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  • Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Cose da non fare quando mandate un curriculum

    Ho spedito così tanti curriculum nella mia vita, e ho ricevuto così poche risposte, che una volta diventata direttore mi sono fatta una promessa: avrei sempre risposto a tutti (anche se con un ritardo medio di 30–40 giorni).

    Faticosamente porto avanti il mio impegno.

    E… deve essersi sparsa la voce (quella lì risponde!), o semplicemente è lo specchio dei tempi: da anni, la mia casella email è destinataria dei sogni di centinaia e centinaia di persone.

    Un popolo variegato, da cui sono emersi i miei più fidati collaboratori, e che mi ha fatto scoprire una grande verità:

    Rispondere a un’autocandidatura è doveroso. Ma è altrettanto doveroso autocandidarsi in maniera efficace.

    Ecco dunque una lista semiseria delle cose da fare (e non fare) quando si manda un curriculum.

    Tutti gli esempi che leggerete sono email realmente ricevute: ho solo reso irriconoscibili i mittenti. Che spero non se ne abbiano a male se li ho usati come esempio in questo excursus sulla difficile arte di farsi ascoltare.

    Partiamo dai fondamentali:

    1) Mai farsi precedere dal proprio cognome:

    «Sono Antonelli Giorgia».

    Specie se il cognome assomiglia vagamente a un nome: la risposta in tal caso rischia di essere: «Cara Antonella…»

    2) Cercare, nei limiti del possibile, di non sbagliare il nome del destinatario, e soprattutto di non confondere la sua azienda con il principale competitor.

    Una volta, una ragazza era partita proprio bene:

    «Gentile signora Monfreda. Leggo sempre con piacere il vostro giornale perché mi fa sognare».

    Ma poi ha pensato di concludere così:

    «Sarebbe per me un’immensa gioia vedere pubblicate le mie poesie su un giornale famosissimo come Vanity Fair».

    3) Evitare i modelli di lettere reimpostati, se non si vuol rischiare un effetto così:

    «Buongiorno, desidero presentarVi la mia autocandidatura presso la Vostra Azienda. Allego per cui una lettera di presentazione e il mio Curriculum Vitae, nella speranza che le mie competenze possano rispondere alle esigenze della Vostra Azienda. Cordialmente».

    4) L’autopromozione è fondamentale. Bisogna essere i primi sponsor di se stessi. Ma senza esagerare.

    Il rischio è di sentirsi rispondere: “posso mandarglielo io il curriculum?” Come ho fatto io, scherzosamente, al mittente di questa email:

    «Essendo medico, specialista in medicina fisica e riabilitazione, specialista in igiene e medicina preventiva, docente universitario attualmente presso gli Atenei di Pinco e Pallino, e collaborando con molte delle più qualificate riviste tecniche del settore…»

    5) D’altra parte non bisogna neppure buttarsi giù:

    «Sono una giornalista ma mi adatto a qualsiasi ruolo»

    Tantomeno mettersi ai saldi:

    «Il motivo per cui le arreco questo disturbo è che, se lo ritenesse opportuno, desidererei, davvero fortemente, collaborare con la rivista Donna Moderna, anche gratuitamente».

    ***

    Ma allora, una buona volta, cosa si deve fare?

    Tanto per cominciare:

    1) Il miglior consiglio per mandare un curriculum è… non mandarlo. Ebbene sì, lo ammetto: ho aperto raramente l’allegato a una mail così congegnata

    Buongiorno Direttore, mi permetto di inviarle il mio curriculum. Qui ne trova una versione online. Spero di cuore in una sua risposta, per ora la ringrazio molto.

    Quel freddo elenco di competenze, miste a pezzi di vita stile telegramma, non è di facile lettura. Meglio raccontarsi con una bella lettera e allegare il cv per ulteriori approfondimenti.

    C’è gente che dice: ho mandato 100 curriculum, neanche una risposta.

    Io controbatto: per inviare un curriculum ti basta un clic. Per leggerlo ed elaborare una risposta sensata occorre almeno un quarto d’ora: lo faccio solo quando sento che c’è stato altrettanto impegno dall’altra parte.

    2) Dimostrare di conoscere a fondo l’azienda per cui ci si candida e i suoi brand. Possibilmente dicendo cose intelligenti.

    Leggo Donna Moderna praticamente sin dalla sua nascita: mia madre, divoratrice di giornali, è stata una delle vostre prime lettrici, e da anni continua ad acquistarvi: ha sempre detto che il vostro è un femminile è stato rivoluzionario, perché per la prima volta ha saputo parlare di donne vere e di cose concrete. Anche il mio lavoro è fatto di cose concrete: da circa 10 anni […]. Mi piacerebbe collaborare con voi, inviandovi proposte di articoli. Vi allego per questo il mio curriculum, e vi chiedo, qualora siate aperti a nuove collaborazioni, a chi di voi posso inviare le mie proposte.

    Chapeau!

    3) Farsi notare, ma senza fuochi d’artificio.

    A volte basta una parola messa lì senza automatismi a svelarti una mente brillante e intelligente… Come una certa fanciulla che un giorno mi scrisse:

    Gentile direttore Monfreda, mi presento. Mi chiamo Lucrezia, ho diciamo trent’anni […]

    4) Per finire, la regola aurea. Presentarsi con la forza delle proprie idee.

    “Il miglior curriculum sono le idee” è una delle lezioni che ho imparato nella mia lunga carriera di inviatrice di autocandidature (e lo spiego qui verso il minuto 2′ 20”).

    Ecco perché ho adorato queste email di presentazione:

    Gentile Annalisa, le scrivo perché è da tempo che ho un’idea in testa: unire insieme libri ed erbe aromatiche.

    Gent.le Direttore, contando sul fatto che una delle doti di un buon giornalista è la sintesi, vado subito al punto: sono una giornalista professionista, mi sono occupata principalmente di cronaca e costume, e vorrei collaborare con Donna Moderna. Qui di seguito alcune proposte e, in allegato, il mio curriculum-vitae.

    Buonasera direttore, mi chiamo Tizio e Caio, sono una giornalista professionista di 33 anni, vivo a Cesenatico. Vorrei proporle alcuni articoli pensando che possano essere d’interesse per il vostro prodotto editoriale, del quale sono un’affezionata lettrice.

    A questo punto ho lanciato la palla: sono pronta non solo a ricevere i vostri curriculum ma a chiacchierare con voi di come scriverli in modo efficace! Forza, fatevi avanti…

  • Le 7 regole d’oro del public speaking

    Le 7 regole d’oro del public speaking


    Inserisci i contenuti che vuoi trasmettere in una o più storie e racconti (storytelling), invece che limitarti a trasmettere mere informazioni.

    Coinvolgi il tuo pubblico con domande, invece di fare monologhi.

    Usa un po’ di humor intelligente e adeguato, per sciogliere la tensione e per avvicinare a te il pubblico.

    Se puoi parla in piedi, invece che seduto dietro un tavolo e il computer.

    Assumi una posizione con le mani incrociate sul davanti, resta dritto e aspetta che tutti facciano silenzio.

    Mantieni il contatto visivo con tutto il pubblico, abbraccialo con il tuo sguardo.

    Apri il tuo speech anticipando i punti della relazione, poi affrontali e infine fai una sintesi dei punti importanti (dirò-dico-ho detto).

    Fai la sintesi di quanto è stato detto prima di passare ad un nuovo argomento.

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

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  • Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.

    «Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione invia ORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».

    Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.

    Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.


    Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.

    « All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»

    Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.

    Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.

  • Libere dal burqa e dall’Isis.

    Libere dal burqa e dall’Isis.

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  • Congresbury, il paese delle buone azioni

    Congresbury, il paese delle buone azioni

    venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.

    Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.

    Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.

    Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!

  • Wikipedia!

    Wikipedia!

    Wikipedia.com è live dal 15 gennaio 2001 — oggi è .org. Sono passati 15 anni da quando Jimmy Wales e Larry Sanger lanciarono ufficialmente il sito, nato dopo una serie di esperienze a cavallo tra il mondo delle directory, delle dotcom e di Nupedia, la prima versione del progetto di Wales di creare un’enciclopedia online, che ancora manteneva nel nome il legame con il progetto GNU e il mondo Linus. Galeotto fu poi l’incontro con Ward Cunningham, il creatore di “wiki”, ossia la tecnologia che permette a chiunque di creare o modificare liberamente qualsiasi pagina di un sito web.

    Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia

    “Immaginate un mondo in cui chiunque può avere libero accesso a tutto il patrimonio della conoscenza umana. Questo è il nostro scopo.” (Jimmy Wales)

    Curiosità: la prima voce creata sul nuovo sito riguardava la lettera “U”, origini, storia e significato della ventunesima lettera dell’alfabeto inglese.

    Jimmy Wales, a tutti gli effetti riconosciuto come il fondatore di Wikipedia, la definisce come “un’enciclopedia multilingue, redatta da autori volontari e, cosa ancor più importante, sottoposta a libera licenza.”

    La linea editoriale, se così si può chiamare, è quella del Neutral Point Of View,NPOV, che “cerca di presentare idee e fatti in modo da mettere d’accordo sostenitori e detrattori”. Può sembrare ovvio o banale per un’enciclopedia, ma risponde a una forte domanda di contenuti imparziali e attendibili, merce rara oggi come agli albori della rete.

    Ma quello che veramente definisce Wikipedia, quello che ci fa capire la sua straordinaria rivoluzione, è il lavoro dei wikipediani.

    “Wikipedia non è affatto un’innovazione tecnologica: è un’innovazione sociale.” (Andrew Lih)

    La cultura hacker e il modello open-editing

    Perché fosse possibile un’enciclopedia libera, aperta, neutrale e tempestiva — tempestiva nel catalogare ogni avvenimento non appena se ne abbia notizia, punto di forza cruciale per il successo dell’operazione — è stato fondamentale il radicamento di Wikipedia nella cultura hacker.

    Il principio per cui la condivisione del know-how fra pari produce innovazione per tutti si traduce in quello per cui la condivisione libera del sapere è alla base dell’aumento della conoscenza umana.

    Nell’etica hacker il presupposto della condivisione è l’apertura, intesa come un vero e proprio metodo per ispezionare il lavoro altrui al fine di apprezzarlo, di acquisire nuove conoscenze, di mettersi alla prova, di collaborare, di migliorarlo nell’interesse di tutti.

    È esattamente questo il metodo alla base del funzionamento di Wikipedia: il sito permette a chiunque di intervenire e modificare ogni voce, quindi ogni azione può essere facilmente annullata dagli altri membri della comunità.
    In questo sistema, risulta più facile correggere gli errori piuttosto che “punire” chi sbaglia, si crea quindi un’asimmetria che premia i membri della comunità più produttivi e collaborativi, contro troll e vandali di varia natura, senza limitare la libertà di nessuno.

    “Sono più necessari i partecipanti delle regole.” ( Larry Sanger)

    Lo dimostra la regola IAR, Ignore All Rules, introdotta da Larry Sanger: “se le regole ti rendono nervoso e demoralizzato, e non desideroso di partecipare al wiki, allora ignorale e torna al tuo lavoro.”

    Proprio da questa cultura nascono i due famosi mantra di Wikipedia: “Be Bold” e “So Fix it”, ormai stampati sulle t-shirt da nerd di tutto il mondo.

    Be Bold

    “Si cerchi dunque di non essere timidi nel modificare le voci, perché il piacere di contribuire non richiede per forza di raggiungere la perfezione, nonostante questa sia l’obiettivo ultimo dell’enciclopedia. Non ci si preoccupi eccessivamente di combinare eventuali pasticci: tutte le versioni precedenti di una voce vengono salvate, per cui è impossibile danneggiare Wikipedia in maniera irreparabile. Ma ci si ricordi che, allo stesso modo, tutto ciò che si scrive sarà conservato per i posteri.” (Wikipedia)

    Nella cultura di Wikipedia anche solo un abbozzo di voce rappresenta un stimolo e un incitamento che serve a far intervenire altri contributori, per espandere e migliorare la voce stessa.

    “Be Bold”, “sii audace”, non è quindi un incoraggiamento generico, ma il motore individuale capace di generare un effetto a catena positivo per la comunità.

    Joseph Michael Reagle Jr., nella sua tesi di dottorato sui meccanismi di collaborazione all’interno di Wikipedia — In Good Faith: Wikipedia Collaboration and the Pursuit of the Universal Encyclopedia — ha parlato di effetto stigmergico per descrivere questo meccanismo:

    “Il termine stigmergia è stato coniato da Pierre-Paul Grasse per descrivere come le vespe e le termiti costruiscono strutture complesse lavorando in modo collettivo; come osserva Istvan Karsai, il termine descrive la situazione in cui è il risultato di un lavoro precedente, piuttosto che la comunicazione diretta fra i costruttori, a spingere [e a dirigere] le vespe nell’esecuzione di un lavoro successivo.”

    Secondo Andrew Lih, esperto di Wikipedia e della censura di Internet nella Repubblica Popolare Cinese, questo meccanismo di comunicazione implicita che avviene modificando il proprio ambiente è un modello abbastanza utile per descrivere Wikipedia, intesa come una colonia virtuale di formiche. Il sito non avrebbe potuto crescere così rapidamente senza che si fosse provveduto a combinare in modo efficace l’effetto stigmergico, basato sulla registrazione delle modifiche nell’ambiente, con i canali di comunicazione esplicita.

    So Fix It

    Wikipedia nasce agli albori del web 2.0, quando i contenuti della rete iniziano ad essere prodotti direttamente dagli utenti. Questo creava un po’ di sconcerto ai primi, nuovi utenti di Wikipedia, che spesso chiedevano ai membri più anziani di fare delle modifiche senza rendersi conto di poterle fare in prima persona. È nato così il tormentone del “sofixit” (“allora aggiustalo”), in risposta alle prime ingenue domande dei newbie, ma ha finito per rappresentare la prassi per cui all’interno della comunità ci si debba sporcare le mani in prima persona, senza rimanere in attesa di soluzioni elaborate.

    Come si dice, se non sei parte della soluzione sei parte del problema.

    La rivoluzione di Wikipedia

    Come si definisce e s’identifica un esperto? Che cosa merita di finire in un’enciclopedia? Che cosa spinge i wikipediani a lavorare sodo su un progetto gratuito? Che cosa è rimasto del progetto originale e come si è evoluto?

    Per rispondere a queste e a molte altre domande, ma anche solo per leggere un bel libro, La rivoluzione di Wikipedia di Andrew Lih, Codice Edizioni, 2010.

    Buon compleanno Wikipedia!

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  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?

  • Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Perché i social sono la frontiera — e la trincea — dei giornali. E cosa ci dicono del presente e del futuro dell’informazione.

    Sono stata social media editor di un grande giornale e credo di aver imparato alcune cose. Sul giornalismo, più che sui social media, perché questi funzionano come un prisma capace di rifrangere, scomporre e rendere visibili molte delle attuali ambizioni e difficoltà di chi fa informazione.

    E pazienza se nessuno — in un certo senso, nemmeno loro — abbia veramente idea di cosa diavolo facciano i social media editor. Sì, si intuisce che abbiano a che fare con i tweet e i post, ma più di lì non ci si spinge. Non si capisce neanche bene come chiamarli: social media manager? Editor? Engagement editor? Community manager? Per fortuna ci vengono in soccorso i generatori automatici di “social media cosi” (cit: utenti Facebook).

    In realtà le offerte di lavoro delle testate angloamericane pullulano di annunci per queste posizioni e le descrizioni della loro attività — molto utili per capire cosa effettivamente dovrebbero fare queste figure — spesso si sovrappongono.

    Ma questa incertezza identitaria è anche legata al ruolo liminare, di frontiera, dei “social media cosi”.

    Stare sulla frontiera però non è del tutto negativo. La prospettiva è più ampia. Si vedono bene i movimenti delle truppe e i loro schieramenti. Si ha la percezione di stare nel luogo dove una nuova realtà si sta formando e accadendo, dove si può vedere — per citare il filosofo — “nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante”.

    Da un certo punto di vista, è una condizione non lontana da quella del giornalista che si occupa di sicurezza informatica. Lo dico perché mi è capitato di incarnare entrambi i ruoli contemporaneamente (qui alcuni dei miei articoli sul tema). Ed è roba da perderci la testa, all’inizio: un secondo sei il Dottor Jekyll, un secondo dopo il signor Hyde (lascio a voi l’assegnazione dei ruoli). La sera ti prefiguri legioni di hacker che per i più svariati motivi potrebbero voler sfondare i siti o i profili del giornale; la mattina fiuti torme di screenshotter in cerca di una consulenza pronti a rivendersi una tua risposta sgraziata a un utente. Inoltre non capisci perché il capo del marketing non voglia discutere con te di una campagna social sulla chat cifrata di Jabber, mentre rischi l’infarto ogni volta che si debba condividere un account con qualcuno di esterno al ristretto team.

    Alla fine ti rendi conto che security e social sono probabilmente antitetici — e che sprigionano però la stessa aria di caos, sommossa ed energia di un mondo nuovo. Ma, soprattutto, che costruire una comunità è per un giornale impresa molto più ardua e spaventosa di qualsiasi attacco informatico.

    E dunque, andando al sodo su quello che ho imparato (non solo nella mia esperienza di social media editor, ma anche dal confronto con i colleghi e dal mio lavoro in Effecinque.org):

    • I social media sono la trincea del giornalismo

    Lo sono per vari motivi. Ma principalmente perché è lì che ormai è stata delegata (a torto o a ragione, temo a torto) l’interazione col pubblico. Chi oggi voglia commentare un articolo, mandare un complimento, una rimostranza o dello spam al giornale, scrivere a un suo giornalista, segnalare una storia, chiedere informazioni o anche semplicemente fare due chiacchiere con qualcuno si rivolge in primis ai profili della testata sui social network.

    Chi si occupa dei social media si trova così a dover gestire non solo le proprie scelte più dirette ma anche l’intera linea editoriale di una testata, nonché le performance dei suoi singoli redattori. Il tutto dentro un ristrettissimo margine di manovra.

    Se ne esce soprattutto in due modi: da un lato, coinvolgendo di più i singoli giornalisti nell’interazione con gli utenti e invitandoli a seguire la propria storia anche dopo che è stata pubblicata (o che abbiano degli spazi di confronto più diretto, come fa il Washington Post attraverso delle chat); dall’altro, facendo in modo che le criticità emerse dal rapporto coi lettori — se ad esempio un certo articolo o scelta editoriale provocano una motivata insurrezione — siano trasmesse, spiegate e intese dal resto del giornale.

    Il social media team insomma è o dovrebbe essere una cinghia di trasmissione tra il dentro e il fuori, premesso che queste due categorie non hanno probabilmente più senso se non per quei giornalisti che ancora si sentono incastonati nella loro torre d’avorio — trasformatasi nel tempo in un desk di plastica, ma vabbé.

    Ma i social sono una frontiera anche nel senso che lì le contraddizioni si acuiscono. Gli errori tendono a permanere e sono più difficili da gestire. Le immagini e i titoli hanno un impatto più forte. Se il sito è ancora un contenitore che si pensa possa raccogliere un po’ di tutto, sui social ogni scelta di pubblicazione deve apparire in qualche modo motivata agli occhi degli utenti.

    • Creare comunità è il sacro graal del giornalismo digitale

    O, se preferite, la reincarnazione delle televendite di mirabolanti prodotti dimagranti.

    Tutti dicono che bisogna fare comunità, creare comunità, interagire con la fottuta comunità, ma non c’è quasi nessuno che spieghi come farlo concretamente.

    Avere una policy su come rapportarsi con gli utenti e un galateo valido per tutti (come ha fatto La Stampa) su come comportarsi sulle pagine del giornale — che si tratti di social o del suo sito — aiuta, ed è sicuramente un primo punto di partenza.

    Oggi vedere le pagine Facebook dei quotidiani piene di commenti irriferibili non è proprio più accettabile e mantenere mediamente civili i propri luoghi digitali è il minimo sindacale per una testata — minimo che però, precisiamolo, comporta di per sé un notevole dispendio di energie e forza lavoro.

    Aggiungo anche che, nell’ecologia mentale e morale dei social, conta molto quello che si decide di pubblicare. Ovvero — per citare una approfonditaanalisi di Arianna Ciccone sul giornalismo odierno — “dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai”. Questo lo sa intuitivamente qualsiasi social media editor. Se metti su Facebook un pezzo di raccapricciante cronaca nera avrai tante visualizzazioni, tanti clic e tanti commenti. Di che natura questi ultimi? Non ci vuole una scienza per capirlo.

    Occorre invece una riflessione su quale sia l’obiettivo della testata: fare tante visualizzazioni e clic entrando a gamba tesa nella timeline dei propri fan (luogo molto più delicato e intimo del sito di un giornale) e suscitando reazioni emotive che si esprimono soprattutto in commenti di odio e frustrazione, o semmai scegliere di pubblicare qualcosa di più costruttivo benché, all’inizio, meno “performante”?

    Ad ogni modo, fare comunità è ancora un passo successivo. Ed è più semplice farlo per una testata specializzata o settoriale o locale (anche se non mancano i problemi), o magari per un foglio d’opinione. Se rientrate in questo gruppo e la creazione di comunità non è al primo posto dei vostri obiettivi editoriali, state sbagliando qualcosa. Per le testate generaliste, che raccolgono un pubblico vasto ed eterogeneo, più eterogeneo online rispetto a quello che compra l’edizione cartacea, è molto più difficile.

    Un modo per farlo è creare eventi, campagne, inchieste di ampio respiro, di interesse pubblico, e lì lavorare sul coinvolgimento. Pensare a come dialogare con gli utenti nel momento in cui si inizia a ragionare su una storia. Spesso significa anche slegarsi dall’urgenza dei giornali di seguire sempre e solo il flusso di notizie.

    In una redazione, dove la priorità è sempre la breaking news, questa è la parte più difficile. Per quanto le breaking news creino dei picchi di traffico sia sul sito che sui social, per quanto siano molto condivise dagli utenti, rischiano di scivolare loro addosso. La loro importanza è a volte sopravvalutata dai giornalisti che vivono nella costante frenesia del nuovo lancio di agenzia e della gara a chi esce prima.

    Ma alla fine ai lettori interessa molto di più il giornalismo che incide sulle loro vite. E questo raramente — a meno di casi particolari, come le alluvioni o altri cataclismi — si realizza con la breaking news, bensì con gli approfondimenti, le inchieste e anche le informazioni di servizio. Se poi sono partecipate, come quellecoordinate dalla mia amica Rosy Battaglia, ancora meglio.

    Probabilmente, a un livello ancora superiore, le testate che puntino a fare seriamente comunità — riduttivamente tradotta in membership, e quindi in diverse forme di abbonamento o sottoscrizione, da chi sta cercando di far quadrare i bilanci dei media — dovrebbero forse tornare a chiedersi i fondamentali: che visione del mondo hanno? Chi rappresentano? A chi parlano? Ma qui ci troviamo di fronte una No Man’s Land, una terra di nessuno in cui è meglio non addentrarsi.

    • Un fantasma si aggira in redazione: la verifica delle fonti

    C’è un ampio dibattito su quanto i social media polarizzino le conversazioni, spingano i temi e le notizie controverse, diffondano disinformazione. C’è addirittura chi pensa — oh my! — che i social abbiano promosso l’improbabile candidatura di Donald Trump. E c’è chi ha lanciato un vero e proprio grido di disperazione, come l’esperta di antibufale del Washington Post, sconfitta dai muri di gomma in cui si rifugiano complottari, cospirazionisti o anche solo fervidi sostenitori di qualche specifica corrente politica.

    La questione è complessa. Ma in ogni caso le testate giornalistiche non possono chiamarsi fuori da questo dibattito. Anche quando non pubblicano delle bufale in senso stretto, ricadono spesso in quello che Craig Silverman definisce “giornalismo del puntare il dito”, nel senso di un giornalismo che ripubblica contenuti virali tali e quali, che ti indica delle notizie senza prendersi la briga di verificarle, che si preoccupa di propagare più che di informare. Se qualcuno fa una dichiarazione eclatante (ad esempio: “ho sventato un attentato”) ci si limita a riferire la dichiarazione senza approfondire se la stessa sia vera o falsa.

    La responsabilità viene fatta ricadere sul dichiarante, e il risultato è che il lettore riceve sì la notizia ma difficilmente capirà se sia qualcosa di rilevante o una boiata pazzesca.

    Le redazioni oggi dovrebbero avere internamente degli esperti di verifica delle fonti digitali, che spazino dai social media alla crittografia. E che lavorino costantemente al debunking di bufale e disinformazione prodotta da altri, nonché allo scopo di evitare di prendere cantonate internamente.

    Quelle competenze sarebbero utili anche nella gestione delle breaking news. Che ormai si abbattono sui giornali e i loro social media con la furia e la rapidità di un ciclone tropicale. E che richiedono di capire al volo se una notizia, una foto, un video, un tweet, un post, siano veri/autentici/affidabili/corretti o no.

    Su questo c’è un micro (che in realtà rientra in un macro) sapere che va coltivato, come mostra l’esperienza di Reported.ly. O di First Draft News.

    Per una redazione significa provare a stabilire anche delle procedure di lavoro che sono tanto più difficili quanto più prevedono, in poco tempo, un coordinamento fra persone su voci e frammenti di notizie per lo più non confermate, nonché spesso contrastanti.

    A volte, anche con tutti gli strumenti a propria disposizione, non si riesce a capire se una informazione è corretta in pochi minuti. E quindi bisognerebbe anche decidere cosa abbia senso comunicare e cosa no. E magari — orrore! — fare un tweet in meno, invece che in più; così come evitare di dare rilevanza a dichiarazioni prive di fondamento, anche se il fatto di pubblicarle ti porterà dei clic immediati. Ricordando che un articolo online si modifica — spesso, e in modo erroneo, senza lasciare traccia della correzione — ma un tweet no, a meno di non cancellarlo. [Certo si può twittare di nuovo la correzione, ma qui rimando alla Legge dei Tweet Sbagliati: “Un’informazione inaccurata iniziale sarà ritwittata di più di ogni successiva correzione”.]

    Corollario di questo tema della verifica è infine la gestione dell’errore online. Perché gli errori si fanno: su carta, sul sito, sui social. Il punto è se e come vengono corretti.

    Come già detto prima, i social fanno da detonatore delle contraddizioni e degli sbagli: un errore, passato inosservato sulla carta, poi scivolato sul sito e da qui sui social, è una palla di neve che rotola lungo un dirupo. Anche in questo caso, il mantra degli specialisti è il seguente: riconosci apertamente l’errore e correggilo in modo visibile.
    Diciamolo: è più facile a dirsi che a farsi. E la ragione sta anche nel fatto che a volte l’errore è frutto di una catena di creazione e propagazione della notizia in cui il debunker, se e quando arriva, è solo l’ultimo anello, col risultato di trovarsi nella posizione di “comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani”.

    Se però la testata è attivamente impegnata nella correzione di disinformazioni e nella verifica delle notizie, anche i propri errori possono essere affrontati più a viso aperto e a cuor leggero.

    • Pensarsi come luogo in cui connettere i punti

    I giornali in questi ultimi anni sono approdati un po’ su tutte le piattaforme, le app e i social con l’obiettivo di seguire gli utenti. E con alterni risultati.

    Ma se è vero che oggi le persone accedono all’informazione attraverso i canali più disparati — dalle mail a WhatsApp, da Snapchat a Periscope, con i video in diretta che secondo alcune previsioni potrebbe esplodere nel 2016 (anche grazie alla discesa in campo di Facebook) — rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito.

    Parlo della capacità di tracciare dei collegamenti e di creare dei percorsi per i lettori.

    Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco.

    Ma le testate che hanno fatto lo sforzo di organizzare, contestualizzare e presentare in modo chiaro questi argomenti possono entrare in gioco. Ci sono alcuni tentativi interessanti al riguardo: uno dei più recenti è la “mappa della conoscenza” ideata dal Washington Post. Si tratta di una modalità di visualizzazione e di organizzazione dei contenuti in cui un lettore può approfondire o chiarire singoli aspetti di un tema complesso mentre legge un articolo e senza lasciare la pagina (nel caso specifico proprio su Daesh).

    Esempi che rispondono a esigenze simili, anche se risolti in modo diverso, sono il modo in cui il New York Times ha mappato e visualizzato la rete degli attentatori di Parigi; o il racconto del complesso tema sorveglianza e Nsa fatto dal Guardian.

    L’esigenza di tirare le fila emerge — in piccolo — anche sui social media: dal modo in cui alcune testate si sforzano di riepilogare breaking news, già nel momento in cui stanno accadendo, attraverso dei formati appositi; al lancio di Moments da parte della stessa Twitter.
    In grande, ci sono poi progetti giornalistici nati o orientati proprio su questa esigenza, come Vox. C’è tutto un filone basato sull’idea delle card, di schede informative da correlare agli articoli.

    Come dice Ezra Klein, direttore di Vox: “Siamo bravi a dire ai lettori quello che è accaduto, ma non sempre siamo così bravi nel dare loro quelle cruciali informazioni di contesto che hanno portato agli ultimi sviluppi”.

    Non sempre, purtroppo, questa impostazione ha trovato una formula soddisfacente per il business, come dimostrato dalla chiusura della app di notizie Circa. Ma l’esigenza rimane forte e chiara.

    • Che ci piaccia o meno, non ci sono più autorità

    Sui social media, e sul settore specifico del giornalismo e dei social media, c’è già un’ampia letteratura. Ci sono consulenti di marketing, libri, blog specifici, casi studio e paper. C’è chi può elencare i formati di foto migliori da postare sui social, chi può stilare tutti i fattori che condizionano l’algoritmo di Facebook, chi sa leggere gli Insights, chi ti dice cosa pubblicare alle 19,15 del mercoledì in un giorno di pioggia, e così via: dati che sono ovviamente utili da sapere.

    E tuttavia si tratta di informazioni che cambiano in continuazione; valgono per oggi, domani chissà; vanno bene per una piattaforma e non per un’altra. Inoltre, ciò che funziona per una testata non è detto che vada bene anche per altre. Più in generale, non c’è un approdo fisso di conoscenza a cui arrivare. Semmai, ci sono persone ed esperienze diverse che sperimentano, idee che circolano. E probabilmente ci sono anche delle buone pratiche da condividere.

    Ma siamo molto lontani dal concetto di un sapere strutturato, magari veicolato da una corporazione di vecchi o nuovi scriba. Soprattutto siamo distanti dall’idea che esistano formule vincenti da replicare. Più vicini forse a un approccio hands-on — basato cioè sul “metterci le mani”, sul confronto pratico con qualcosa — simile a quello della cultura ed etica hacker.

    E per il giornalismo non vale — o dovrebbe valere — la stessa cosa?