimanere un soggetto politico, ma a divenire un vettore pianetico.

    L’Europa vettore pianetico. Cosa vuol dire? Vuol dire che, proprio in virtù della sua inconsistenza militare, l’Europa è costretta a guardare il pianeta da

    altra prospettiva.

    Non come parte in ansia di conquistare il tutto, ma come parte di un tutto interamente da definire e da condividere, oggi, domani e sempre.

    Il carattere dell’Europa è oblativo. Il suo disinteresse è nell’interesse del mondo intero.

    L’Europa per riconoscersi ha bisogno di specchiarsi nel pianeta.

    Ogni altro luogo non può che guardare all’Europa se l’Europa si sottrae allo sguardo proprietario.

    Il Pianeta è uno spazio aperto in cui chiunque è in grado di giocare la sua parte a condizione che tutti possano giocare senza carte truccate dalle armi.

    Non ha senso tentare di esportare la democrazia o di imporre i propri valori. Essi, se hanno sensibilità, affetti e forza diffusiva, si impongono da sé senza bisogno di agenti autoritari e armati a esportarli.

    I valori dell’Europa, ammesso che qualcuno riesca con precisione a definirli, non sono migliori o peggiori di altri. Ciascuno li vede tali solo se indossa gli occhiali dell’identità che rendono ciechi anche i falchi.

    Non c’è bisogno di modelli. Il pianeta si modella secondo le sue volontà che sono

    molteplici, come i suoi valori, e sempre in discussione poiché in perenne gestazione.

    Riconoscersi peggiori o migliori è l’atto principiale del disastro.

    L’Europa non aspira a nessun primato.

    L’Europa è prima in ogni cosa come ogni altra cosa.

    Prima tra tutti i primi resi tali solo se si abbandona la folle voglia di diventare primi degli ultimi o primi fra gli ultimi.

    Non avere alcun primato da salvaguardare o da rivendicare è la condizione fondamentale per divenire primi anche tra non pari. Per divenire prima in tal guisa l’Europa non può che abdicare alla forza militare rendendo così più forte il pianeta sia nel suo insieme sia in ogni singola parte.

    Ciò che si prospetta non è un mero modello pacifista. La pace è la condizione agognata di ogni guerra. Guerra e pace sono gemelli siamesi. Nella contesa chiunque è colpevole tranne i disertori e gli abdicanti.

    La geopolitica dell’Europa fa cilecca.

    La politica, nata in quello spazio definito Europa, qui ha mostrato il suo fallimento.

    Non c’è governo della polis senza governo del pianeta. Ma il governarsi del pianeta non è affare di comandanti militari, di condottieri, di produttori d’armi.

    L’Europa ha bisogno di difendersi. Ma la sua più grande difesa non sono gli eserciti, il nucleare, le armi. La sua difesa massima è l’intelligenza. L’intelligenza che è l’esatto contrario dell’intelligence. Non sono i servizi segreti a tenerla in salvo. Sono invece

    i servizi evidenti.

    Intorno al covid, alle questioni monetarie e al cambiamento climatico Europa mundi ha iniziato molto timidamente a intravedersi.

    Se il pianeta è libero, l’Europa lo sarà. Se il pianeta è salvo, l’Europa non mancherà di godere della sua salvezza. Se il pianeta è ricco, l’Europa non si trastullerà nella miseria.

    L’Europa è la placca dell’idea di mondo necessaria per bloccare la deriva politica di questo come di ogni altro spazio incontinente.

    Europa mundi è terra, oceano, cielo. Europa mundi è in Asia, è Africa. Europa mundi è sponda del mondo intero. È il mondo nuovo di ogni mondo. Ed è il mondo di ogni nuovo mondo.

  • Il comunismo

    Il comunismo

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

  • Vassalli o liberi dagli americani?

    Vassalli o liberi dagli americani?

    Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941. Dopo avergli spedito milioni di emigranti italiani e senza che gli USA ci avessero torto un capello. E pure a tradimento gliel’abbiamo dichiarata, poche ore dopo che avevano subito la coltellata alla schiena dell’attacco a Pearl Harbor.

    E abbiamo perso la guerra.

    Sono arrivati, ci hanno cacciato dall’Africa, ci hanno invaso e alla fine ci hanno sconfitto. E non contenti, ci siamo divisi in due e una metà dell’Italia ha continuato a combattere contro gli americani.

    Chiunque altro ci avrebbe massacrati, triturati nel macinino da caffè e utilizzato la polvere come concime, trasformando l’Italia nel 51° stato dell’unione.

    Invece, non solo non ci hanno massacrati, né hanno massacrato i nostri emigrati. Ci hanno dato una mano a liberarci dai nazisti, ci hanno finanziato la ricostruzione e oggi siamo del tutto liberi di fare domande come questa e di scrivere una marea di risposte e commenti antiamericani che una marea di imbecilli non tarderà a postare.

    Direi che possiamo considerarci alleati. E fortunati.

    Dall’altra parte, sono stati invasi, conquistati, massacrati e occupati. E se qualcuno si azzardava a dire una parola contro i sovietici, finiva per concimare i licheni in Siberia. Non a spargere concime. Proprio lui diventava concime. E oggi con la Russia è lo stesso: se ti va bene finisci in galera, se ti va male ti entrano in casa con i carri armati, dopo una spruzzata di razzi e bombe come aperitivo.

    Direi che quelli erano (e qualcuno lo è ancora) vassalli.

  • Cause guerra Ucraina

    Cause guerra Ucraina

    Lo storico greco Polibio diceva che le guerre hanno tre cause:

    1. La profasis: la scusa raccontata al popolo per giustificare il conflitto e il sacrificio.
    2. L’aitia: la causa effettiva della guerra, riscontrabile spesso in un interesse economico.
    3. L’arché: l’evento o la scusa che porta, in concreto, all’inizio della guerra

    Tali aspetti si possono riscontrare in tutti i conflitti, basti pensare alla prima guerra mondiale. In essa, l’arché (la scusa), è stato l’omicidio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e della moglie ad opera di uno studente serbo. L’aitia, cioè il vero motivo, era il controllo dei Balcani.

    Nella guerra di secessione americana, il motivo apparente (profasis) era la liberazione degli schiavi dal sud del paese, ma la vera ragione era che il nord non riusciva a competere contro i prezzi troppo bassi del sud dovuti alla manodopera gratuita. Inoltre, al nord servivano operai per le industrie e gli schiavi potevano essere una soluzione. L’arché è stata la dichiarazione di indipendenza di alcuni stati meridionali.

    Nell’Unità d’Italia la profasis è stata l’unificazione nazionale, ma l’aitia è stata la paura dell’Inghilterra nei confronti dell’espansione francese verso sud e l’economia sempre più crescente dei Borboni.

    Ora, ritornando all’Ucraina.

    La profasis è la scusa russa di “denazificare” l’Ucraina. Una paura ancora viva in Russia. Una parte dell’Ucraina orientale aveva chiesto l’indipendenza i quanto si sente vicina all’identità russa. Vi furono delle repressioni assai sanguinose con dei crimini contro l’umanità compiuti da Kiev e riconosciuti nel 2016 dall’ONU. Alcuni battaglioni ucraini erano famosi per essere spalleggiati da estremisti di destra. Il presidente Zelensky non ha mai preso le distanze da questi eventi e ciò ha incrementato la profasis.

    L’aitia, il vero motivo, è riscontrabile sul fronte economico. La Russia ha investito molto nella parte orientale dell’Ucraina. Essa è anche la zona più ricca di risorse, come il grano e giacimenti minerali. Possiede i più grandi giacimenti di litio: metallo sempre più richiesto per la realizzazione di batterie. Vi sono anche tante centrali nucleari e parecchia manodopera. Inoltre, vi è il passaggio dei gasdotti, per cui gli ucraini volevano rivendicare il diritti di passaggio.

  • Il dramma di Meloni

    Il dramma di Meloni

    Per chi crede ancora nelle ragioni della buona politica, il Riformista fa un regalo prezioso: le riflessioni di uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: il senatore Rino Formica.

    In molti hanno parlato e scritto di quelle del 25 settembre come di elezioni “storiche”. Lei che la storia politica italiana l’ha vissuta per decenni da protagonista, come la vede?
    In questo Paese diventa storico il suono della sveglia. Quel voto è una sveglia. Il Paese era nell’area della tranquillità, della serenità. Nella politica italiana vi sono due periodi fondamentali: uno fino al ’92 e poi quello dal ’92-’94 e seguenti. Sino al ’92 questa tranquillità di fondo veniva data da un forte rapporto fiduciario tra il cittadino e la democrazia organizzata. Era quasi un rapporto di carattere religioso. È come la fede nella religione. Anche la religione ha un problema di rapporto tra fede e ragione. Nella fase di sviluppo naturale della democrazia in Italia, nei primi 40-50 anni di vita repubblicana, essa era in parte legata alla ragione delle classi dirigenti e in parte alla fede di massa. Il legame tra fede di massa e ragione delle classi dirigenti portava ad una sintesi tra fede e ragione. Questo si è rotto all’inizio degli anni ’90.

    Perché senatore Formica?
    Perché è venuto meno il sistema di rete della democrazia organizzata. Questa mancanza di rete della democrazia organizzata è stata interpretata dalle classi dirigenti, che si sono immediatamente adeguate al nuovo corso dimostrando così tutta la natura profonda dell’opportunismo e del trasformismo di cui erano intrise ma che era coperto da una condizione che era propria della democrazia organizzata, e così abbiamo avuto un progressivo distacco tra masse popolari e non solo la democrazia organizzata nell’interno del sistema ma un distacco con le istituzioni. Questo distacco dalle istituzioni non modificava le condizioni di diseguaglianza di carattere economico, sociale, civile e territoriale del Paese. Quelle restavano tutte in piedi e questo in un mondo che stava cambiando con la globalizzazione. E la globalizzazione portava a un nuovo e diverso livello le conoscenze di massa in sede globale. L’elemento della coscienza per via di conoscenze da parte delle masse nel mondo, non aveva però un elemento coagulante e unificante su scala globale. Perché su scala globale restava unificante la forza impetuosa del capitalismo che sganciato dai compromessi nazionali diventava sempre di più una forza di un imperial capitalismo. Questo imperial capitalismo era sbilanciato. Perché da una parte era l’imperial capitalismo tutelato da minoranze detentrici del potere dell’ineguaglianza nella società e dall’altra parte vi erano le grandi masse che prendevano coscienza che non era sufficiente la presenza ma il protagonismo per cambiare le condizioni andando al cuore del capitalismo imperiale. Tutto questo poneva un problema…

    Quale?
    Il problema che quello che era stato detto e gabellato e cioè che la società evolvendo, il progresso di carattere economico e la diffusione del benessere nel mondo sia pure in parti ineguali, spegneva la lotta di classe. La lotta di classe c’è. Sicuramente è più complicato poterla interpretare e poterla guidare perché le classi non sono più regolabili in un conflitto sociale su base nazionale ma su base universale dove le lotte di classe sono differenziate, ineguali e diverse tra di loro. E qui nasce il problema.

    Di che problema si tratta?
    Se si osserva bene, si coglie il fatto che le uniche forze che hanno un elemento di unificazione a livello sovranazionale sono le grandi religioni. Le grandi religioni hanno percepito questo elemento di inquietudine generale. Il mondo è inquieto. Cosa vuol significare il Papa quando dice che bisogna cambiare il modello di sviluppo? Questo era il linguaggio che negli anni ’70 era degli extraparlamentari. Cambiare il modello di sviluppo. Cioè si pone il problema della inadeguatezza dell’imperial capitalismo. Ma le religioni non sono in condizioni di condurre una lotta politica perché per condurre una lotta politica le religioni devono perdere il loro carattere universale e diventare nazionali. Come lo è diventata improvvisamente la Chiesa ortodossa russa che ha dovuto perdere il carattere universale e ha dovuto affermare, per diventare nazionale, che c’è una sanatoria dei peccati se vai a combattere in Ucraina. Resta il fatto, enorme, che le religioni universali pongono il problema non solo dell’inadeguatezza ma della ingiustizia intrinseca, strutturale, di quei processi politici, economici e sociali che non soltanto non hanno attenuato le condizioni dell’ineguaglianza ma che hanno esasperato le vecchie ineguaglianze e creato delle nuove. Qui sta la crisi della politica e delle sue forme organizzate. Il non essere all’altezza di questa sfida del cambiamento globale e globalizzato. D’altro canto la storia del Novecento sta lì a ricordare che il capitalismo quando si è trovato in difficoltà è diventato repressivo e guerrafondaio. E questo può accadere anche con l’imperial capitalismo che, messo alle strette o comunque in difficoltà, trova la soluzione della guerra. Noi ci troviamo di fronte al rischio che la riflessione di carattere politico generale della nuova globalizzazione delle conoscenze, che potrebbe spingere l’umanità a creare delle forze internazionaliste di organizzazione delle condizioni umane differenziate che ci sono nella società, i deboli con i deboli contro i forti che sono una minoranza non solo nelle realtà nazionali ma sempre più minoranze nell’assetto globale, si possa bloccare questo processo di riflessione attraverso una espansione del conflitto oggi in Europa e domani chissà dove.

    Quelle che lei ha fin qui sviluppato sono riflessioni di portata epocale. Ma venendo alla politica italiana, lei non ritiene che una sinistra o comunque una forza progressista, il Pd, per provare a ritrovare ragione di sé proprio su queste grandi tematiche dovrebbe cimentarsi e non avvitarsi nella spirale mortifera di una resa dei conti sul nuovo segretario?
    Ma porta su di sé il peso enorme di trent’anni in cui ha sposato la linea dello svuotamento del sistema politico. La sinistra è stata artefice dello svuotamento politico del sistema. E qui sta il suicidio politico. Perché lo svuotamento politico del sistema colpiva innanzitutto la sinistra.

    Perché, senatore Formica?
    Vede, i conservatori hanno una politica oggettiva che cammina da sé. Conservare l’esistente. A sinistra la politica è intrecciata indissolubilmente al cambiamento. E quando questa politica viene meno all’interno del sistema, viene meno l’esigenza del cambiamento e con essa la sinistra stessa. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, l’interrogativo attorno al quale provare a sviluppare una riflessione collettiva dalla quale dipende l’esistenza stessa futura della sinistra, è perché la sinistra è andata progressivamente perdendo consenso, entusiasmo, passione, capacità di essere forza creativa nella società, capace di modificare, di innovare, di riformare. Perché?

    Una domanda “esistenziale”. Qual è la sua di risposta?
    Perché si è lasciata guidare dalla destra. Il minimalismo sociale è una scelta ideologica. Il minimalismo sociale non può non produrre che il populismo massimalista. L’indifferenza istituzionale non può non provocare che l’abbandono della via democratica alla costruzione del proprio sistema di vita e all’ingresso di forze dominanti che finiscono per diventare prima reazionarie e poi repressive. Ecco perché hanno ragione coloro che dicono che la responsabilità non è del gruppo dirigente in carica nel momento dell’ultima clamorosa sconfitta della sinistra. La responsabilità è di tutta quanta la classe dirigente, il ceto politico dominante della sinistra da trent’anni a questa parte, accumulando una serie impressionante di errori. Alcuni dei quali sono partiti non con la consapevolezza dell’errore ma come una furbizia per mimetizzare la propria determinazione di rovesciare il tavolo senza che nessuno se ne accorgesse, spacciando una presunta furbizia per machiavellica capacità tattica. Ma alla fine la legge bronzea della quotidianità del vivere ha fatto sì che il trasformismo delle classi dirigenti sia diventato un trasformismo per adeguamento e per rassegnazione delle masse popolari. Ma di questo non possono godere neanche i vincitori di queste elezioni, cioè Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Vuol sapere qual è il vero dramma della Meloni?

    Sono tutto orecchie, senatore Formica.
    Lei avrebbe avuto tanto, ed era attrezzata per poterlo fare, un gran desiderio di poter essere l’Evita Peron della socialità di massa populista in Italia. Ma sarà condannata dalla forza delle cose ad essere una burbera Thatcher senza neanche avere l’autonomia della guida. Perché la guida spetta ad altri. Su sede sovranazionale. Ne vuole la prova?

    Certo che sì.
    Questa maggioranza si riunirà il 13 ottobre. Con la maggioranza che ha, con il tempo che ha avuto per ristabilire l’ordine al proprio interno, per avere la certezza di una maggioranza di governo, in tre giorni Meloni avrebbe potuto definire gli organismi dirigenti interni, eleggere i suoi organi di rappresentanza in Parlamento, avere l’incarico dal Presidente della Repubblica e presentare in ventiquattr’ore il nuovo Governo. Sarebbe stato un gesto corrispondente al superamento di una legge elettorale balorda. Almeno si poteva dire di lei che in tre-quattro giorni aveva saputo eleggere gli organi per l’efficienza del Parlamento e gli organi di Governo del Paese. Invece no. Il “lord protettore” le ha detto che il 20 di ottobre alla riunione dei capi di Governo dell’Unione Europea va lui. E che la campanella passerà di mano alla fine di ottobre. E la Meloni non ha risposto con l’orgoglio di una maggioranza indicata dal voto popolare, sia pure con una legge balorda, e insediata in Parlamento, col dire: no il 20 ci sarà probabilmente il nuovo Governo e a quella riunione ci sarò io che di quel Governo sarò la premier.

    Quando fa riferimento al “lord protettore” della premier in pectore, il suo nome e cognome è Mario Draghi.
    Mario Draghi adesso ma chi per lui domani. Un “lord protettore” che guiderà la destra italiana a stare nel solco del conservatorismo parassitario europeo ci sarà comunque. È la funzione che conta non il nome di chi sarà chiamato ad esercitarla. Noi siamo sotto protettorato. Oggi il “lord protettore” più credibile sul piano internazionale e più disponibile per il momento è Draghi. E probabilmente lo sarà. Sicuramente per il primo semestre di questo Governo.

  • La dettatura europea

    La dettatura europea

    Sovente viene evocata a sproposito la nozione di dittatura: dittatura sanitaria, dittatura di Bruxelles…

    La dittatura evocata esprime il timore pallido – non la convinzione granitica – che il potere politico si concentri in un solo organo o in una sola persona.

    Al timore agito enfaticamente e demagogicamente su ogni genere di media si accompagna tutto un lamento inscenato e insensato sul bisogno di politica e sui guasti dell’antipolitica. La politica viene richiesta a gran voce come nobile rimedio per ogni situazione mentre è essa, la politica, la causa di tanti problemi. Il motivo è semplice: la politica è organicamente incapace di far fronte alle questioni preminenti della contemporaneità i quali necessitano di uno sguardo largo e cooperativo, pianetico, non dello sguardo miope e proprietario tipico della politica. [1]

    La politica non è una leva di progresso, ma solo una componente macchinale e consunta dell’organizzazione sociale.

    La nozione di dittatura poco serve a visualizzare l’immagine dei poteri politici presenti, non solo in Europa.

    Più utile potrebbe risultare la nozione di dettatura.

    Per quanto abbiano delle affinità linguistiche e musicali, la dettatura è ben diversa dalla dittatura ma non è di minore importanza.

    Differentemente dalla dittatura, la dettatura indica una situazione nella quale le decisioni da prendere sono storicamente segnate. La dettatura è indifferente agli organi o alle persone, si enuncia con le cose in divenire, con le cose da realizzare indipendentemente dalle persone che la interpretano.

    La dittatura nasce da uno stato incerto e dalla speranza che la forza ( di una persona o di un partito) sia in grado di risolvere i problemi.

    La dettatura nasce invece dallo stato di certezza e dalla sicurezza che la strada intrapresa sia in grado, se non proprio di risolvere i problemi, di affrontarli al meglio secondo i canoni costituiti.

    La dittatura concentra il potere e lo personalizza.

    La dettatura al contrario rende possibile la massima diffusione del potere e ne istituzionalizza la parte macchinica, politica.

    La dittatura annulla la democrazia distruggendo tutti i suoi riti. 

    La dettatura è una più alta forma di democrazia perché mantiene intatti i suoi riti e rende possibile il massimo potere diffuso del demos sottraendogli ed evitandogli la responsabilità e la noia della decisione della macchina politica.

    La dittatura arriva dove la democrazia perisce.

    La dettatura dove la democrazia mantiene i suoi riti anestetizzandone gli spasmi.

    La dettatura non si fonda sul primato degli uomini, ma su quello delle cose.

    La dettatura è amnio e alveo entro cui si decidono e si producono le cose quando il cammino è ben segnato.

    La dettatura non è un limite della macchina politica o il canto del cigno della democrazia, ne è invece il  rituale compimento.

    L’indifferenza alla politica sotto il regime della dettatura non marca la generale insensibilità, anzi può avvenire in presenza di una sensibilità sociale diffusa capace di esprimersi in tutti gli altri campi della vita vivente.

    Nell’epoca della dettatura, la politica si muove entro binari definiti. Finché questi binari assicurano l’esercizio del potere diffuso, il potere rituale del popolo – i rappresentanti, le elezioni, le istituzioni – è salvo.

    La dettatura è dunque la forma che il potere politico assume quando la direzione è certa. In Italia e in Europa, in questo momento, l’orizzonte è chiaro.

    Ciò che occorre fare, ciò che si può fare, è già interiorizzato dalla macchina istituzionale che è avviata nella sua direzione.

    L’Italia è sotto dettatura. Comunque vadano le cose, per chiunque si voglia votare, il regime della dettatura comporta che le cose proseguano il loro corso nell’alveo già fissato da almeno 6 anni.

    L’amnio della dettatura è segnato:

    1. dal nuovo corso dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno unito;
    2. dal ruolo di leadership che il Paese inevitabilmente deve avere in Europa;
    3. dal ruolo autonomo e pianetico che l’Unione europea inevitabilmente assume;
    4. dalla crisi climatica;
    5. dall’asimmetria demografica.

    Tali priorità rendono fantasmatiche le frontiere e necessiterebbero di una visione pianetica, la quale impone una totale messa in mora dei paradigmi della politica.

    In assenza di una visione pianetica, i governi sono costretti a comportarsi seguendo, magari in modo acefalo e tortuoso, l’onda.  Quando deviano dalla direzione di marcia sono costretti – dopo aver sbattuto contro la realtà delle cose – non da qualcuno ma da quella medesima direzione a riseguitare il cammino. In questo caso, mancando alla politica – per intrinseca deficienza – la capacità d’interpretare la direzione e di seguirla, tocca alle istituzioni dettare le regole, istituzioni generalmente guidate da persone indipendenti dalla politica o che si rendono tali in forza del loro ruolo istituzionale.

    La dettatura diviene il luogo della decisione effettiva al di là di ciò che deciderebbe la politica e in forza della sua impotenza.

    In regime di dettatura, alla politica tocca solo l’indispensabile ruolo di confermare tramite tutti i rituali del voto le decisioni già dettate dalle forza delle cose.

    L’Italia vive da tempo sotto la dettatura di Mattarella e di Draghi, ma anche in loro assenza la dettatura rimarrebbe in vigore. Solo in caso di rivolgimento regressivo e funesto della situazione la dettatura verrebbe meno.

    In caso di shock – uscita dall’UE e dall’Euro, indifferenza ai problemi climatici, distruzione dei diritti civili, guerra ai migranti -, quando si rischia che il cammino prestabilito venga disarcionato, allora si comincerebbe a sentire il lezzo della dittatura.

    Dettatura, democrazia e libertà

    L’Italia e l’Europa sono sotto dittatura? Ha ancora senso che ci siano le elezioni? Qualcuno pensa ancora di votare veramente? Se sì, per chi? Per che cosa? Gli eletti hanno voce in capitolo?

    E il parlamento, è in grado di decidere qualcosa?

    Tutte legittime domande poste ogni qualvolta in Europa si replica l’indispensabile benché esausto rito delle elezioni.

    Esausto perché privo di pathos, privo di passione, incapace di elevare anche il meno nobile impeto dell’animo umano, capace solo di intercettare qualche profanissimo interesse della mediocrità generale. Rito stancamente riprodotto su scene calcate da attori stinti, improvvisate passerelle di transeuntissimi protagonisti dell’ultima chiacchiera di cortile, pessimi presunti salvatori di patrie ormai estinte.

    Tutto questo orrifico circo della politica prolifera tra annoiati commentari ma anche tra estese voci che ostentano indignazione mentre piluccano nella consunzione generale.

    La storia quando è esausta non abbandona facilmente i riti. Spesso li conserva anche quando risultano botulinosi.

    Non è sragione la sua, anzi è raziocinio puro. I riti della politica infatti tanto sono esausti tanto risultano essere ancora indispensabili.

    La domanda alla quale occorre rispondere è proprio questa: perché ciò che esausto anziché perire in fretta prolunga all’infinito la sua agonia?

    La sfinitudine della politica si esprima con la massima impotenza nel rito elettorale.

    Nel rito elettorale non c’è la festa, non c’è l’attesa. L’entusiasmo non è di casa illo tempore.

    Per ridare un po’ di carica fibrillatoria alla noia elettorale ci sarebbe bisogno di qualche pallida o effettiva paura (il fascismo alle porte, l’aborto cancellato, l’invasione dei migranti).

    In effetti, in Francia, in Italia, in Svezia o altrove si è vista qualche minimale paura all’opera, ma poi inevitabilmente la paura sfuma in fretta. Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nelle ultime elezioni, dopo qualche spasmo digitale, si rimette in carreggiata. La marcia della democrazia riprende a macinare i suoi felpati passi lungo il cammino della dettatura.

    Tutto sembra inutile, eppure tutto rimane così indispensabile. Perché?

    Perché, per quanto decerebrato, è nel rito elettorale che si coglie il carattere indispensabile della democrazia.

    Senza libere elezioni non c’è democrazia. Senza democrazia niente libere elezioni.

    La democrazia è nota per essere il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri.

    Nonostante tutti i suoi limiti, non c’è regime politico migliore della democrazia. La democrazia è la più alta forma di politica. Lo è perché tutti i suoi ciclopici limiti intrinseci anziché assassinarla la rafforzano.

    La democrazia è il regime politico che rende possibile sentirsi universalmente liberi. Sentirsi liberi equivale a essere effettivamente liberi? Ovviamente no.

    È il sentirsi liberi al di là dell’esserlo effettivamente.

    Nella democrazia tutto può essere deciso finché le masse pensano di deciderlo tramite il voto.

    Il voto, questo esausto rito, è lì a dimostrare che la libertà è data proprio nel momento in cui essa viene meno.

    La democrazia è il regime della facoltà. La facoltà, in questo regime, conta più dell’effettività. La facoltà di votare, per esempio, conta più del voto. In effetti, una parte considerevole della popolazione non esercita il suo diritto.

    Nella facoltà si esprime l’intima connessione tra la simulazione e la realtà, tra la rappresentazione e l’espressione.

    La rappresentazione elettorale simula l’espressione sociale senza mai poterla realmente compiere.

    Tanto più la simulazione si tiene in vita tanto più l’espressione sociale è attiva.

    La simulazione – per quanto marginale –  è parte costitutiva della realtà. 

    La libertà ha a che fare con la facoltà. Essa si esprime nel suo esercizio, ma si esalta quando l’esercizio viene sospeso da chi lo possiede. La libertà non si esprime quando si ha l’obbligo di esercitarla ma quando è  facoltà che può non essere esercitata. Non c’è musica senza silenzio.

    La facoltà di votare fa sentire liberi, ma il non esercizio del voto – volontario, autonomo da ogni prescrizione – non è contrario della libertà, né la limita, tutt’altro. Ne è semmai intima espressione, privilegio afferente a chi presume che l’inesercizio del voto non metta in alcun modo a rischio il resto delle facoltà.

    L’indifferenza verso la politica nella contemporaneità, anziché marcare, come i più ritengono, l’insensibilità generale della popolazione, esprime questo privilegio. Simile privilegio si manifesta – soprattutto tra la popolazione giovane – riguardo alle attività e al tempo di lavoro.  Anche la scelta tra lavorare e non lavorare, tra attività autogestite o eterodirette, con tempi di lavoro limitati o espansi a tutta la giornata biologica va a marcare il tempo presente.

    La libertà esiste se c’è possibilità di scelta. La prima opzione – votare o non votare – non inibisce la libertà, anzi la esalta.

    Chi non vota perché non desidera esercitare la facoltà non è detto che si senta meno libero di chi si comporta in modo avverso, anzi.

    L’indifferenza verso il voto e verso la politica – anche se è espressione di variegatissime situazioni – indica comunque una diversa concezione della libertà.

    Tale concezione può esprimersi con due metafore, dei semafori e dei pompieri.

    Ciò che interessa alle persone comuni – ciò che le fa sentire libere, ciò che permette loro di essere libere – è che i semafori funzionino e che i pompieri intervengano celermente in caso d’incendio.

    Una volta tranquilla sui semafori e sui pompieri, chiunque può concentrarsi sui suoi interessi, sulla sua vita, indifferente al chiacchiericcio politico.

    Ma questo sentirsi liberi ha davvero a che fare con la libertà?

    Chi si sente libero non è detto  che non lo sia.

    Si sente libero chi crede di sviluppare i propri interessi, le proprie attitudini senza subire pregiudiziali limitazioni esterne.

    Chi si sente libero certamente lo è, ma ben al di sotto di quanto presume, ben meno delle reali possibilità. È libero fino ai limiti imposti dalla situazione. Se oltrepassa i limiti, se li vìola, se li sfida, la sua libertà se ne va a ramengo.

    La politica è un limite alla libertà o è una sua leva?

    La democrazia è il regime peggiore, esclusi gli altri, perché il potere del demos – che ufficialmente viene esercitato per suo conto dai rappresentanti o si esercita in modo diretto – rimane in buona parte al demos. Quel demos che delega volentieri la parte politica del potere come escamotage per trattenere tutto il resto.

    La democrazia permette che l’esercizio del potere diffuso marginalizzi nella società e nell’esperienza della vita singolare il ruolo della politica.

    Quel demos indistinto che ha interessi, passioni, gusti attitudini, attributi, comportamenti estremamente variegati. Più questa variegazione è in grado di esprimersi, meno è importante il potere sul demos. La politica si sgonfia in misura proporzionale alla crescita di questa variegazione.

    Tutto questo insieme esprime il vero status del potere contemporaneo. Intenderlo ancora come attributo unico o preponderante della politica è anticaglia priva di qualsiasi valore.

    Il potere diffuso è il miglior antidoto contro il potere politico.

    Alla politica rimane di governare a fatica soltanto la sua incapacità di governare. 

    La dittatura è l’espressione più nefasta della politica.

    La dettatura è un bagno di luce sul suo tramonto.

    Il tramonto della politica annuncia la necessità della pianetica.

    La dettatura è la fase necessaria e transitoria tra la politica e la pianetica.


    [1] Per approfondire la differenza tra la nozione di Politica e quella di Pianetica, vedasi Lettera al Presidente Putin, maggio 2022, rilasciata dalla news letter di Pianetica, e Pino Tripodi – Giuseppe Genna, Pianetica, febbraio 2022, libro autoprodotto disponibile al link https://milieuedizioni.it/product/pianetica/

  • Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino

    Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino

    Paolo Guzzanti — 10 Giugno 2022

    Non è mai esistita una dura (ma cavalleresca) Guerra Fredda fra due ideologie, il Capitalismo e il Socialismo, a causa delle quali due mondi si sono fronteggiati per mezzo secolo con le armi al piede finché una delle due è implosa– la Russia sovietica – lasciando l’altra, l’America vincitrice unica e padrona del campo. Mai. Ci abbiamo creduto quasi tutti. Ma Enrico Berlinguer, che però non seppe sfruttare in modo vincente la sua intuizione, lo capì al volo. Fu quando gli americani fecero al Cile – in modo traumatizzante ma meno cruento – quel che la Russia oggi fa all’Ucraina.

    La situazione allora era simile a quella che seguì la fine delle guerre di religione in Europa. Se sei il Cile, devi stare in campo americano e se sei Ucraina (o Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) devi stare in campo russo, zitto e Mosca. Berlinguer vide che fine aveva fatto Salvador Allende, analoga a quella di Imre Nagy in Ungheria o di Dubcek a Praga, o dell’angosciato Gomulka a Varsavia, e scrisse una serie di articoloni su Rinascita in cui diceva più o meno così: cari democristiani, noi comunisti sappiamo che voi vorreste fare un governo con noi comunisti lasciando a secco quei maledetti socialisti che abbiamo sempre odiato. Ma gli americani non vogliono comunisti in alcun governo in cui si condividano segreti militari per la sempre imminente guerra con la Russia, e allora io ho avuto un’idea: cerchiamo di aggiustarci fra di noi dando garanzie militari al nostro referente egemonico per evitare che quello, in preda a una crisi di nervi, ci faccia fuori. All’altro referente egemonico, quello di noi comunisti, ci penso io: farò una manovra di lento distacco ideologico ma senza fratture e che dio ce la mandi buona. Lo chiameremo “compromesso storico”.

    La fine è nota. Il punto è: fra il 1946 e oggi abbiamo sempre vissuto un’unica lunga guerra di preludio a una possibile, imminente e mai scongiurata Terza guerra mondiale, quella che se mai scoppierà si giocherà con missili intercontinentali nucleari. Controprova: lo stesso Berlinguer – fallito il grande disegno di escamotage politico con la micidiale liquidazione del partner Aldo Moro (che per conto degli Occidentali avrebbe dovuto fare da garante dal Quirinale, da cui fu sloggiato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con una campagna di stampa condotta in perfetto stile di “disinformatzija” sovietica – riallineato sul fronte strettamente militare della guerra fra Occidente e Russia, scelse la Russia, che aveva schierato contro l’Europa batterie di missili a medio raggio SS20. E lo fece mobilitando tutte le forze politiche di obbedienza moscovita a fare il diavolo a quattro affinché non fossero schierati, in risposta ai missili russi, i missili americani Pershing e Cruise adatti a riequilibrare il gap strategico.

    In Italia vinsero gli euromissili grazie allo schieramento dei socialisti di Craxi e i repubblicani di Spadolini e questo evento politico si trasformò in un atto di guerra politica violentissima di cui abbiamo perso memoria. E qui siamo al dunque: chiunque abbia la curiosità e la pazienza di leggersi i verbali di tutte – tutte – le riunioni annuali dei membri del Patto Di Varsavia – l’Anti-Nato dell’Est – troverà che l’esercitazione era sempre la stessa: “Di fronte ad un vile e proditorio attacco degli eserciti al comando degli Stati Uniti contro le democrazie popolari e dell’Unione Sovietica, le forze del Patto di Varsavia respingono l’attacco e rispondono con una controffensiva che ricaccia gli invasori fino all’Atlantico e li getta in mare”. Tutta la storia della Guerra Fredda è stata un contenuto preludio ad una sempre possibile guerra calda perseguita dal Cremlino, chiunque ci fosse dentro, in vista di una strategia molto semplice che fu studiata ed attuata con particolare cura da Yuri Andropov, il più perfido e geniale capo del Kgb poi diventato segretario del Pcus e sponsor di Michail Gorbaciov. L’operazione era questa: portare l’Europa occidentale in Russia e la Russia in Europa.

    Però la Russia sovietica commise l’errore di svenarsi inoltre i limiti della sua possibilità per ottenere la potenza militare utile per una operazione come quelle descritte nei verbali del Patto di Varsavia e quando il Presidente Donald Reagan dette a bere ai russi di poter varare un costosissimo piano di guerre stellari, l’ex pupillo di Andropov, l’allora giovane Michail Gorbaciov si sottomise con un piano di resa che prevedeva lo sganciamento dei Paesi satelliti che costituivano un peso insostenibile e l’accesso a un enorme prestito per salvare l’economia russa. Fu lì che avvenne il baratto fra i confini della Nato e i prestiti occidentali. Sono stato per cinque anni membro della delegazione parlamentare nella Nato e non ho sentito parlare altro a Washington che della inutilità della Nato che gli americani volevano chiudere perché oltre che inutile era ed è molto costosa, mentre gli europei insistevano perché i paesi che come la Polonia avevano assaggiato le delizie di una dominazione sovietica, volevano assolutamente una protezione americana in Europa alla quale i repubblicani – lo abbiamo ben visto con Donald Trump e la sua politica di America First – non volevano aderire.

    La politica di Trump verso l’Europa era esplicita: fottetevi, cari europei. Pagatevi i vostri eserciti e difendetevi. I russi vi vogliono mangiare? E fanno bene, perché siete una massa di codardi che si arricchiscono mentre noi paghiamo per la vostra sicurezza e indipendenza. Caro Putin, per quanto mi riguarda, ti puoi prendere quell’Europa di parassiti, Noi americani non spenderemo né un dollaro né una goccia di sangue per loro. Non così la pensano i democratici che, come gli inglesi, hanno un conto eternamente aperto con la Russia per tutte le sue spericolate astuzie fin dai tempi dell’infame alleanza fra Stalin e Hitler a spese dell’Europa e degli Stati Uniti. E qui arriviamo al punto di questi giorni: i putiniani. Chi sono, se ci sono. Molto semplicemente i putiniani, per la mia esperienza giornalistica e politica, “i putiniani” sono semplicemente tutti gli anti-americani ideologici e spesso religiosi – l’America la nuova Mammona adoratrice dello sterco del demonio – che in Italia sono forse la maggioranza. Il signor Kolosov che guidò la “residentura” del Kgb a Roma per molti anni, interrogato dalla Commissione di cui ero presidente disse.

    “Tutti gli antiamericani venivano a bussare alla nostra porta e chiedevano di aiutarci contro di loro e di proteggerci, persino, contro di loro. Non erano neppure i comunisti, ma specialmente i democristiani. Parlando a Tripoli con il ministro degli Esteri di Gheddafi, il signor Trekki che si esprimeva in un eloquente francese, costui disse alla delegazione della Commissione Esteri: “Il giorno in cui fu annunciata la fine dell’Unione Sovietica era qui il vostro più grande uomo politico, Giulio Andreotti, il quale pianse e disse: da oggi il mondo è cambiato in peggio: gli americani hanno vinto e saranno padroni del mondo, ci mancherà l’Unione Sovietica”.

    Parole non diverse da quelle pronunciate dallo stesso Vladimir Putin quando dice che la più grande calamità della sua vita è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cui peraltro si sta laboriosamente dando da fare per poter rimediare il danno fatto, rincollandone i pezzi col ferro e col fuoco e col sangue. Basta accendere il televisore dopo le venti e trenta per trovare sciami di sapienti che di fronte all’invasione armata di un Paese europeo da parte della Russia gridano che è certamente colpa degli americani ed è molto più di un riflesso condizionato: è – questa è la mia opinione – la coincidenza immediata con il puntinismo, che dichiara apertamente la sua vocazione all’imperialismo nazionalista russo, che non ammette giri di valzer, non consente differenze culturali ma ha bisogno di fedeltà pronta cieca e assoluta al Cremlino, come è sempre stato e come sarà per sempre.

  • Complotto continuo

    Complotto continuo

    Mattia Feltri La Stampa 2 giugno 2022

    Urca, sta arrivando un altro diabolico complotto ordito dalle élite globaliste ai danni del povero, indifeso popolo italiano. Oddio, indifeso non so. Infatti a scorgere il luciferino è stata Giorgia Meloni alla lettura di un report di Goldman Sachs, banca d’affari americana, ovvero zoccoli biforcuti e artigli da usuraio. Che ha detto il comitato di aguzzini? Ha detto che, con la salita dei tassi di interesse, e la possibile vittoria alle elezioni di Lega e F.lli d’Italia, sempre molto ringhiosi verso l’Ue, ci potrebbero essere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito. Del resto – aggiungiamo qui – il debito italiano è arrivato a duemila e 786 miliardi di euro (provate a scriverla questa cifra…). Ma a Giorgia non la si fa: i poteri forti ci attaccano perché sono preoccupati e fanno bene a esserlo, ha risposto. Ecco, mettetevi nei panni non dico di un potere forte, anche di un potere medio, o medio piccolo, o un creditore qualsiasi: la risposta di Meloni vi tranquillizzerebbe? Cioè, arriva una che considera la globalizzazione un castello di sabbia di menzogne e, con quella montagna di debito sparsa nei mercati globali, dice che se i mercati globali si preoccupano fanno bene a preoccuparsi. Già la presenza di Matteo Salvini, uno che esulta per un atto di pirateria scambiandolo per una pacifica iniziativa mercantile, non sembrerebbe pienamente rassicurante. Aggiungiamo una leader in pectore la quale, a chi gli ha prestato i soldi, e si spaventa all’idea di non averli indietro, dice ok bello, spaventati pure. Il punto non è se ci siano complotti o no, il punto è che con la destra italiana non ce n’è nemmeno bisogno.

  • La religione è l’oppio dei popoli

    La religione è l’oppio dei popoli

    Peccato che Marx non abbia mai detto così.
    La frase originale era questa, parte di un ragionamento molto più profondo e poetico:
    La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.

  • Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è

    Michele Serra, nell’Amaca di stamattina, inquadra con rara precisione non tanto uno dei guasti del ddl Zan, ma uno dei guasti provocati della sensibilità contemporanea in fatto di diritti. Serra riparte dagli interventi in cui Gianni Cuperlo e Luigi Manconi parlano dell’eccesso definitorio della legge respinta al Senato, e Serra commenta l’eccesso definitorio proponendo una definizione sintetica con cui si può essere in disaccordo soltanto se si è alle prese con seri problemi di convivenza civile: “Nessun essere umano deve essere offeso o discriminato a causa delle proprie scelte sessuali”. Serra corre un serio pericolo a ridurre la questione alle scelte sessuali, ed è un rischio che vorrei correre con lui, perché poi c’è l’aspetto del genere, e si potrebbe aggiungere “e di genere”, ma preferisco correre questo pericolo piuttosto di correre quello di deviare la sua mira da cecchino.

    Qualche giorno fa un amico mi ha scritto una lunga mail per chiedermi conto, lui favorevole, delle mie perplessità sul ddl Zan (l’occasione mi sembra troppo ghiotta e non me la lascio scappare: siccome mi si rimprovera di riempirmi tanto la bocca con la filastrocca dei diritti, ma di non spendere una sillaba per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, ecco, l’ho scritto su Huffpost, sulla Stampa, l’ho detto in almeno uno dei miei interventi settimanali a Radio Capital, l’ho detto in piazza a Bologna a Repubblica delle Idee e lo ripeto volentieri, ditemi dove si deve firmare per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, e io firmo ratto come la folgore). Torno al mio amico. Siccome gli avevo risposto, fra l’altro, che quando la legge penale e più vastamente i codici non parlano di esseri umani ma di ebrei, gay, transessuali, donne e così via, si stabilisce una gerarchia di valori che frantuma il concetto di essere umano (ecco perché sono così felice che Serra abbia recuperato l’espressione, essere umano). Il mio amico ha ulteriormente obiettato che quando sente parlare di esseri umani si allarma più di un po’ perché Adolf Hitler progettò la Shoah rifiutando agli ebrei l’appartenenza al genere umano e sterminandoli proprio per la loro particolare qualifica di ebrei. Ecco, anche il mio amico aveva centrato il punto ma, secondo me, aveva commesso l’errore di ribaltarlo.

    Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle nazioni unite, davanti al disastro di due guerre mondiali, di due bombe atomiche, della sistematica violazione della Convenzione di Ginevra, soprattutto davanti all’orrido mattatoio della Shoah, promosse la riscrittura della Dichiarazione universale dei diritti umani, da cui i Paesi aderenti avrebbero fatto discendere le loro legislazioni. Dico riscrittura perché si partì dal Bill of Rights inglese (1689), dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) redatta in Francia all’alba della Rivoluzione. Il testo dell’Onu (1948) si riprometteva di precisare, di sottolineare, di meglio dettagliare i diritti umani rasi al suolo nel precedente trentennio, una sciagura di cui Auschwitz era la cattedrale. Andate a prendervi quel testo: la parola “ebrei” non c’è. L’articolo uno dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”; l’articolo due aggiunge che “a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.

    Perché, tre anni dopo la Shoah, non c’è un passaggio sugli ebrei? Mi pare evidente, per il totale rifiuto del modo di ragionare di Hitler: mettere un accento sugli ebrei avrebbe significato sottrarli di nuovo alla loro umanità per racchiuderli dentro una qualifica, o dentro un ghetto: ebrei. Quei due articoli sono di una perfezione inemendabile: se faccio del male a un essere umano commetto un crimine, se faccio del male a un essere umano perché è di un altro colore, di un’altra religione, di altra condizione, di altro sesso, commetto un crimine più grave e come tale sarà trattato. Essere umano: soltanto questo è il grande insieme, il resto è riduzione della nostra umanità a qualcosa di secondario.