Categoria: Sociologia

  • Renzi, il Malaussène italiano

    Renzi, il Malaussène italiano

    Come è nato tutto questo odio verso Renzi?

    Come si è costruito, al netto degli errori, lo stigma contro Matteo Renzi? Come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee è precipitato bruscamente nel consenso e viene dipinto da tutti come il male assoluto? Ecco come è stata pazientemente fabbricata, pezzo dopo pezzo, l’immagine negativa del giovane fiorentino. E vi spiego anche perché questo è avvenuto.

    I problemi del nostro paese si sono accumulati in decenni di malgoverno (clientelismo, statalismo nepotistico, mancata costruzione di una pubblica amministrazione efficiente, consenso conquistato e mantenuto, soprattutto negli anni 80, con l’aumento del debito pubblico etc.etc. corruzione endemica, evasione fiscale altissima).

    Eppure oggi il bersaglio principale per gli italiani si chiama Matteo Renzi, omettendo di dire che il giovane fiorentino è stato protagonista solo degli ultimi 4 anni, un periodo troppo breve per aver combinato i disastri che gli si addebitano. Gli rimproverano di tutto, manca solo l’accusa (ma prima o poi arriverà) di essere un complice del mostro di Firenze. Da sinistra a destra, dal nord al sud l’80% degli italiani non lo sopportano, lo giudicano antipatico, indirizzano contro di lui ogni loro malessere incolpandolo di ogni cosa, perfino del fatto che la sera prima hanno litigato furibondamente con la moglie mettendo in crisi il proprio matrimonio.

    Matteo Renzi, suo malgrado, è diventato una specie di signor Maulaussene, una specie di capro espiatorio che serve ad assolvere tutti gli altri, e la storia di questo paese, per le difficoltà in cui ci troviamo.

    Ma come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee quando è arrivato alla soglia dei 43 anni è precipitato bruscamente nel consenso e dipinto da tutti, dal professore universitario al barista sotto casa, come il male assoluto?

    C’è qualcosa di più profondo e di più strutturale della sua semplice antipatia e di un carattere non certamente facile oscillante tra la battuta salace immediata e l’egocentrismo esasperato.

    Non si diventa così impopolari e così odiati in così poco tempo per questi motivi, le storie delle leadership sono piene di leader vincenti egocentrici e presuntuosi.

    La distruzione dell’immagine positiva di Matteo Renzi, che sembrava vincente dopo la vittoria delle primarie e soprattutto dopo il 40% delle Europee, è stata pazientemente fabbricata da una macchina potente al servizio di chi si è sentito minacciato in vari modi dall’affermazione di una leadership che rompeva il politicamente corretto e gli schemi attraverso i quali la politica italiana ma anche l’economia e i media hanno letto e soprattutto interpretato la realtà.

    Non può essere altro che questo. Non può giustificarsi l’eclisse di popolarità di Matteo Renzi con questo o quello errore commesso in questa o quella riforma soprattutto quando i più autorevoli commentatori internazionali (lontani dalle passioni della lotta politica quotidiana italiana) descrivono gli ultimi anni come anni di buon governo e di tante buone leggi.

    Cosa è allora? E, perché, soprattutto? Non basta neanche incolpare il populismo grillino che ha portato l’insulto e la tecnica della distruzione dell’avversario in politica, non basta perché della ossessione contro Matteo Renzi si sono fatti interpreti pezzi importanti delle elites riflessive italiche che semmai hanno usato l’amplificazione delle campagne vaffamediatiche dei grillini per colpire il nuovo leader del PD e la classe dirigente giovane che tentava di farsi strada.

    Si è mosso contro Matteo Renzi un mondo molto variegato dai membri privilegiati dell’ancien regime al vaffanculismo grillofascio,da quel mondo omofobo e razzista perfettamente rappresentato dal nuovo ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e dal pistolero di Macerata a tutti coloro che si sono sentiti colpiti dalle riforme portate avanti dal governo del PD (dai magistrati a cui si sono ridotte le ferie ai professori che non vogliono essere oggettivamente valutati, dai dirigenti dello Stato cui è stato messo un tetto agli stipendi ai caporali colpiti da una legge efficacissima, dai furbetti del cartellino a quelli che non pagavano il canone Rai, etc. etc. etc., la lista sarebbe lunghissima). E non ho dubbi che oltre alla ribellione dei poteri deboli e diffusi anche quelli che hanno davvero il potere di comando della economia e della finanza si sono preoccupati che il giovane fiorentino ridesse il ruolo che gli spetta alla Politica, quella che Aristotele chiamava, se non ricordo male, la regina delle arti, potenziando lo Stato democratico unico modo per tenere a bada gli spiriti selvaggi di un capitalismo che negli ultimi 30 anni grazie alla globalizzazione solo economica e finanziaria ma non politica, ha mandato a monte (senza costruire una più avanzata alternativa al passo con le mutate situazioni sociale) quel compromesso welfaristico che aveva garantito il benessere del secondo dopo guerra.

    Ed una mano importante a questa azione di demolizione mediatica l’hanno data i perdenti della “ditta” che non hanno mai accettato l’esito delle primarie ed hanno sempre trattato il ragazzo fiorentino come un estraneo barbaro. Quella sinistra che veniva ospitata ogni giorno, in maniera ossessiva e sovradimensionata rispetto al loro peso elettorale effettivo, in tutti i talk show per parlare male di Renzi e del PD, utili idioti che hanno lavorato per il re di Prussia.

    Una sinistra che apparentemente parlava di merito e di valori (jobs act, buona scuola, disuguaglianza, povertà) ma che era animata solo da uno spirito di rivalsa nei confronti di chi l’aveva estromessa dai centri di potere dopo decenni in cui in quei centri di potere (stesse al governo o stesse all’opposizione) aveva fatto il bello e cattivo tempo.

    Questo fronte ampio della restaurazione si è trovato compatto per la prima volta ai tempi del referendum costituzionale quando per il NO si è schierato un arco di forze politiche e sociali amplissimo dalla CGIL a Casa Pound passando per tutto lo spettro delle forze politiche italiche vecchie e nuove.

    La campagna sulla deriva autoritaria è stata un capolavoro mediatico che ha dimostrato una inesauribile capacità di ribaltamento della verità. Una Riforma che non toccava la forma dello Stato, che manteneva integro il Parlamentarismo costituzionale efficientando nello stesso tempo i percorsi decisionali e rafforzando così il ruolo della democrazia (quella democrazia che come dicono in tanti è in pericolo quando non riesce a decidere) è stata fatta passare per un attentato alle libertà costituzionali.

    È stata una campagna condotta per evitare quello che per loro era il pericolo maggiore. Il pericolo mortale cioè che una nuova classe dirigente si rafforzasse grazie alla vittoria del SI, con Matteo Renzi che consolidava la sua leadership potendo così continuare senza più nessun ostacolo quell’azione di profondo rinnovamento appena iniziato. Provate ad immaginare come sarebbe cambiata la storia del nostro paese se il SI avesse vinto (ma il popolo, come spesso gli accade, ha scelto Barabba)!!!

    Ma il capolavoro mediatico costruito per combattere la Riforma costituzionale è solo un aspetto (e non certo il più incisivo) di unaazione a largo raggio avviata per distruggere la credibilità di Renzi ed era necessario dopo il referendum completare l’opera ed impedire che quel 40% di SI diventasse un fronte politico compatto.

    Mentre la sinistra interna ed esterna al PD continuava nel suo bombardamento del quartier generale (con l’effetto di far perdere di credibilità agli occhi di tanti elettori che assistevano esterrefatti a liti da pollaio) veniva costruito un altro capolavoro mediatico che ha portato la grande maggioranza degli elettori ad identificare in Matteo Renzi e nella sua giovane classe dirigente i complici di un sistema bancario che aveva provocato la crisi delle 8 banche.

    Cioè il contrario, radicalmente il contrario, di quello che era effettivamente accaduto.

    Ed in un periodo in cui il sistema bancario nel suo complesso non gode del massimo di popolarità essere stigmatizzato come l’amico dei banchieri è stato un colpo mortale alla immagine di Matteo Renzi.

    La “character assassination” di Maria Elena Boschi, una delle più importanti collaboratrici di Renzi, la giovane donna che era riuscita a far votare al Parlamento una Riforma costituzionale che ridimensionava privilegi e costi, è un esempio di scuola di come questo capolavoro mediatico è stato costruito.

    Il frame “Renzi amico dei banchieri che hanno speculato sulla vita delle persone” e quello di “Boschi Madonna Etruria” è penetrato ovunque ed inutilmente il PD provava a spiegare che la crisi delle 8 banche era maturata quando Renzi era ancora sindaco a Firenze e la Boschi una giovanissima avvocatessa del foro fiorentino, inutilmente provava a spiegare che l’azione di governo ha salvato non i banchieri (che invece sono stati estromessi da tutti i consigli di amministrazione compreso l’incolpevole, come ha stabilito la magistratura, Pierluigi Boschi) ma correntisti e risparmiatori compresi gli obbligazionisti ingannati da troppo solerti funzionari bancari, inutilmente provava a spiegare che con la riforma delle popolari sono state eliminate all’origine le cause per cui quelle crisi sono potute scoppiare e che forse c’è stato un intreccio malmostoso tra chi doveva vigilare e le banche sottoposte a vigilanza (nel caso delle banche venete tutto questo è evidentissimo).

    Ed il capolavoro mediatico è stato completato trasformando la Commissione di indagine sul sistema bancario in un palcoscenico dove rafforzare, contro ogni evidenza, questi frame (surclassando il PD che per ingenuità dello stesso Renzi credeva invece di trasformare quel palcoscenico in uno strumento di accusa verso chi effettivamente aveva lucrato).

    Questa sulle banche è stata la campagna mediatica più invasiva e più penetrante ma contemporaneamente sono stati costruiti e fatti girare ampiamenti tra gli oltre 30 milioni di cittadini che usano i social straordinarie fake news molto efficaci.

    Pensiamo alla notizia diffusa ovunque (con foto) della Lamborghini che aveva regalato una sua automobile a Renzi che ci era andato in vacanza ad Ibiza.

    Pensiamo al battage sul famoso aereo di Stato di Renzi che Renzi non ha mai usato e che invece in questi giorni il neopremier anticasta Conte ha usato per andare in Canada.

    Ma pensiamo soprattutto a quella campagna, molto più insidiosa e molto ben costruita, fatta sulla applicazione della Direttiva europea riguardante l’uso dei sacchetti biodegradabili nei supermercati. Per settimane e settimane i social sono stati invasi dacentinaia di migliaia di post in cui si dava per certo che una amica di Renzi aveva il monopolio nella produzione di questi sacchetti e che la norma era stata approvata per favorire questa signora che era appunto una amica del premier. Tutto falso. Ma tutto virale e quindi reso verosimile per milioni di persone.

    Per parecchio tempo prima delle elezioni politiche è stato uno stillicidio di fake aventi come oggetto la demolizione della moralità di Matteo Renzi, direttamente o attraverso persone a lui legate.

    E lo hanno fatto utilizzando tutta l’odierna potentissima strumentazione social molto più invasiva ed individualizzante della già invasiva potenza televisiva. Qualcuno adombra addirittura che, allo scopo ultimo di far vincere in tutta Europa i populisti per indebolirne la forza politica ed economica, i russi abbiano concentrato in grandi capannoni migliaia di persone con il compito di pattugliare il web ed introdursi sotto mentite spoglie nella vita di tutti noi raccontando frottole che diventavano verità per la maggioranza della popolazione che non ha né strumenti né il tempo per difendersi. Uno scenario spaventoso se fosse vero e che rende veritiera la frase di Mark Twain il quale parlando delle menzogne diceva che “una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”.

    Io non so, non ne ho le prove che tutto questo sia vero. So però che è molto verosimile. E so che se una potenza straniera o una potenza economica oggi vuole inondare la mediasfera con notizie tendenziose o fasulle, le tecnologie informatiche e la rete dei social gli facilitano enormemente il compito.

    In passato la controinformazione a fini destabilizzanti contro un Partito, un movimento, uno Stato era già stata usata ma ci volevano risorse sul posto, bisognava scalare giornali (come fu per il Corriere all’epoca della P2) o televisioni (come è stato a cavallo tra prima e seconda repubblica per Berlusconi). Oggi quella azione destabilizzante si può fare a distanza da Mosca, Washington o da qualsiasi periferia dell’impero, senza rischio alcuno.

    La macchina del fango di cui abbiamo parlato finora era poi anche alimentata da quello che Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, chiama il circo mediatico giudiziario, una specie di corto circuito tra alcuni uffici giudiziari e media.

    In questi anni sono decine e decine le inchieste giudiziarie che dalla scrivania della procura passano nelle prime pagine dei giornali. Una regia sapiente che centellina le informazioni dando risalto alle aperture delle inchieste ma nascondendo quando quasi sempre si risolvono con l’archiviazione o per l’assoluzione per inesistenza di ogni presupposto.

    È stato così per il parlamentare lucano Salvatore Margiotta, per la clamorosa inchiesta Tempa rossa finita in un nulla di fatto, per il Presidente del PD campano Stefano Graziano, per il governatore De Luca, per il Sindaco di Ischia Giosi Ferrandino, per il Sindaco di Mantova Palazzi e tantissimi altri casi.

    La notizia delle indagini su di loro ha fatto più volte il giro del mondo, la verità della loro assoluzione si sta ancora allacciando le scarpe.

    Forcaioli e giustizialisti di ogni risma scrivono centinaia di migliaia di post sui social, il PD viene descritto come una associazione a delinquere, il Fatto quotidiano (e non solo) batte la grancassa (e i padri nobili del PD tacciono).

    Il frame dei renziani corrotti entra in tutte le case, nei piccoli paesi, nei bar e nei mercati non si parla d’altro ed il prestigio di Renzi viene pian piano buttato a terra. Ogni giorno, ogni ora, incessantemente.

    E che questo sia l’obiettivo viene fuori clamorosamente quando i bravi magistrati della Procura di Roma scoprono che sul caso Consip c’è un capitano dei carabinieri che taroccava le intercettazioni per mettere in mezzo il padre di Renzi. Una roba che in altre epoche avrebbe provocato uno sciopero generale e la scesa in piazza di grandi masse a difesa della democrazia.

    In questo caso scende solo il silenzio. I grandi organi di informazioni relegano la notizia tra le non rilevanti. E tacciono, lo ripeto, i padri nobili del PD, quelli sempre con il ditino alzato ad indicare gli errori di Matteo Renzi ed a piangere retoricamente sul presunto abbandono dei valori della sinistra.

    Nessuna solidarietà viene al giovanotto fiorentino dai suoi stessi compagni di Partito che sono in minoranza, ed è evidente che le finte prove contro la famiglia di Renzi facevano comodo pure a loro.

    Ma la campagna di delegittimazione quotidiana di Matteo Renzi e quindi del PD è fatta anche di un altro tassello oltre che della furibonda campagna condotta attraverso ingegnose ed efficaci fake news e dell’attivazione del circo mediatico giudiziario.

    Parliamo della azione falsificante compiuta sugli atti di governo tendente a dimostrare non solo l’inefficacia di una politica ma addirittura la complicità di questa politica con coloro che detengono effettivamente il potere economico e finanziario.

    Così è accaduto con il Jobs act di cui non viene messo in risalto quello che è la vera novità della riforma del mercato del lavoro e cioè la nuova e moderna rete di protezione sociale che ingloba figure fin ad ora mai interessate a nessuna protezione ma si amplifica la battaglia ideologica di un piccolo nucleo di sinistra e si taroccano o si nascondono i dati sull’aumento della occupazione parlando di un aumento dei rapporti di lavoro precario quando invece, come spiego QUI in maniera più dettagliata è vero il contrario.

    Si alimenta la fake news della diminuzione delle ore lavorate per spiegare, e quindi sminuire, l’inversione di tendenza del tasso di disoccupazione, fake news smentita dai dati ufficiali che non solo segnalano l’aumento delle ore lavorate complessive ma anche l’aumento delle ore lavorate per dipendente.

    O come è accaduto con la riforma della scuola dove vengono messi in risalto solo i problemi (fisiologici quando si mette mano ad un sistema di nomina dei professori incancrenito da decenni) e si tace sul fatto che il governo Renzi ha fatto uno sforzo enorme in termini finanziari sul comparto scuola dopo i tagli selvaggi degli anni precedenti ad opera di Gelmini e Monti.

    Per non parlare della lotta alla povertà che è stato un chiodo fisso in questi anni e che ha visto oltre al Reddito di inclusione l’approvazione di tante misure indirizzate ad incidere sugli indici di povertà presenti nel nostro paese (cito soltanto, l’elenco potrebbe essere lungo, l’eliminazione delle tasse universitarie per i più poveri e l’abbattimento progressivo per gli altri oppure la cosiddetta quattordicesima per i pensionati al minimo). Uno sforzo che ha visto aumentare gli investimenti sul sociale sia rispetto ai governi Berlusconi ma anche ai governi Prodi e che nessuno però raccontava. (trovate QUI una analisi più dettagliata di questo tema)

    Si poteva e doveva fare di più? Non c’è alcun dubbio. Ma dal dovere e potere fare di più al descrivere Renzi come colui che ha ampliato la precarietà del lavoro, ha distrutto la scuola pubblica e fatto aumentare la povertà, ce ne corre.

    E ritorniamo da dove eravamo partiti.

    Dalla domanda su come e perché è stato possibile che quel ragazzo di 39 anni che aveva fatto sognare il centrosinistra con la straordinaria vittoria alle europee quando è arrivato alla soglia dei 43 anni è precipitato bruscamente nel consenso e dipinto da tutti, dal professore universitario al barista sotto casa, come il male assoluto.

    Renzi ha fatto sicuramente degli errori dei quali sicuramente il più grave per un politico è quello di non aver capito la disposizione delle forze in campo contro di lui (errore evidentissimo al referendum ma che è continuato) e molte riforme sicuramente andavano fatte meglio.

    Ma non per questo di solito si cade così vertiginosamente nella considerazione popolare. Si possono perdere le elezioni ma non è questa la spiegazione del crollo di considerazione e della vera e propria aurea negativa che circonda Matteo Renzi.

    La spiegazione sta in tutto quello che ho provato a raccontare in questo articolo, sta nella paura che, all’establishment debole e forte, ha fatto questo giovanotto di Rignano sull’Arno, paura che non fanno neanche i 5 stelle la cui impreparazione fa dormire sonni tranquilli ai vecchi volponi della economia e della politica e della burocrazia, volponi che nelle situazioni di caos si ingrassano mentre soffrono se qualcuno, come hanno avuto l’ambizione di fare i governi del PD, quel caos lo vuole governare fissando dei limiti.

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    Enzo Puro

    ENZO PURO

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    Aggiornato al 31 marzo 2018www.facebook.com/pensieropuro

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  • Il limbo non c’è più, e nemmeno il purgatorio e anche l’inferno non se la passa tanto bene……

    Il limbo non c’è più, e nemmeno il purgatorio e anche l’inferno non se la passa tanto bene……

    Tanto per cominciare, il Limbo non esiste più, cancellato : lo afferma Papa Ratzinger che, il 21 Aprile 2007, approva i lavori della Commissione Teologica Internazionale concludendo:
    “Serie basi teologiche e liturgiche fanno sperare che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione beatifica”.
    E questa giravolta teologica avviene dopo che, per secoli, il Limbo era rimasto certezza granitica: un fior di teologo, della fama di S.Agostino , ce lo confermava in uno scritto del 412 in cui così si esprimeva:
    “I bambini che muoiono senza battesimo si troveranno nella condanna: chi, infatti, tra i Cristiani può sopportare l’idea che si conceda a qualcuno la possibilità della salvezza eterna senza rinascere nel Cristo? Mai è stata detta, mai si dice, mai si dirà una tale sciocchezza nella Chiesa di Cristo”.
    Certezza confermata, due secoli dopo, da Papa Gregorio Magno, che così dettava:
    “Dio condanna anche coloro le cui anime si sono macchiate anche solo del peccato originale: perfino i bambini che non hanno mai peccato di loro volontà dovranno andare incontro ai tormenti eterni”.
    Condanna ribadita dal massimo teologo della Chiesa, San Tommaso, che nel “Supplemento alla Summa Theologica” così affermava:
    “Per il peccato originale è previsto il Limbo dei bambini morti senza battesimo”, e rincarava la dose papa Eugenio IV che, nel 1439, nella
    bolla “Laetentur caeli”, così stabiliva:
    “Le anime di coloro che muoiono con il solo peccato originale scendono immediatamente all’Inferno per essere punite con pene diverse”.
    Tale sorte fu, infine, ufficialmente confermata dal Concilio di Trento nel Giugno 1546 ed, ai giorni nostri, ribadita da papa Pio X, che, nel 1912, si domandava e si rispondeva:
    “I bambini morti senza battesimo dove vanno?
    Vanno al Limbo perché, avendo il solo peccato originale, non meritano né il Paradiso, né l’Inferno, né il Purgatorio”.

    Ma, sparito il Limbo, voi penserete: rimangono comunque Paradiso, Inferno e Purgatorio.
    Errore, o meglio, contrordine, cari fedeli: che questo mondo ultraterreno sia solo un immaginario destino, inventato dai preti, per fare cassa ( pensate solo a quanto denaro ha fruttato il commercio delle indulgenze per le anime del Purgatorio) ce lo confermano ora addirittura due Papi del calibro di Karol Wojtyla e di Ratzinger.
    Il primo , nel corso di un ciclo di catechesi pubbliche, descriveva Paradiso, Inferno e Purgatorio come:
    “Semplici stati dell’anima legati o meno alla comunione con Dio e non vanno considerati come luoghi fisici secondo le nostre concezioni”.
    Otto anni dopo, il 12 Gennaio 2011, in una udienza pubblica , a sua volta il Papa tedesco ribadiva lo stesso concetto:
    “Il Purgatorio non è un luogo fisico dove, dopo la morte, poter purificare l’anima tra fiamme fuoco e tormenti.
    È, invece, uno spazio interiore, senza tempo, e senza dimensioni, un momento di ricerca e di intima penitenza da cui partire, per incontrare la misericordia di Dio”.

    E pensare che i necrologi riportano ancora espressioni del tipo:
    “Ha raggiunto il Cielo”: “È tornato alla casa del Signore”; “È volato tra gli angeli al cospetto di Dio”: bisognerà pure che qualcuno informi quei poveri giornalisti.
    Ed il divino poeta, Dante, allora?
    Tutta quella immensa fatica per descrivere nei dettagli le pene appropriate, secondo la legge del “contrappasso”, per punire le varie colpe ed ecco che si ritrova con un pugno di mosche: chi glielo dice?
    E la nostra fatica di studenti per stare dietro alle sue cantiche?
    E il povero Benigni che l’Inferno se l’è imparato a memoria e lo sciorina dettagliandolo minutamente nel corso dei suoi spettacoli?

    Ve la dico così:

    ricordo ancora, dopo tanti anni, il sospiro di sollievo che mi scappava tutte le volte che , interrogato dal professore , questi terminava l’impari incontro con la frase risolutiva:
    la sufficienza te la dò ma stiracchiata, appena appena meritata: giusto per non umiliarti con un cinque, ti dò sei, meno, meno,” il che per me era , ovviamente, il massimo per ottenere tranquillità e riuscire a tirare avanti.

    Allo stesso modo immagino il giorno del Giudizio universale.
    Ci ritroviamo tutti, miliardi e miliardi di persone resuscitate e con i corpi rifatti nuovi di pacca, nella valle di Josafath dove, stando alla Bibbia, aspettiamo che il Padreterno compaia sulle nuvole con un codazzo di agnoloni, squlli di tromba tuoni e fulmini (speriamo non piova) e ci giudichi, uno per uno.
    Il pigia pigia fa sudare, in fondo questa valle di pochi ettari fatica a contenere questi miliardi di individui.
    Ed ecco che il Dio  annuncia:
    “Siete un branco di coglioni, banditi, assassini, ladri e ladre, puttane e puttanieri, corrotti e corruttori … non meritate proprio la sufficienza. Ma, nella mia infinita bontà, non vi boccerò con un quattro o un cinque in condotta: vi promuovo tutti con il minimo appena, appena risicato: a tutti voi un sei, meno, meno”.

  • Barbaro e disumano è chi li respinge

    Barbaro e disumano è chi li respinge

    http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/cultura/2016/03/15/foto/va_online_il_sir_thomas_more_l_opera_in_cui_shakespeare_difende_i_migranti-135531700

  • Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale.

    Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale.

    Illustrazione di Jean Julien
    Smettiamola di dire che la tecnologia causa l’isolamento sociale

    di Héctor L. Carral
    traduzione di Diego Mariani


    In un gruppo di amici molti controllano i propri smartphone, mentre sono insieme. Tutti in metro stanno con gli occhi fissi sugli schermi dei loro dispositivi tecnologici. Una coppia che va a dormire insieme, va a letto con i loro iPhones tra le mani. Le persone tengono alti in aria i loro smartphones, per scattare foto di un concerto. Potrei proseguire ancora. La tecnologia, in particolare, gli smartphone, stanno rovinando la societa odierna, rendendoci piu disconnessi dagli altri, permettendoci di interagire con i nostri dispositivi tecnologici invece di farci interagire tra di noi

    Eccetto, per questo.

    Illustrazione di Rosangela Ludovico

    Alle persone piace criticare la societa odierna. Non necessariamente la societa odierna a noi relativa, ma la societa contemporanea nel tempo in cui viviamo. Facile per loro immaginare il passato come un’era perfetta e migliore rispetto al periodo in cui viviamo, ma questo porta ad una visione distorta della realta, come si spiega nell’articolo Romanticizing the Past Makes Us Feel Bad about the Present. Il passato è sempre migliore. E nell’era dell’informazione e della tecnologia, in cui lo smartphone è cosi diffuso, è troppo ovvio incolpare la tecnologia per alcuni problemi nella societa stessa. Certamente, è saggio e ragionevole, fermarsi e riflettere sull’uso che facciamo della tecnologia e sulle critiche dei cattivi comportamenti che ne derivano. Ma credo che giudicare la tecnologia (e ancora, maggiormente gli smartphones) responsabile della rovina dell’interazione sociale, ed in generale di ogni tipo di esperienza, sia sbagliato e fuorviante. Alcuni possono pensare che tutto questo sia presuntuoso, ma non mi importa.

    Se hai usato internet negli ultimi anni (e lo hai fatto), hai probabilmente visto una o piu immagini sulla tua newsfeed Facebook, o sulla dashboard di Tumblr o in altri posti, con un senso di superiorità, dove vengono rappresentate vignette o immagini di come le persone sono schiave della tecnologia oggi, mostrate sempre con i loro dispositivi tecnologici in pubblico. Sto parlando di illustrazioni come questa. O vignette come questa. Oppure di video comequesto. O ancora di articoli come questo o questo. Oppure di progetti fotografici come questo. Ancora, potrei proseguire oltre. Il web è pieno di qualsiasi tipo di lavoro relativo a questo problema, probabilmente perche la gente ci tiene molto. Ma credo che la maggior parte di queste illustrazioni abbia la stessa premessa: lo smartphone sta rovinando la nostra vita (almeno in alcuni contesti questo è il messaggio trasmesso).

    Illustrazione di Jean Julien. The fun people didn’t go away — they’re here and everywhere

    Ogni volta che vedo un contenuto come questo, sento la necessita di esprimere la mia totale disapprovazione, per questo generalmente mi sfogo su Twitter, spesso scrivendo troppo di quello che posso, ed è per questo che ho deciso di scrivere questo articolo. Certamente, questi sono soltanto miei punti di vista (e spero anche di altre persone), come su articoli di altri autori, sui quali commento, quindi si può anche non essere d’accordo con me, ma con gli altri che la pensano diversamente.

    La mia premessa principale è che non penso che gli smartphones ci stiano isolando, distruggendo le nostre vite sociali o rovinando le nostre interazioni. Io vedo gli smartphones come strumenti per la comunicazione. Strumenti che ci danno la possibilità di interagire in modi che prima non erano possibili, collegandoci con le persone in giro per il mondo, tramite Twitter, messaggi istantanei o altri servizi. Qualcuno può affermare che se vuoi interagire con le persone, devi interagire con le persone che sono vicino a te, e questo, è probabilmente vero in alcune situazioni. Ma, in altre occasioni, non riesco a capire perche dobbiamo essere costretti ad interagire con persone fisicamente vicine a noi, invece che interagire con persone con cui vogliamoveramente comunicare in quel momento.

    È davvero sbagliato voler comunicare con un amico lontano usando lo smartphone, invece di interagire con una persona che non mi interessa, che si trova però vicino a me? Oppure leggere i Tweet delle persone che segui su Twitter invece di parlare con un amico in metro? Forse si, è sbagliato, le persone dovrebbero sempre preferire l’interazione sociale a quella digitale. Non sono d’accordo. A parte in occasioni ovvie (meeting di lavoro, conversazione tra persone, ecc.). Credo che le persone debbano poter interagire con chi vogliono, senza essere giudicati da altri perche si stia usando uno smartphone o meno.

    Tutto si riduce lasciando alle persone la possibilità di interagire liberamente utilizzando lo strumento con il quale si trovano meglio in quel momento. Probabilmente un tuo amico, non sta parlando con te perche ha avuto una pessima giornata e preferisce rilassarsi curiosando su Instagram o ascoltare un po di musica. Forse il tuo amico ha tirato il telefono fuori dalla tasca perche gli è appena arrivato un messaggio al quale deve rispondere. Oppure perche si trova in un momento non molto confortevole e prende lo smartphone per evitare quel momento di goffagine, di ansia sociale e tu dovresti rispettarlo. E forse sì, forse alcune persone usano i loro smartphones quando non dovrebbero farlo, e sono dei cretini (o hanno semplicemente fatto un errore, non rendendosi conto che prendere lo smartphone abbia fatto irritare qualcuno), ma credo che sia ingiusto convenire, che tutti, o quasi tutti quelli che usano lo smartphone in pubblico facciano questi errori.

    Photo by John Blanding tweeted by Wayne Dahlberg. It’s trying to convey the idea that this woman is enjoying the experience more than the other people taking photos or recording. I’m not sure those people are really enjoying it less because of their smartphones

    Parte di coloro che fanno critiche su questo problema, colpevolizzano anche i social media in quanto sono integrati al nostro uso standard degli smartphones. Per esempio, vedo un sacco di gente che si lamenta di altri che fanno foto al cibo al ristorante e le caricano su Instagram o su altri social. Non sono completamente d’accordo con la loro critica. È forse sbagliato creare una memoria permanente di un’esperienza che altrimenti sarebbe temporanea, catturando in una foto il lavoro di persone dietro la cucina che hanno fatto un grande sforzo per creare una composizione tanto buona ma anche tanto bella da vedere? Secondo me questo lamentarsi, è il risultato dell’incomprensione di come i moderni social media funzionano.

    Credo che l’utente zimzet su Tumblr spiega questo concetto in modo accurato nei suoi commenti sulle illustrazioni di Jean Jullien che ho usato qui. Sull’argomento relativo al fatto di fotografare il cibo, Zimzet si è espresso in tal senso:

    Sono felice di vedere i miei amici che fanno foto al loro cibo. A me piace fare foto al cibo. Perchè c’è uno chef in cucina che lavora duro per impiattare cose bellissime and in alcune situazioni, le persone lo mangiano immediatamente e rovinano quella bell’immagine. Noi facciamo le foto per preservare quell’immagine e chi cazzo lo sa, se fossi lo chef andrei a cercare su Instagram, sperando di vedere i miei piatti li. Stiamo semplicemente elogiando il duro lavoro di qualcun altro, lavoro che sarebbe generalmente solo temporaneo.

    E io son d’accordo in questo, zimzet conclude:

    La tecnologia non è cosi male. Tu sei solo arrabbiato con te stesso, a causa della tua mancanza di autocontrollo. Tu odi il fatto che le pesone si connettano grazie alla tecnologia. E forse, non ti piace il fatto che le persone si vogliano bene a vicenda, godendosi la vita e sentendosi felici. Questo è un tuo problema, non della tecnologia.

    Anche il social media in se non è cosi malvagio. Non ci rende socialmente isolati gli uni dagli altri. Semplicemente il contrario, esso espande le nostre reti sociali come dimostrato dallo studio di Pew Research Center dove conclude:

    Confrontando coloro che non usano internet con coloro che ne fanno uso, ed usano anche servizi di social media come Facebook, MySpace o Linkedin, hanno delle reti sociali che sono 20% piu diversificate.

    Il report è stato fatto nel 2009, quando i social media non erano diffusi come lo sono ora, ma credo che siano corretti anche oggi. Vorrei inoltre evidenziare quanto detto in questo paragrafo:

    Nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione forniscono nuove impostazioni e un insieme di mezzi di comunicazione che contribuiscono a diversificare le reti sociali delle persone

    I social media e gli smartphones in pratica, contribuiscono soltanto a rendere la nostra esperienza sociale più ricca, collegandoci con le altre persone in modi nuovi. Sono sicuro che molti di voi avranno incontrato un sacco di gente interessante. Ne sono sicuro. Grazie ai social media sono stato in grado di conoscere persone che adesso sono diventati dei miei cari amici. E quando sono in giro, mi piace andare su Twitter e vedere come stanno e cosa stanno facendo, e se ho qualcosa da dire magari che gli potrebbe interessare. Diavolo, ho anche incontrato la mia ragazza su Twitter alcuni anni fa, e sono sicuro che la mia non è un’esperienza isolata, come lo studio precedente dimostra.

    Vignetta del comico Gavin Aung Than

    Immagine che mostra ognugno leggere il giornale invece di parlare con gli altri, di alcuni decenni fa

    Un altro argomento di cui si sente spesso parlare è quello che ho precedentemente menzionato. Le persone che usano i loro smartphones in metropolitana, in bus o sul treno. Questo è mostrato dall’illustrazione all’inizio di questo articolo, o nella vignetta che ho indicato sopra. Questa è quella che ho messo alla fine. Cos’altro potrebbero fare le persone? Cosa farebbero se gli smartphones non esistessero? Parlerebbero tra di loro? Non prendiamoci in giro. Alle persone, in generale, non piace interagire con estranei in questi contesti. Loro non lo facevano neanche prima della venuta degli smartphones; usavano soltanto un altro oggetto, come un giornale ad esempio. In risposta alla vignetta di questo paragrafo, l’utente Tumblr bogleech ha commentato:

    OH guarda quelle ignoranti, patetiche persone di diverse eta, sesso ed etnia, tutti stanno usando quel cavolo di internet sui propri telefoni mentre sono in metropolitana! Santo cielo lo stanno facendo tutti ! Perfino il ragazzo col turbante lo sta usando, proveniente da chissà che diavolo di paese !

    Perche stanno messaggiando con amici o familiari usando i loro smartphones, quando potrebbero interagire con dei completi estranei in un dannato vagone della metropolitana ?

    Colui che ha scritto questo commento tiene chiaramente molto a questo concetto.Bene, nonostante la sua brutalità, credo che debbo convenire con la sua idea che è proprio quello che sto dicendo qui.

    Poi continua:

    La tecnologia digitale soltanto nell’ultimo decennio ha connesso ed educato molte piu menti umane di quanto sia avvenuto nella storia del nostro pianeta

    Questo è persino un miracolo, il fatto che ci permette di fare nuovi amici, condividere le nostre idee, imparare cose nuove, guarire ferite emotive attraverso l’interazione sociale, trovare delle vie d’uscita da alcune situazioni, trovare nuovi posti in cui vivere, trovare un nuovo lavoro, raggiungere i tuoi obiettivi personali, ed in generale raggiungere la felicità con un dannato bottone

    Non devi per forza credere a quanto egli dice. Ci sono dei report e degli studi che provano tutto ciò, come questo o questo.

    Illustration by Jean Jullien. Is it so bad to have the ability to not be alone using our phones?

    In conclusione, penso che si debba smettere di pensare che la tecnologia stia rovinando tutto, rendendoci schiavi di essa, irragionevolmente utilizzando i nostri smartphones tutto il tempo. Sta rendendo le nostre vite migliori, connettendoci alle persone a cui teniamo di piu, indipendentemente dalla distanza alla quale esse si trovano rispetto a noi, collegandoci potenzialmente a tutti i tipi di persone che non avremmo potuto conoscere senza di essa. Quindi smettila di sentirti superiore alle altre persone che usano i loro smartphones, smettila di dire che la nostra vita sarebbe migliore senza la tecnologia, smettila di incolpare la tecnologia per cose dovute a comportamenti umani naturali. Se vedi un immagine come questa che ho allegato qui, e nella quale quello che gli altri cercano di mostrare è come noi “stiamo lasciando alla tecnologia la facolta di distruggere le nostre interazioni sociali e le nostre esperienze”, fermati e rifletti sul perchè le persone usano i loro dispositivi digitali. Inoltre, basta santificare il passato, pensando che la vita fosse migliore prima di tutta questa dilagante tecnologia, vista come una sorta di “neo-luddismo”. La tecnologia è positiva. Ci permette di collegarci in modo fantastico. Non sta sostituendo la nostra interazione. La sta aumentando, Abbracciala.


    Traduzione di Stop saying technology is causing social isolation di Héctor L. Carral


    (Tutti i diritti delle immagini ed illustrazioni utilizzate in questo articolo sono dei corrispettivi autori e proprietari indicati sotto ogni immagine).

  • Bambini dalla luna

    Bambini dalla luna

     

     

    Di tutte le reazioni che ho letto — l’ho già scritto altrove — quella che mi ha colpito di più è stato lo sdegnato e incredibilmente diffuso stupore perché Vendola non ha adottato un bambino da un orfanotrofio: quando la legge italiana, come noto, glielo impedisce proprio perché omosessuale (l’adozione in Italia è consentita solo alle coppie etero sposate).

    Allora ci si può chiedere, volendo, che cosa avrebbe fatto l’ex governatore nel caso in cui la legge glielo avesse consentito: avrebbe scelto l’adozione o comunque la maternità surrogata?

    E qui, appunto, si apre la vera questione.

    Perché forse anche Vendola e il suo compagno, come milioni e milioni di persone, avrebbero comunque desiderato anche un pezzo di genitorialità biologica: considerata dalla maggior parte delle persone più autentica, profonda e completa di quella adottiva.

    Eccola, quindi, la grande battaglia culturale da fare: che ha anche risvolti politici e legislativi, s’intende, ma è prima di tutto di mentalità, di senso comune.

    Come padre di un ragazzino adottato — e biologicamente generato da una coppia a me del tutto ignota e che pure è ogni giorno nei miei pensieri — la mentalità prevalente e il senso comune li ho visti nelle domande che mi faceva mio figlio alle elementari, tornando da scuola: perché mi dicono che tu non sei il mio vero padre? Perché mi chiedono se mi mancano i miei veri genitori?

    Questa cosa del vero — il linguaggio tradisce sempre il senso comune — è lo spettro contro cui ho lottato per 15 anni: e ho spesso fulminato con lo sguardo o fatto a pezzi a parole anche persone che mi volevano bene, quando lo riproponevano, lasciando affiorare anche loro questo senso comune così antico e stronzo.

    Che è figlio di una subcultura, nulla di più: una subcultura duale e avversativa, secondo la quale l’identità filiale dei bambini è costituita esclusivamente da un contesto fatto da due persone, una madre e un padre, i quali sono coloro che l’hanno biologicamente generato.

    Una costruzione culturale, appunto, e non universale: andate ad esempio nelle famiglie patriarcali o matriarcali di mezzo pianeta e scoprirete quanti bambini hanno più figure sia materne sia paterne, e per loro “mamma” e “papà” spesso sono poco più di un prefisso che mettono davanti ai nomi propri di più persone che, nel loro ambito familiare, interpretano queste figure. Non ci sono genitori veri e genitori falsi, ci sono solo persone adulte (una, due più) che crescendo un figlio contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino: più o meno riuscita a seconda di come si sono comportate e relazionate con il bambino queste figure adulte.

    Allo stesso modo, si sa che il figlio adottato costruisce la sua identità sia nel rapporto con i genitori che lo crescono sia in quello (spesso solo immaginario, ma non per questo meno importante) con i genitori biologici, con le sue origini biologiche. Che quindi non vanno negate (altro errore, speculare e contrario rispetto a chi parla di ‘genitori veri’) ma accostate e integrate alle figure dei genitori che lo crescono.

    Tutto questo non è tuttavia moneta diffusa, almeno non ancora. Non è senso comune. L’adozione è quasi sempre vista come una seconda scelta rispetto alla genitorialità biologica. Un rimedio. Un surrogato, a proposito di parole in questi giorni molto usate.

    La grande battaglia culturale è affinché sia sempre meno così.

    La grande battaglia culturale è affinché la genitorialità adottiva non sia più vista dalla maggior parte delle persone come di serie B rispetto a quella biologica.

    Affinché sia vista come una scelta bella in sé, non come rimedio. Bella non solo e non tanto per motivi etici (date le decine di migliaia di bambini che ogni giorno vengono al mondo per sbaglio, per violenza, in condizioni ambientali spaventose, in contesti di disperazione, di fame, di guerre, di sovrappopolazione) ma proprio dal punto di vista egoistico, dal punto di vista di quello straordinario appagamento che sta nell’essere genitori adottivi.

    Proprio così: è bellissimo crescere un bambino che hanno dato proprio a te, che il destino ti ha assegnato affinché tu gli possa dargli il meglio, che la vita ti ha portato in casa affinché tu possa dimostrare a lui, al mondo, all’universo che puoi regalargli infinità d’amore, di chance, di felicità.

    È un’avventura di una bellezza talmente unica e straordinaria che chi ha avuto la fortuna di percorrerla dovrebbe urlarla al mondo perché lo capisse, altro che genitorialità di serie B!

    Prendete ad esempio la spinosa questione della maternità surrogata, venuta alla ribalta prima con la legge Cirinnà e oggi per via di Vendola: lo sapete vero che l’80 per cento delle maternità surrogate sono richieste da coppie eterosessuali? E quante di queste coppie, se fosse culturalmente sdoganata la bellezza assoluta e in sé di una genitorialità adottiva, insisterebbero su una strada che in molti contesti rischia di avere tratti eticamente molto dubbi, come nel caso di donne disperate dei paesi più poveri?

    Intendiamoci, non sto dando lezioncine: nessuno è immune dalla subcultura che vuole la genitorialità adottiva come una seconda scelta. Neppure io, che 15 anni fa ho iniziato il percorso di adozione solo dopo aver visto il mio spermiogramma. È stato dopo, che ho capito quanto è meravigliosamente ricca l’esperienza di un genitore a cui un bambino è arrivato in casa dalla luna.

    Per questo quando oggi incontro dei ragazzi che progettano una famiglia mi viene spesso da dire: se volete dei figli, fate insieme le due cose. L’amore e il modulo in tribunale, intendo. Fatele entrambe e come arriva, arriva.

    Non c’è gerarchia tra i due modi di essere papà e mamma. Non c’è.

    Non so, a me tutto questo viene in mente, dalla discussione sulla Cirinnà fino a quella su Vendola. Questa battaglia per trasformare la mentalità, la zucca. Che se fosse vinta risolverebbe forse almeno una parte delle questioni.

    E porterebbe anche la politica a occuparsi seriamente della questione.

    Perché sì, il problema ha anche risvolti legislativi e sarebbe molto utile se tutta questa polemica servisse a cambiare un po’ le cose.

    Ad esempio, modificando le norme che oggi impediscono di adottare un bambino a chiunque non sia una coppia etero regolarmente sposata. È una sciocchezza, è una legge figlia di una visione crudele secondo la quale è meglio lasciar marcire un neonato in un orfanotrofio ucraino piuttosto che dargli un nido d’amore costituito da un single, da una copia etero non sposata, da una coppia gay.

    E poi: perché i bambini degli orfanotrofi lontani che creano un graduale rapporto affettivo con qualcuno attraverso i programmi di affido temporaneo durante le vacanze poi non possono scegliere, dopo un po’ di anni, se restare a vivere con la/le persona/e a cui si sono progressivamente legate, e che spesso finiscono per rappresentare il vero focolare familiare nel loro cuore? Pensate che importi a qualcosa, a quei bambini, se la/le persona/e con cui vogliono vivere è sposata o no, è etero o no?

    E ancora, a proposito di mercificazione della genitorialità, un Paese decente non dovrebbe venire incontro attraverso robusti sostegni e totali deduzioni fiscali a quelle persone che intraprendono il percorso di un’adozione internazionale, i cui costi arrivano talvolta a superare i 25–30 mila euro, riproponendo quindi quel divide tra ricchi e poveri che oggi costituisce uno degli spunti di polemica più citati per la maternità surrogata?

    Ecco, se il caso Vendola servisse ad aprire un vero dibattito culturale e politico su tutti questi temi, sarebbe già un risultato straordinario.

    Per il resto, auguri veri di felicità al piccolo Tobia, ai suoi due papà e alla mamma che l’ha partorito.

  • Congresbury, il paese delle buone azioni

    Congresbury, il paese delle buone azioni

    venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.

    Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.

    Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.

    Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!

  • L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

    L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

     

    Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.

    A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?

    In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti

    Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.

    Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.

    Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione

    Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.

    Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.

    La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità

    In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.

    Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.

    Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.

  • LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE

    LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE

    “Teoria delle finestre rotte”

    Servizio Pubblico – Gianrico Carofiglio illustra la “Teoria delle finestre rotte” from Roma fa schifo on Vimeo.

    Nel 1969, presso l’Università di Stanford (USA), il professor Philip Zimbardo ha condotto un esperimento di psicologia sociale. Lasciò due auto abbandonata in strada, due automobili identiche, la stessa marca, modello e colore. Una l’ ha lasciata nel Bronx, quindi una zona povera e conflittuale di New York ; l’altra a Palo Alto, una zona ricca e tranquilla della California. Due identiche auto abbandonate, due quartieri con popolazioni molto diverse e un team di specialisti in psicologia sociale, a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.

    Si è scoperto che l’automobile abbandonata nel Bronx ha cominciato ad essere smantellato in poche ore. Ha perso le ruote, il motore, specchi, la radio, ecc. Tutti i materiali che potevano essere utilizzati sono stati presi, e quelli non utilizzabili sono stati distrutti. Dall’altra parte , l’automobile abbandonata a Palo Alto, è rimasta intatta.

    È comune attribuire le cause del crimine alla povertà. Attribuzione nella quale si trovano d’accordo le ideologie più conservatrici (destra e sinistra). Tuttavia, l’esperimento in questione non finì lì: quando la vettura abbandonata nel Bronx fu demolita e quella a Palo Alto dopo una settimana era ancora illesa, i ricercatori decisero di rompere un vetro della vettura a Palo Alto, California. Il risultato fu che scoppiò lo stesso processo, come nel Bronx di New York : furto, violenza e vandalismo ridussero il veicolo nello stesso stato come era accaduto nel Bronx.

    Perchè il vetro rotto in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocare un processo criminale?

    Non è la povertà, ovviamente ma qualcosa che ha a che fare con la psicologia, col comportamento umano e con le relazioni sociali.

    Un vetro rotto in un’auto abbandonata trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza, sensazioni di rottura dei codici di convivenza, di assenza di norme, di regole, che tutto è inutile. Ogni nuovo attacco subito dall’auto ribadisce e moltiplicare quell’idea, fino all’escalation di atti, sempre peggiori, incontrollabili, col risultato finale di una violenza irrazionale.

    In esperimenti successivi James q. Wilson e George Kelling hanno sviluppato la teoria delle finestre rotte, con la stessa conclusione da un punto di vista criminologico, che la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti.

    Se si rompe un vetro in una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare  a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.

    Se parchi e altri spazi pubblici sono gradualmente danneggiati e nessuno interviene, questi luoghi saranno abbandonati dalla maggior parte delle persone (che smettono di uscire dalle loro case per paura di bande) e questi stessi spazi lasciati dalla comunità, saranno progressivamente occupato dai criminali.

    Gli studiosi hanno risposto in una forma più forte ancora, dichiarando che l’incuria ed il disordine accrescono molti mali sociali e contribuiscono a far degenerare l’ambiente.

    A casa, tanto per fare un esempio, se il capofamiglia lascia degradare progressivamente la  sua casa, come la mancanza di tinteggiature alle pareti che stanno in pessime condizioni, cattive abitudini di pulizia, proliferazioni di cattive abitudine alimentari, utilizzo di parolacce, mancanza di rispetto tra i membri della famiglia, ecc, ecc, ecc. poi, anche gradualmente,  cadranno anche la qualità dei rapporti interpersonali tra i membri della famiglia ed inizieranno a crearsi cattivi rapporti con la società in generale. Forse alcuni, perfino un giorno, entreranno in carcere.

    Questa teoria delle finestre rotte può essere un’ipotesi valida a comprendere la degradazione della società e la mancanza di attaccamento ai valori universali, la mancanza di rispetto per l’altro e alle autorità (estorsione e le tangenti) , la degenerazione della società e la corruzioni  a tutti i livelli. La mancanza di istruzione e di formazione della cultura sociale, la mancanza di opportunità, generano un paese con finestre rotte, con tante finestre rotte e nessuno sembra disposto a ripararle.

    La “teoria delle finestre rotte” è stata applicata per la prima volta alla metà degli anni ottanta nella metropolitana di New York City, che era divenuto il punto più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati sono stati evidenti: a partire della correzione delle piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.

    Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani, sindaco di New York, basandosi sulla teoria delle finestre rotte e l’esperienza della metropolitana, ha promosso una politica di tolleranza zero. La strategia era quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento di tutti i tassi di criminalità a New York City.

    La frase “tolleranza zero” suona come una sorta di soluzione autoritaria e repressiva, ma il concetto principale è più prevenzione e promozione di condizioni sociali di sicurezza. Non è questione di  violenza ai trasgressori, né manifestazione di arroganza da parte della polizia. Infatti, anche in materia di abuso di autorità, dovrebbe valere la tolleranza zero. Non è tolleranza zero nei confronti della persona cher commette il reato, ma è tolleranza zero di fronte al reato stesso. L’idea è di creare delle comunità pulite, ordinate, rispettose della legge e delle regolei che sono alla base della convivenza  umana in modo civile e socialmente accettabile.

    È bene di tornare a leggere questa teoria e di diffonderla .

    La soluzione a questo problema io non c’è l’ho, caro lettore, ma io ho iniziato a riparare le finestre della mia casa, sto cercando di migliorare le abitudini alimentari della mia famiglia, ho chiesto a tutti i membri della famiglia di evitare di dire parolacce, sopratutto davanti ai nostri figli, inoltre abbiamo deciso di non mentire, di evitare persino le piccole bugie, perché non c’è nessuna piccole bugie,la bugia non è grande o piccola, UNA BUGIA è UNA BUGIA E BASTA

    Abbiamo concordato di accettare le conseguenze delle nostre azioni con coraggio e responsabilità, ma soprattutto per dare una buona dose di educazione ai nostri figli.

    Con questo ho la speranza di cominciare a cambiare in qualcosa che prima sbagliavo. Il mio sogno è che i miei ripetano tutto questo in modo che un domani i figli dei miei figli o i loro nipoti possano vedere un nuovo mondo, UN MONDO SENZA FINESTRE ROTTE.

    SE SEI D’ACCORDO CON LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE, FAI SEMPLICEMENTE GIRARE QUESTA E-MAIL IN MODO CHE OGNI GIORNO SIANO DI PIU’ QUELLI CHE VOGLIONO DARE UNA MANO AL MIGLIORAMENTO DELLA NOSTRA SOCIETA’.