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  • Il reddito di cittadinanza…?

    Il reddito di cittadinanza…?

    Bocciato in Svizzera con una percentuale del 78 per cento. La proposta prevedeva contributi mensile, dalla nascita alla morte, di 2.500 franchi elvetici (circa 2.250 euro) per gli adulti e di 625 franchi (560 euro) per i minorenni.

    E se in Svizzera, un’ipotesi del genere è stata bocciata, magari un minimo di analisi sul perché andrebbe fatta.

    Tanto per fissare i termini della questione.

    L’idea alla base della misura è tutt’altro che nuova. Addirittura nel 1797, Thomas Paine, uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America rifletteva sul fatto che per “comprare” consenso sociale per i diritti della proprietà privata, i governi avrebbero dovuto pagare a tutti i cittadini 15 sterline all’anno.
    Il concetto non è né di sinistra né di destra. Si sono mostrati favorevoli al reddito di cittadinanza economisti ed intellettuali dalla più diversa formazione. Dal notissimo Milton Friedman della Scuola (ultraliberista) di Chicago a Charles Murray, libertario dell’American enterprise Institute; a Andy Stern, un noto rappresentante delle Unions americane, fino a Paul Mason visionario autore del recente saggio Postcapitalismo.

    Il reddito di cittadinanza è un termine molto generico e ricomprende varie misure.

    Sotto la generica definizione di reddito di Cittadinanza ricadono ipotesi molto diverse fra loro.

    Il Reddito Minimo Garantito: lo Stato corrisponde ad ogni cittadino (indipendentemente dal fatto che abbia una occupazione o meno) una somma pari alla differenza tra l’importo del reddito minimo garantito stabilito per legge ed il suo reddito, se il suo reddito è inferiore a tale importo.

    Il Reddito di Cittadinanza Condizionato secondo il quale, ogni cittadino riceve una somma maggiore o uguale ad un certo importo (che è generalmente individuato come livello di povertà relativa o assoluta). L’importo però tiene conto dei mezzi patrimoniali e reddituali del richiedente.

    Il Reddito di Cittadinanza Incondizionato che prevede che ogni individuo riceva una somma indipendentemente dal suo reddito, indipendentemente dalla sua situazione patrimoniale e reddituale. Quest’ultimo esempio ha avuto rarissimi casi di applicazione concreta come in alcuni paesi dell’Alaska ed è stato testato anche in altri stati degli USA, Brasile, in alcuni paesi dell’Africa e in alcuni stati dell’India.

    Il concetto di base del dibattito politico è però chiaro. Si tratta di una forma di integrazione del reddito che garantisca a tutti i cittadini un reddito minimo di sopravvivenza. O anche qualcosa di più.

    Comunque è implicito che, se tale ipotesi venisse presa in considerazione da qualche governo, in Italia,  un referendum diventerebbe obbligatorio.

    La più ampia idea di un reddito di cittadinanza universale incondizionato non ha avuto grande fortuna in nessun sistema politico. E questo perché i vari modelli di welfare oggi esistenti sono fondati su modelli e principi totalmente differenti. Ovvero si tratta sempre di programmi di assicurazione diretti a garantire sostegno a chi si viene a trovava in condizione di difficoltà temporanea tale da impedire la prestazione lavorativa: limiti di età (la “pensione di anzianità o vecchiaia”); malattia o infortunio (da noi garantite da INPS e INAIL) e più di recente, stati di disoccupazione involontaria (trattamento di disoccupazione, oggi NASPI e trattamenti simili).

    Inoltre, questo modello, si scontrerebbe con tutti i principi di uguaglianza. Nel momento in cui si dovesse prendere in considerazione la ricchezza effettiva di ogni singolo cittadino, si evidenzierebbero tutte le anomalie del sistema Italia, e senza prima rimuoverle, si creerebbe un caos tale da vanificare qualsiasi intervento.

    L’esistenza di quello che di fatto è un reddito di cittadinanza in Europa spiega molte cose che in Italia vengono riproposte in modo del tutto assurdo. Spiega l’assenza di lavoro nero,  l’assenza delle massicce raccomandazioni, spiega anche il fatto che le persone competenti occupino in genere il posto che compete loro (mentre così non è in Italia), le case abusive (chi ne calcola il valore?), l’evasione fiscale ecc.ecc..

    e che portare in Italia l’ipotesi di reddito di cittadinanza, senza un serio e pluriennale recupero delle inefficienze del sistema paese, significa cercare una scorciatoia facile facile per raccattare voti, e come è noto le soluzioni facili sui problemi complessi, puzzano sempre di populismo.

     

  • Il limbo non c’è più, e nemmeno il purgatorio e anche l’inferno non se la passa tanto bene……

    Il limbo non c’è più, e nemmeno il purgatorio e anche l’inferno non se la passa tanto bene……

    Tanto per cominciare, il Limbo non esiste più, cancellato : lo afferma Papa Ratzinger che, il 21 Aprile 2007, approva i lavori della Commissione Teologica Internazionale concludendo:
    “Serie basi teologiche e liturgiche fanno sperare che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione beatifica”.
    E questa giravolta teologica avviene dopo che, per secoli, il Limbo era rimasto certezza granitica: un fior di teologo, della fama di S.Agostino , ce lo confermava in uno scritto del 412 in cui così si esprimeva:
    “I bambini che muoiono senza battesimo si troveranno nella condanna: chi, infatti, tra i Cristiani può sopportare l’idea che si conceda a qualcuno la possibilità della salvezza eterna senza rinascere nel Cristo? Mai è stata detta, mai si dice, mai si dirà una tale sciocchezza nella Chiesa di Cristo”.
    Certezza confermata, due secoli dopo, da Papa Gregorio Magno, che così dettava:
    “Dio condanna anche coloro le cui anime si sono macchiate anche solo del peccato originale: perfino i bambini che non hanno mai peccato di loro volontà dovranno andare incontro ai tormenti eterni”.
    Condanna ribadita dal massimo teologo della Chiesa, San Tommaso, che nel “Supplemento alla Summa Theologica” così affermava:
    “Per il peccato originale è previsto il Limbo dei bambini morti senza battesimo”, e rincarava la dose papa Eugenio IV che, nel 1439, nella
    bolla “Laetentur caeli”, così stabiliva:
    “Le anime di coloro che muoiono con il solo peccato originale scendono immediatamente all’Inferno per essere punite con pene diverse”.
    Tale sorte fu, infine, ufficialmente confermata dal Concilio di Trento nel Giugno 1546 ed, ai giorni nostri, ribadita da papa Pio X, che, nel 1912, si domandava e si rispondeva:
    “I bambini morti senza battesimo dove vanno?
    Vanno al Limbo perché, avendo il solo peccato originale, non meritano né il Paradiso, né l’Inferno, né il Purgatorio”.

    Ma, sparito il Limbo, voi penserete: rimangono comunque Paradiso, Inferno e Purgatorio.
    Errore, o meglio, contrordine, cari fedeli: che questo mondo ultraterreno sia solo un immaginario destino, inventato dai preti, per fare cassa ( pensate solo a quanto denaro ha fruttato il commercio delle indulgenze per le anime del Purgatorio) ce lo confermano ora addirittura due Papi del calibro di Karol Wojtyla e di Ratzinger.
    Il primo , nel corso di un ciclo di catechesi pubbliche, descriveva Paradiso, Inferno e Purgatorio come:
    “Semplici stati dell’anima legati o meno alla comunione con Dio e non vanno considerati come luoghi fisici secondo le nostre concezioni”.
    Otto anni dopo, il 12 Gennaio 2011, in una udienza pubblica , a sua volta il Papa tedesco ribadiva lo stesso concetto:
    “Il Purgatorio non è un luogo fisico dove, dopo la morte, poter purificare l’anima tra fiamme fuoco e tormenti.
    È, invece, uno spazio interiore, senza tempo, e senza dimensioni, un momento di ricerca e di intima penitenza da cui partire, per incontrare la misericordia di Dio”.

    E pensare che i necrologi riportano ancora espressioni del tipo:
    “Ha raggiunto il Cielo”: “È tornato alla casa del Signore”; “È volato tra gli angeli al cospetto di Dio”: bisognerà pure che qualcuno informi quei poveri giornalisti.
    Ed il divino poeta, Dante, allora?
    Tutta quella immensa fatica per descrivere nei dettagli le pene appropriate, secondo la legge del “contrappasso”, per punire le varie colpe ed ecco che si ritrova con un pugno di mosche: chi glielo dice?
    E la nostra fatica di studenti per stare dietro alle sue cantiche?
    E il povero Benigni che l’Inferno se l’è imparato a memoria e lo sciorina dettagliandolo minutamente nel corso dei suoi spettacoli?

    Ve la dico così:

    ricordo ancora, dopo tanti anni, il sospiro di sollievo che mi scappava tutte le volte che , interrogato dal professore , questi terminava l’impari incontro con la frase risolutiva:
    la sufficienza te la dò ma stiracchiata, appena appena meritata: giusto per non umiliarti con un cinque, ti dò sei, meno, meno,” il che per me era , ovviamente, il massimo per ottenere tranquillità e riuscire a tirare avanti.

    Allo stesso modo immagino il giorno del Giudizio universale.
    Ci ritroviamo tutti, miliardi e miliardi di persone resuscitate e con i corpi rifatti nuovi di pacca, nella valle di Josafath dove, stando alla Bibbia, aspettiamo che il Padreterno compaia sulle nuvole con un codazzo di agnoloni, squlli di tromba tuoni e fulmini (speriamo non piova) e ci giudichi, uno per uno.
    Il pigia pigia fa sudare, in fondo questa valle di pochi ettari fatica a contenere questi miliardi di individui.
    Ed ecco che il Dio  annuncia:
    “Siete un branco di coglioni, banditi, assassini, ladri e ladre, puttane e puttanieri, corrotti e corruttori … non meritate proprio la sufficienza. Ma, nella mia infinita bontà, non vi boccerò con un quattro o un cinque in condotta: vi promuovo tutti con il minimo appena, appena risicato: a tutti voi un sei, meno, meno”.

  • Brexit: quando ho visto fallire l’Europa da vicino.

    Brexit: quando ho visto fallire l’Europa da vicino.

     

    A due giorni dal voto, sono state raccolti più di due milioni di firme per rifare il referendum (che tenerezza: “non ci è piaciuto com’è venuto, dai, si rifà?”) mentre Trump, per il quale la Scozia è probabilmente quello che per noi è il principato di Seborga, dice agli scozzesi “bravi per la Brexit” e la Meloni pensa che Dublino sia una città inglese. Più che alla mia personale delusione penso a cosa succederà, cercando come tutti di leggere il più possibile: qui il riassunto con fact-checking di Valigia Blu che sottolinea come la notizia dei giovani britannici paladini dell’Europa contro i vecchi inglesi conservatori ed egoisti sia, in realtà, solo un sondaggio pre-voto moderatamente attendibile.

    Qui una dettagliata analisi di Luca Sofri (con alcuni link interessanti) che cerca di allargare lo sguardo e di capire i collegamenti mondiali. Tra Brexit e Trump, ad esempio. Tra Brexit e Marine Le Pen.

    Personalmente vorrei condividere la visione di Dino Amenduni che spera nasca dal dopo-Brexit la democrazia del post-vaffanculo. Che succeda, insomma, come quando arriva una bocciatura a scuola: si può tracollare ulteriormente o mettersi in riga per l’anno dopo.

  • Cos’è il TTIP

    Cos’è il TTIP

    Cosa_il_TTIP

    Se avete letto i giornali – italiani e internazionali – negli ultimi mesi, è probabile che vi siate imbattuti più di una volta nella sigla TTIP. Con questa sigla si intende il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti: TTIP è un acronimo del nome in inglese, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”. È un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America: inizialmente veniva chiamato TAFTA, da area transatlantica di libero scambio, riprendendo l’acronimo di altri simili trattati già esistenti (come ilNAFTA). Il trattato è ancora in fase di discussione, non solo tra le parti: nella politica e tra i gruppi che ne stanno seguendo i negoziati, per alcuni «prevede che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi», per altri faciliterebbe i rapporti commerciali tra Europa e Stati Uniti portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione.

    Qualche numero
    Il trattato coinvolge i 50 stati degli Stati Uniti d’America e le 28 nazioni dell’Unione Europea, per un totale di circa 820 milioni di cittadini. La somma del PIL di Stati Uniti e Unione Europea corrisponde a circa il 45 per cento del PIL mondiale (i dati sono del Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2013). Si tratta dunque, non fosse altro che per il suo impatto globale potenziale, di un trattato di importanza storica.

    A che punto sono i negoziati
    Nel giugno del 2013 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, dopo più di dieci anni di preparazione, hanno avviato ufficialmente i negoziati sul TTIP; dovrebbero essere completati nel 2015. Il trattato dovrà poi essere votato dal Parlamento europeo, per quanto riguarda l’UE. A condurre i colloqui per conto dell’Unione Europea è la direzione generale commercio della Commissione europea – cioè uno dei “ministeri” in cui è suddivisa la Commissione – diretta finora dal belga Karel De Gucht e sostituito da Cecilia Mallström nella nuova commissione Juncker. Ci sono due negoziatori ufficiali tra le parti: per l’UE è Ignacio Garcia Bercero mentre Dan Mullaney è la sua controparte statunitense. I negoziati si sono svolti per ora in sette diversi incontri, l’ultimo a Washington dal 29 settembre al 3 ottobre.

    La questione della segretezza
    Va subito detto che si tratta di negoziati segreti – lo sono ancora, in parte – accessibili solo ai gruppi di tecnici che se ne occupano, al governo degli Stati Uniti e alla Commissione europea. La questione della segretezza è stata e continua a essere uno dei maggiori punti di opposizione al trattato, denunciato da molte e diverse organizzazioni sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Unione Europea.

    Lo scorso 9 ottobre l’UE ha deciso di diffondere ufficialmente un documento di 18 pagine che contiene il suo mandato a negoziare (documento che però circolava online già da qualche mese). Oltre alle direttive della UE ai negoziatori, sono comunque trapelate nel corso del tempo varie bozze, ottenute e pubblicate da alcuni giornali, e che riguardano alcuni singoli contenuti dell’accordo: il settimanale tedescoZeit ha messo online dei file che hanno a che fare con il settore dei servizi e dell’e-commerce, lo Huffington Post ha pubblicato dei file sull’energia, il Center for International Enrironmental Law, organizzazione statunitense, degli altri file che riguardano il settore chimico. Da tutti questi documenti messi insieme si possono ricavare una serie di informazioni importanti che danno, innanzitutto, la misura della complessità della questione.

    Di cosa stiamo parlando
    Nel documento diffuso dalla UE, che è comunque l’unico ufficiale, il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti». L’obiettivo dichiarato dell’accordo (piuttosto generico) è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali». L’accordo dovrebbe agire quindi in tre principali direzioni: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, uniformare e semplificare le normative tra le due parti abbattendo le differenze non legate ai dazi (le cosiddette Non-Tariff Barriers, o NTB), migliorare le normative stesse.

    Il documento individua quindi tre principali aree di intervento:
    1 – accesso al mercato
    2 – ostacoli non tariffari
    3 – questioni normative

    1 – Accesso al mercato
    L’accesso al mercato riguarda quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici.

    Si prevede l’eliminazione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo». Sono previste misure antidumping – cioè per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato di origine – e misure di salvaguardia «che consentano ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l’aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall’altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale».

    La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori»: si prevede anche di «assicurare un trattamento non meno favorevole per lo stabilimento sul loro territorio di società, consociate o filiali dell’altra parte di quello accordato alle proprie società, consociate o filiali». I servizi audiovisivi non sono inclusi.

    La liberalizzazione riguarda anche gli appalti pubblici, per «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco». Insomma aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa.

    C’è infine un capitolo sugli investimenti e la loro tutela: nel negoziato è previsto l’inserimento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo che consente agli investitori di citare in giudizio i governi presso corti arbitrali internazionali.

    2 – Questioni normative e ostacoli non tariffari
    L’obiettivo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione».

    Le barriere non tariffarie sono misure adottate da un mercato per limitare la circolazione di merci e che non consistono nell’applicazione di tariffe: quindi non si parla di dazi. Sono limiti di altro tipo: limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici: negli Stati Uniti è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato e infatti la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo.

    3 – Norme
    L’ultimo punto prevede un miglioramento della compatibilità normativa ponendo le basi per regole globali. È piuttosto generico, ma si dice che sono compresi i diritti di proprietà intellettuale. Si dice poi che vanno favoriti gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio», che vanno garantiti «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». Si dice che l’accordo deve trattare la questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». L’accordo deve includere «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e «deve contemplare disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali».

    Chi è a favore dell’accordo
    Diversi studi hanno concluso che l’accordo avrà benefici sia per gli Stati Uniti che per l’UE. Il Center for Economic Policy Research di Londra e l’Aspen Institute dicono per esempio che ci sarebbe un aumento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti (l’incremento sarebbe del 28 per cento, circa 187 miliardi di euro). I dazi tra Stati Uniti e UE sono in media piuttosto bassi, quasi la metà di quanto imposto verso gli altri paesi del mondo, anche se ci sono grandi differenze tra settori (la componentistica per automobili, per esempio, ha dazi all’8 per cento nell’UE). Sebbene in generale la loro media sia bassa, se i dazi vengono applicati su un grande volume possono diventare un ostacolo rilevante. Questo vale ancora di più visto che il processo produttivo è spezzato tra paesi diversi (componenti o fasi prodotti o realizzati in vari paesi): piccoli dazi applicati più volte possono avere dunque un impatto importante sul prezzo del bene finale.

    Gli studi favorevoli al trattato hanno inoltre stimato che il PIL mondiale aumenterebbe (tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro) e aumenterebbe anche quello dei singoli stati (si stimano 545 euro l’anno in più per ogni famiglia in Europa). Poiché ci sarebbe una maggiore concorrenza, si avrebbero anche benefici generali sull’innovazione e il miglioramento tecnologico.

    Si avrebbero infine dei benefici derivanti dalla semplificazione burocratica e dalle regolamentazioni: ridurrebbe sia i costi delle ispezioni che quelli delle attività economiche che operano nei due mercati facilitando alle imprese il compito di rispettare contemporaneamente le due normative. L’Unione Europea ha fatto questo esempiosulla sicurezza delle automobili:

    La regolamentazione in materia di sicurezza dei veicoli applicata negli Stati Uniti differisce da quella applicata nell’Unione europea, anche se il risultato finale in termini di livelli di sicurezza è in pratica equivalente. In effetti, già oggi è possibile guidare in Europa alcune automobili omologate negli Stati Uniti, e ciò grazie a uno speciale sistema di omologazione europeo. La Commissione si augura che grazie al TTIP le autorità di regolamentazione riconoscano formalmente la sostanziale coincidenza di importanti parti dei due sistemi di regolamentazione dal punto di vista della sicurezza.

    L’Unione europea e gli Stati Uniti impongono requisiti di sicurezza differenti eppure simili per quanto riguarda i fari, le serrature delle portiere, i freni, lo sterzo, i sedili, le cinture di sicurezza e gli alzacristalli elettrici. In molti casi si potrebbe riconoscere formalmente che tali requisiti offrono il medesimo livello di sicurezza.

    Chi critica l’accordo
    Vari soggetti si oppongono all’accordo: si va dall’organizzazione internazionale Attac a una rete di associazioni (compresa Slow Food) di vari paesi europei e statunitensi, fino a studiosi ed economisti vari. Come abbiamo detto, una delle principali critiche ai negoziati è la loro segretezza e mancanza di trasparenza; e anche il fatto che ad aver condotto il principale e più citato studio sui benefici dell’accordo sia il Center for Economic Policy Research di Londra, che questi gruppi non considerano credibile perché finanziato anche da grandi banche internazionali. Questi gruppi sostengono che le cifre sull’impatto dell’accordo sono piuttosto ambiziose, che sarebbero previste solo per il 2027 e che comunque sonotroppe le variabili non considerate per poter fare una stima affidabile.

    Ci sono poi critiche più sostanziali, supportate da diversi altri studi, che sono state riassunte nel numero di giugno Le Monde Diplomatique. Lori Wallach, direttrice di Public Citizen – associazione con sede a Washington – ha spiegato in dieci punti i possibili rischi del trattato per gli Stati Uniti: farmaci meno affidabili, aumento della dipendenza dal petrolio, perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali, e così via. La stessa operazione è stata fatta per l’UE da un rappresentante della CGT, la Confédération générale du travail, una confederazione sindacale francese. Il punto principale di entrambe le analisi è comunque che l’armonizzazione delle norme sarebbe fatta al ribasso, a vantaggio non dei consumatori ma delle grandi aziende. Nello specifico, queste sono le critiche più diffuse:

    – I paesi dell’UE hanno adottato le normative dell’Organizzazione dell’ONU che si occupa di lavoro (l’ILO), gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori.

    – L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi, in particolare di quelli sociali.

    – L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM (su questo punto, non ci sono però ancora notizie precise).

    – Il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese, e in generale per le imprese che non sono multinazionali e che con le multinazionali non potrebbero reggere la concorrenza.

    – Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo oclass action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli OGM, questa critica viene sollevata relativamente all’uso di pesticidi, all’obbligo di etichettatura del cibo, all’uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori.

    – I negoziati sono orientati alla privatizzazione dei servizi pubblici quindi secondo i critici si rischia la loro scomparsa progressiva. Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera concorrenza.

    – Le disposizioni a protezione della proprietà intellettuale e industriale attualmente oggetto di negoziati potrebbero minacciare la libertà di espressione su internet o privare gli autori della libertà di scelta in merito alla diffusione delle loro opere. Si ripresenterebbe insomma la questione dell’ACTA, il controverso accordo commerciale su contraffazione, pirateria, copyright, brevetti la cui ratifica è stata respinta il 4 luglio 2012 dal Parlamento Europeo.

    Infine, le multinazionali
    Una delle questioni più controverse riguarda la clausola ISDS, Investor-State Dispute Settlement. È moltocontestata anche da parte di alcuni governi, innanzitutto quello tedesco. Prevede la possibilità per gli investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione, da parte dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto internazionale in materia di investimenti. Ci sono già molti casi a riguardo: nel 2012 il gruppo Veolia ha fatto causa all’Egitto al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti della Banca Mondiale perché la nuova legge sul lavoro del governo contravveniva agli impegni presi in un accordo (firmato) per lo smaltimento dei rifiuti; nel 2010 e nel 2011 Philip Morris ha utilizzato questo meccanismo contro l’Uruguay e l’Australia e le loro campagne anti-fumo; nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha citato in giudizio il governo tedesco chiedendo 1,4 miliardi di euro contro la decisione di abbandonare l’energia nucleare.

    Le aziende, dice chi critica la clausola, potrebbero insomma opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse la loro azione e i loro futuri profitti. Scrive Lori Wallach: «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa?».

  • Qualche domanda al Fronte del NO…

    Qualche domanda al Fronte del NO…

    Perchè essere contrari al superamento del bicameralismo perfetto?

    Perchè essere contrari al fatto che la Camera dei Deputati sia l’unica Assemblea Legislativa che da la fiducia al Governo e il Senato sia, con poteri ridotti, l’espressione delle regioni?

    Perchè essere contrari, quindi, alla riduzione di 215 parlamentari?

    Perchè essere contrari all’abolizione del CNEL con 65 poltrone?

    Perchè essere contrari all’abolizione delle Province e al tetto per lo stipendio dei consiglieri regionali?

    Perchè essere contrari a passare da un sistema con 945 parlamentari pagati a un sistema con 630 (meno 1/3)?

    Perchè essere contrari al fatto che il Governo avrà meno possibilità di varare decreti legge?

    Perchè essere contrari a iter legislativi semplificati con voti a data certa?

    Perchè essere contrari all’innalzamento dei quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica?

    Perchè essere contrari all’abbassamento del quorum per i referendum?

    Perchè essere contrari all’introduzione dei referendum proprositivi e d’indirizzo?

    Perchè essere contrari a rimettere ordine nel Titolo V al fine di togliere poteri alle Regioni inefficienti e rendere lo Stato più semplice?

    Perchè essere contrari ad avere garanzie di discussione e votazione per le leggi d’iniziativa popolare?

    Perchè essere contrari ad un Paese in cui chi vince governa 5 anni come in tutti gli altri Paesi?

  • In memoria di Marco Pannella

    In memoria di Marco Pannella

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    Marco Pannella è morto questa mattina, dopo mesi di battaglia contro il cancro. Le sue condizioni si erano aggravate ieri, quando era stato ricoverato in una clinica romana. Nato a Teramo nel 1930, con la sua scomparsa se ne va il principale protagonista dell’avvio di tante battaglie per i diritti civili, dal divorzio, all’aborto, all’eutanasia, passando ovviamente per la sua battaglia campale: quella per la legalizzazione della cannabis.

    Le battaglie antiproibizioniste di Pannella cominicarono già all’alba degli anni settanta. Nel gennaio del 1973 con una lettera al quotidiano Il Messaggero condannò il clima di criminalizzazione verso i giovani “capelloni” che fumavano gli spinelli e lanciò le prime riflessioni sulla necessità di depenalizzare il consumo.

    Nel 1975 diede invece inizio alla sua lunga campagna delle “disobbedienze civili”. Il 2 luglio 1975 Pannella viene arrestato dopo aver fumato deliberatamente marijuana in pubblico. In carcere, Pannella rifiuta di chiedere la libertà provvisoria fino a che non riceve, dai Presidenti della Camera e del Senato, l’impegno e la garanzia a discutere e mettere in votazione, entro 4 mesi, la legge di riforma sulle droghe. Cosa che effettivamente avvenne, portando, nel 1976, alla prima riforma che rende non più condannabile al carcere il semplice consumatore di droghe leggere.

    La battaglia non si ferma. Nel 1980 il Partito Radicale raccoglie oltre 500.000 firme su di un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere; il referendum avrebbe dovuto tenersi nella primavera del 1981, ma nel gennaio di quell’anno la Corte costituzionale lo giudica inammissibile.

    La battaglia di Pannella contro la criminalizzazione dei consumatori di cannabis riprende nel 1990, quando viene approvata la legge, voluta dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, che reintroduce il reato di consumo di droga. Alla fine del 1991 promuove un referendum per l’abolizione delle sanzioni penali per il consumo di droga e per il riconoscimento della libertà terapeutica nella cura delle dipendenze, il referendum svoltosi nel 1993 viene vinto con il 52% circa dei voti a favore: il consumo di droga torna ad essere depenalizzato.

    Nel 1995, il rilancio della campagna per la legalizzazione delle droghe leggere viene di nuovo affidata ad iniziative di disobbedienza civile, durante le quali viene distribuito gratuitamente e pubblicamente hashish in varie manifestazioni pubbliche.

    Il 27 agosto di quell’anno Pannella regala hashish durante una manifestazione a Porta Portese e il 18 dicembre ripete la consegna gratuita in piazza Navona. Per questi due fatti verrà poi condannato rispettivamente a 8 mesi di libertà vigilata e a due mesi e otto giorni di carcere (questa seconda condanna annullata successivamente).

    Lo stesso giorno della manifestazione in piazza Navona, mentre i giudici lo condannano, Pannella, ospite al programma tv “l’Italia in diretta” regala circa 200 grammi di fumo alla conduttrice Alda D’Eusanio. Una scena diventata epica anche per la reazione della conduttrice che si mette a gridare “ragazzi questa è morte, stateci lontani”.

    Nel gennaio 1996, vengono depositate oltre 500.000 firme in calce ad un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere ed un anno dopo la Corte Costituzionale lo dichiara inammissibile, motivando la sentenza con il vincolo costituito dalle convenzioni internazionali, che vieterebbero l’adozione di queste politiche di legalizzazione.

    La battaglia di Marco Pannella per la legalizzazione delle droghe leggere continua anche nel nuovo millennio, spesso collegata a quelle contro il sovraffollamento delle carceri. Una battaglia che negli ultimi anni si è legata sempre di più a quelle per il diritto alla cura dei malati, con le azioni di disobbedienza civile per la cannabis terapeutica condotte da Rita Bernardini, attuale segretaria dei Radicali.

    Negli anni molti movimenti antiproibizionisti si sono allontanati dai Radicali e dai metodi di lotta di Pannella, spesso giudicati troppo improntati alla spettacolarizzazione. Ciò che rimane tuttavia innegabile è che con Marco Pannella se ne va una figura cardine delle battaglie per i diritti civili in Italia. Un politico che per anni ha condotto in solitudine e con ammirevole coraggio intellettuale una battaglia che allora era di estrema minoranza, contribuendo per primo a rendere quello della legalizzazione un tema non più tabù, ma un tema del quale si poteva, e si doveva, parlare.

  • Riparare l’economia…impossibile.

    Riparare l’economia…impossibile.

    Dobbiamo smettere di considerare la nostra economia come un sistema difettoso da riparare, quando in realtà funziona in modo perfettamente fedele al suo disegno originario. È il momento di essere davvero progressisti — e ciò significa avviare cambiamenti sistemici.
    Prendiamo ad esempio la proposta di Bernie Sanders di mettere un freno al settore bancario ripristinando la funzione della Federal Reserve come “agenzia di regolamentazione”. Per quanto bene intenzionata, è una proposta che rivela l’incapacità della sinistra di cogliere le vere cause dei problemi finanziari di oggi.
    Il punto è che non stiamo assistendo a una perversione del capitalismo – il problema non è l’avidità delle banche che hanno corrotto un sistema finanziario altrimenti egalitario, ma il fatto che il capitalismo sta facendo esattamente ciò per cui è stato programmato fin dall’inizio. Per risolvere il problema, dovremmo andare all’essenza del codice operativo del sistema stesso e riscriverlo per metterlo al servizio delle persone, invece che al servizio del potere.
    Prima di tutto, il ruolo della Federal Reserve non è mai stato quello di un’agenzia di regolamentazione. Non è come l’Agenzia per la protezione dell’ambiente che, per quanto si dimostri tristemente inadeguata al suo scopo, ha effettivamente il compito di regolamentare le attività delle imprese per limitare i danni ambientali. La Fed è piuttosto una società privata – una banca per le banche, di proprietà delle banche — creata per garantire il valore della valuta. È stata ideata per essere al servizio del dollaro e mantenerne il valore contrastando l’inflazione. Quando la Fed si sente magnanima, può anche far circolare soldi in più, nella speranza di vederli investiti in imprese che creano lavoro.
    Le azioni della Fed sono tuttavia limitate dal modo in cui il nostro denaro, la valuta centrale, è stato progettato per funzionare. È un sistema nato prima dell’era industriale, quando l’aristocrazia europea in declino cercava di contenere l’ascesa della classe media mercantile. I piccoli mercanti si stavano arricchendo per la prima volta dagli inizi del feudalesimo, grazie alla diffusione di un mercato peer-to-peer con un nuovo ingegnoso sistema monetario, basato su ricevute e valute locali di scambio.
    All’inizio della giornata di mercato, un panettiere poteva acquistare le provviste necessarie per la settimana mettendo in circolazione ricevute valide per l’acquisto del pane, che a loro volta potevano anche essere scambiate per acquistare altre merci. Altre valute erano basate su depositi di cereali o fieno. Erano state create non a scopo di risparmio o accumulo, ma per promuovere gli scambi commerciali.
    Una dopo l’altra, le monarchie europee misero fuorilegge queste valute locali adottando al loro posto valute centrali, che potevano essere messe in circolazione solo in forma di prestito a interesse. Se un mercante voleva utilizzare il denaro, doveva prenderlo in prestito a interesse dalla banca centrale. Questo nuovo sistema aiutò i ricchi a mantenere l’esclusività sulla ricchezza. Potevano diventare più ricchi, semplicemente essendo ricchi.
    Queste sono le origini del nostro sistema monetario: è stato progettato non per promuovere la creazione e lo scambio di valore tra la popolazione, ma per estrarre valore da chiunque intendesse avviare scambi commerciali. Non è stato concepito per favorire la circolazione, ma per farle da freno.
    Un altro problema di una valuta centrale è che richiede una crescita sempre più rapida dell’economia. Se per ogni 100.000 dollari messi in circolazione alla fine ne dovranno essere rimborsati 200.000, da dove vengono gli altri 100.000? Qualcuno deve prenderli in prestito o guadagnarli.
    Ora, questo schema funziona bene finché l’economia continua a crescere, come avvenne in passato per le grandi potenze coloniali alla conquista del mondo o con l’espansione economica degli Stati Uniti nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Ma oggi la nostra capacità di crescita ha raggiunto i suoi limiti. Non ci sono più regioni da conquistare o nazioni in via di sviluppo da sfruttare. Anche senza pensare a progetti futuristici di fuga nello spazio, è ovvio che il nostro pianeta è stato spinto oltre la sua capacità portante in termini di estrazione e crescita ulteriore.
    Ci stiamo muovendo verso una fase di stallo economico — e per quanto un’economia stazionaria a crescita lenta o persino a crescita zero sia un bene per gli esseri umani e per il pianeta, è del tutto incompatibile con il sistema monetario su cui è ancora basata.
    A peggiorare le cose, nell’era digitale abbiamo dato spinte di accelerazione sia ai nostri mercati finanziari con il trading ad alta frequenza sia al nostro contesto imprenditoriale, con startup gonfiate e spietati monopoli di piattaforme come Amazon e Uber. Queste società sono valutate non tanto per la capacità di realizzare profitti quanto per quella di essere acquisite o quotate in borsa – ripagando così le istituzioni che le hanno finanziate fornendo loro il capitale iniziale.
    Affidare alla Fed il compito di risolvere i problemi del capitalismo è come chiedere a una compagnia petrolifera di aiutarci a staccarci dalla dipendenza da combustibili fossili: è vendere lo strumento sbagliato per il lavoro da fare.
    Come sostengo nel mio ultimo libro, Throwing Rocks at the Google Bus, stiamo facendo girare l’economia digitale del ventunesimo secolo su un sistema operativo che risale all’epoca delle macchine da stampa del tredicesimo secolo. L’opportunità dell’era digitale e la sensibilità che sta diffondendo è di riprogrammare il denaro in modo da favorire lo scambio rispetto all’accumulo – il flusso rispetto alla crescita.
    Ciò significa sperimentare nuove forme più fluide di scambio – da valute locali, che aumentano la circolazione di dieci volte rispetto a quelle emesse dalle banche, a un sistema come quello di Bitcoin, che verifica le transazioni senza bisogno di una costosa autorità centrale. Stiamo già vedendo esempi efficaci di adozione di sistemi monetari alternativi, non solo nelle città progressiste costiere degli Stati Uniti, ma anche negli ex centri industriali degli stati centrali, un tempo sede delle grandi acciaierie. Le “banche del tempo” online danno nuova energia allo scambio di beni e servizi in molte comunità, dalla Grecia paralizzata dall’austerity fino alla città di Lansing nel Michigan devastata dalla recessione. Nuove cooperative che attirano investitori – da produttori di finestre a Chicago a sviluppatori di software in Nuova Zelanda – scelgono di ottimizzare in modo consapevole il flusso di valore attraverso una rete, piuttosto che l’estrazione di valore da quella rete.
    Altri esempi sono piattaforme cooperative come Lazooz, un servizio di car-sharing di proprietà degli autisti, che utilizza il sistema Blockchain per stabilire la proprietà in base ai chilometri percorsi. Anche se Lazooz segue la stessa direzione di Uber puntando alle vetture autoguidate, almeno i suoi lavoratori condivideranno i guadagni futuri del lavoro da loro creato.
    Ciò che distingue questi esperimenti dagli approcci tradizionali della sinistra è che non stanno tentando di compensare le disuguaglianze del nostro sistema economico a posteriori. Non ridistribuiscono il bottino del capitalismo d’impresa, come farebbero politiche governative attuate per imposizione dall’alto. Piuttosto, il loro obiettivo è ampliare la distribuzione dei mezzi di produzione e degli strumenti per lo scambio. Dalle Benefit Corporation agli esempi locali di crowdfunding, i migliori tentativi di forgiare strumenti finanziari più equi sono caratterizzati da una volontà di riprogrammare l’attività d’impresa, il commercio, la valuta e il mercato dall’interno verso l’esterno.
    Ecco perché, soprattutto in un anno di grandi campagne elettorali come questo, dobbiamo smettere di chiedere ai politici di limitarsi a girare questa o quella manopola del nostro attuale sistema economico o monetario. Sostituire i membri della Fed non cambierà la natura di base della banca centrale, così come un sistema fiscale incrementale e più progressista non potrà cambiare la natura estrattiva della moneta centrale.
    Invece di pensare a proposte per mettere freni al settore bancario, bisogna pensare a come spezzarne il monopolio sulla creazione di valore e di scambio, favorendo valute competitive, strutture imprenditoriali alternative, aziende gestite dai lavoratori e un rinnovato rispetto per il territorio e la forza lavoro, invece del puro capitale. Se non vogliamo accettare lo status quo, proviamo almeno a battere il sistema al suo stesso gioco. Possiamo creare noi stessi la nostra economia e il nostro denaro.
    Dopo tutto, siamo o non siamo in un libero mercato?

    di Douglas Rushkoff

  • Tecniche di primo soccorso

    Tecniche di primo soccorso

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  • Il manifesto della guerriglia Open Access

    Il manifesto della guerriglia Open Access

    di Aaron Swartz

    Questo testo è la versione italiana del Guerrilla Open Access Manifesto, scritto da Aaron Swartz nel 2008, mentre partecipava ad una conferenza sulla comunicazione scientifica svoltasi in un non ben precisato eremo toscano. Dopo la sua morte nel 2013, ci siamo messi a tradurlo collaborativamente. C’erano Enrico Francese, Silvia Franchini, Marco Solieri, elle di ci, Andrea Raimondi, Luca Corsato, e altri contributori anonimi e generosi. Lo ripubblico qui, perchè è giusto che lo leggano più persone possibile.


    L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme ad editori come Reed Elsevier.

    C’è chi lotta per cambiare tutto questo. Il movimento Open Access ha combattuto valorosamente perché gli scienziati non cedano i loro diritti d’autore e pubblichino invece su Internet, a condizioni che consentano l’accesso a tutti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, il loro lavoro varrà solo per le cose pubblicate in futuro. Tutto ciò che è stato pubblicato fino ad oggi sarà perduto.

    Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.

    “Sono d’accordo,” dicono in molti, “ma cosa possiamo fare? Le società detengono i diritti d’autore, guadagnano enormi somme di denaro facendo pagare l’accesso, ed è tutto perfettamente legale — non c’è niente che possiamo fare per fermarli”. Ma qualcosa che possiamo fare c’è, qualcosa che è già stato fatto: possiamo contrattaccare.

    Tutti voi, che avete accesso a queste risorse, studenti, bibliotecari o scienziati, avete ricevuto un privilegio: potete nutrirvi al banchetto della conoscenza mentre il resto del mondo rimane chiuso fuori. Ma non dovete — anzi, moralmente, non potete — conservare questo privilegio solo per voi, avete il dovere di condividerlo con il mondo. Avete il dovere di scambiare le password con i colleghi e scaricare gli articoli per gli amici.

    Tutti voi che siete stati chiusi fuori non starete a guardare, nel frattempo. Vi intrufolerete attraverso i buchi, scavalcherete le recinzioni, e libererete le informazioni che gli editori hanno chiuso e le condividerete con i vostri amici.

    Ma tutte queste azioni sono condotte nella clandestinità oscura e nascosta. Sono chiamate “furto” o “pirateria”, come se condividere conoscenza fosse l’equivalente morale di saccheggiare una nave ed assassinarne l’equipaggio, ma condividere non è immorale — è un imperativo morale. Solo chi fosse accecato dall’avidità rifiuterebbe di concedere una copia ad un amico.

    E le grandi multinazionali, ovviamente, sono accecate dall’avidità. Le stesse leggi a cui sono sottoposte richiedono che siano accecate dall’avidità — se così non fosse i loro azionisti si rivolterebbero. E i politici, corrotti dalle grandi aziende, le supportano approvando leggi che danno loro il potere esclusivo di decidere chi può fare copie.

    Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica.

    Dobbiamo acquisire le informazioni, ovunque siano archiviate, farne copie e condividerle con il mondo. Dobbiamo prendere ciò che è fuori dal diritto d’autore e caricarlo su Internet Archive. Dobbiamo acquistare banche dati segrete e metterle sul web. Dobbiamo scaricare riviste scientifiche e caricarle sulle reti di condivisione. Dobbiamo lottare per la Guerrilla Open Access.

    Se in tutto il mondo saremo in numero sufficiente, non solo manderemo un forte messaggio contro la privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo un ricordo del passato.

    Vuoi essere dei nostri?

    Aaron Swartz
    Luglio 2008, Eremo, Italia