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  • Le 7 regole d’oro del public speaking

    Le 7 regole d’oro del public speaking


    Inserisci i contenuti che vuoi trasmettere in una o più storie e racconti (storytelling), invece che limitarti a trasmettere mere informazioni.

    Coinvolgi il tuo pubblico con domande, invece di fare monologhi.

    Usa un po’ di humor intelligente e adeguato, per sciogliere la tensione e per avvicinare a te il pubblico.

    Se puoi parla in piedi, invece che seduto dietro un tavolo e il computer.

    Assumi una posizione con le mani incrociate sul davanti, resta dritto e aspetta che tutti facciano silenzio.

    Mantieni il contatto visivo con tutto il pubblico, abbraccialo con il tuo sguardo.

    Apri il tuo speech anticipando i punti della relazione, poi affrontali e infine fai una sintesi dei punti importanti (dirò-dico-ho detto).

    Fai la sintesi di quanto è stato detto prima di passare ad un nuovo argomento.

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

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  • Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.

    «Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione invia ORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».

    Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.

    Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.


    Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.

    « All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»

    Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.

    Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.

  • Libere dal burqa e dall’Isis.

    Libere dal burqa e dall’Isis.

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  • Congresbury, il paese delle buone azioni

    Congresbury, il paese delle buone azioni

    venti chilometri da Bristol nella cittadina di Congresbury è accaduto un “fatto senza precedenti” e, strano ma vero, non si tratta di un fattaccio di cronaca nera ma di una buona, buonissima notizia.

    Un anno fa il pastore anglicano di Congresbury per festeggiare degnamente gli 800 anni di fondazione della chiesa cittadina lancia una sfida ai suoi 3000 abitanti: compiere in un anno 800 buone azioni, una per ogni anno di vita della città. L’idea è semplice: chi avrà compiuto una buona azione potrà scriverla su un bigliettino, rigorosamente anonimo, e quindi depositarla in una cassetta. Fuori dalla chiesa un tabellone dove il pastore terrà il conto delle buone azioni compiute.

    Gli abitanti di Congresbury accolgono con entusiasmo la sfida e, giorno dopo giorno, compiono tante piccole e grandi azioni di solidarietà, generosità, impegno civico, cura del bene comune: aiutare un anziano a fare la spesa, lavare la macchina del vicino, riverniciare le panchine pubbliche,regalare un cappotto ad una persona senza dimora, portare con un furgone cibo e vestiti ai rifugiati che a Calais attendono di raggiungere il Regno Unito.

    Oggi i cittadini di Congresbury hanno raggiunto ben 859 buone azioni che hanno cambiato la loro vita e reso davvero memorabile la storia della loro città. Dieci, cento, mille Congresbury!

  • Wikipedia!

    Wikipedia!

    Wikipedia.com è live dal 15 gennaio 2001 — oggi è .org. Sono passati 15 anni da quando Jimmy Wales e Larry Sanger lanciarono ufficialmente il sito, nato dopo una serie di esperienze a cavallo tra il mondo delle directory, delle dotcom e di Nupedia, la prima versione del progetto di Wales di creare un’enciclopedia online, che ancora manteneva nel nome il legame con il progetto GNU e il mondo Linus. Galeotto fu poi l’incontro con Ward Cunningham, il creatore di “wiki”, ossia la tecnologia che permette a chiunque di creare o modificare liberamente qualsiasi pagina di un sito web.

    Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia

    “Immaginate un mondo in cui chiunque può avere libero accesso a tutto il patrimonio della conoscenza umana. Questo è il nostro scopo.” (Jimmy Wales)

    Curiosità: la prima voce creata sul nuovo sito riguardava la lettera “U”, origini, storia e significato della ventunesima lettera dell’alfabeto inglese.

    Jimmy Wales, a tutti gli effetti riconosciuto come il fondatore di Wikipedia, la definisce come “un’enciclopedia multilingue, redatta da autori volontari e, cosa ancor più importante, sottoposta a libera licenza.”

    La linea editoriale, se così si può chiamare, è quella del Neutral Point Of View,NPOV, che “cerca di presentare idee e fatti in modo da mettere d’accordo sostenitori e detrattori”. Può sembrare ovvio o banale per un’enciclopedia, ma risponde a una forte domanda di contenuti imparziali e attendibili, merce rara oggi come agli albori della rete.

    Ma quello che veramente definisce Wikipedia, quello che ci fa capire la sua straordinaria rivoluzione, è il lavoro dei wikipediani.

    “Wikipedia non è affatto un’innovazione tecnologica: è un’innovazione sociale.” (Andrew Lih)

    La cultura hacker e il modello open-editing

    Perché fosse possibile un’enciclopedia libera, aperta, neutrale e tempestiva — tempestiva nel catalogare ogni avvenimento non appena se ne abbia notizia, punto di forza cruciale per il successo dell’operazione — è stato fondamentale il radicamento di Wikipedia nella cultura hacker.

    Il principio per cui la condivisione del know-how fra pari produce innovazione per tutti si traduce in quello per cui la condivisione libera del sapere è alla base dell’aumento della conoscenza umana.

    Nell’etica hacker il presupposto della condivisione è l’apertura, intesa come un vero e proprio metodo per ispezionare il lavoro altrui al fine di apprezzarlo, di acquisire nuove conoscenze, di mettersi alla prova, di collaborare, di migliorarlo nell’interesse di tutti.

    È esattamente questo il metodo alla base del funzionamento di Wikipedia: il sito permette a chiunque di intervenire e modificare ogni voce, quindi ogni azione può essere facilmente annullata dagli altri membri della comunità.
    In questo sistema, risulta più facile correggere gli errori piuttosto che “punire” chi sbaglia, si crea quindi un’asimmetria che premia i membri della comunità più produttivi e collaborativi, contro troll e vandali di varia natura, senza limitare la libertà di nessuno.

    “Sono più necessari i partecipanti delle regole.” ( Larry Sanger)

    Lo dimostra la regola IAR, Ignore All Rules, introdotta da Larry Sanger: “se le regole ti rendono nervoso e demoralizzato, e non desideroso di partecipare al wiki, allora ignorale e torna al tuo lavoro.”

    Proprio da questa cultura nascono i due famosi mantra di Wikipedia: “Be Bold” e “So Fix it”, ormai stampati sulle t-shirt da nerd di tutto il mondo.

    Be Bold

    “Si cerchi dunque di non essere timidi nel modificare le voci, perché il piacere di contribuire non richiede per forza di raggiungere la perfezione, nonostante questa sia l’obiettivo ultimo dell’enciclopedia. Non ci si preoccupi eccessivamente di combinare eventuali pasticci: tutte le versioni precedenti di una voce vengono salvate, per cui è impossibile danneggiare Wikipedia in maniera irreparabile. Ma ci si ricordi che, allo stesso modo, tutto ciò che si scrive sarà conservato per i posteri.” (Wikipedia)

    Nella cultura di Wikipedia anche solo un abbozzo di voce rappresenta un stimolo e un incitamento che serve a far intervenire altri contributori, per espandere e migliorare la voce stessa.

    “Be Bold”, “sii audace”, non è quindi un incoraggiamento generico, ma il motore individuale capace di generare un effetto a catena positivo per la comunità.

    Joseph Michael Reagle Jr., nella sua tesi di dottorato sui meccanismi di collaborazione all’interno di Wikipedia — In Good Faith: Wikipedia Collaboration and the Pursuit of the Universal Encyclopedia — ha parlato di effetto stigmergico per descrivere questo meccanismo:

    “Il termine stigmergia è stato coniato da Pierre-Paul Grasse per descrivere come le vespe e le termiti costruiscono strutture complesse lavorando in modo collettivo; come osserva Istvan Karsai, il termine descrive la situazione in cui è il risultato di un lavoro precedente, piuttosto che la comunicazione diretta fra i costruttori, a spingere [e a dirigere] le vespe nell’esecuzione di un lavoro successivo.”

    Secondo Andrew Lih, esperto di Wikipedia e della censura di Internet nella Repubblica Popolare Cinese, questo meccanismo di comunicazione implicita che avviene modificando il proprio ambiente è un modello abbastanza utile per descrivere Wikipedia, intesa come una colonia virtuale di formiche. Il sito non avrebbe potuto crescere così rapidamente senza che si fosse provveduto a combinare in modo efficace l’effetto stigmergico, basato sulla registrazione delle modifiche nell’ambiente, con i canali di comunicazione esplicita.

    So Fix It

    Wikipedia nasce agli albori del web 2.0, quando i contenuti della rete iniziano ad essere prodotti direttamente dagli utenti. Questo creava un po’ di sconcerto ai primi, nuovi utenti di Wikipedia, che spesso chiedevano ai membri più anziani di fare delle modifiche senza rendersi conto di poterle fare in prima persona. È nato così il tormentone del “sofixit” (“allora aggiustalo”), in risposta alle prime ingenue domande dei newbie, ma ha finito per rappresentare la prassi per cui all’interno della comunità ci si debba sporcare le mani in prima persona, senza rimanere in attesa di soluzioni elaborate.

    Come si dice, se non sei parte della soluzione sei parte del problema.

    La rivoluzione di Wikipedia

    Come si definisce e s’identifica un esperto? Che cosa merita di finire in un’enciclopedia? Che cosa spinge i wikipediani a lavorare sodo su un progetto gratuito? Che cosa è rimasto del progetto originale e come si è evoluto?

    Per rispondere a queste e a molte altre domande, ma anche solo per leggere un bel libro, La rivoluzione di Wikipedia di Andrew Lih, Codice Edizioni, 2010.

    Buon compleanno Wikipedia!

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  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?

  • Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Perché i social sono la frontiera — e la trincea — dei giornali. E cosa ci dicono del presente e del futuro dell’informazione.

    Sono stata social media editor di un grande giornale e credo di aver imparato alcune cose. Sul giornalismo, più che sui social media, perché questi funzionano come un prisma capace di rifrangere, scomporre e rendere visibili molte delle attuali ambizioni e difficoltà di chi fa informazione.

    E pazienza se nessuno — in un certo senso, nemmeno loro — abbia veramente idea di cosa diavolo facciano i social media editor. Sì, si intuisce che abbiano a che fare con i tweet e i post, ma più di lì non ci si spinge. Non si capisce neanche bene come chiamarli: social media manager? Editor? Engagement editor? Community manager? Per fortuna ci vengono in soccorso i generatori automatici di “social media cosi” (cit: utenti Facebook).

    In realtà le offerte di lavoro delle testate angloamericane pullulano di annunci per queste posizioni e le descrizioni della loro attività — molto utili per capire cosa effettivamente dovrebbero fare queste figure — spesso si sovrappongono.

    Ma questa incertezza identitaria è anche legata al ruolo liminare, di frontiera, dei “social media cosi”.

    Stare sulla frontiera però non è del tutto negativo. La prospettiva è più ampia. Si vedono bene i movimenti delle truppe e i loro schieramenti. Si ha la percezione di stare nel luogo dove una nuova realtà si sta formando e accadendo, dove si può vedere — per citare il filosofo — “nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante”.

    Da un certo punto di vista, è una condizione non lontana da quella del giornalista che si occupa di sicurezza informatica. Lo dico perché mi è capitato di incarnare entrambi i ruoli contemporaneamente (qui alcuni dei miei articoli sul tema). Ed è roba da perderci la testa, all’inizio: un secondo sei il Dottor Jekyll, un secondo dopo il signor Hyde (lascio a voi l’assegnazione dei ruoli). La sera ti prefiguri legioni di hacker che per i più svariati motivi potrebbero voler sfondare i siti o i profili del giornale; la mattina fiuti torme di screenshotter in cerca di una consulenza pronti a rivendersi una tua risposta sgraziata a un utente. Inoltre non capisci perché il capo del marketing non voglia discutere con te di una campagna social sulla chat cifrata di Jabber, mentre rischi l’infarto ogni volta che si debba condividere un account con qualcuno di esterno al ristretto team.

    Alla fine ti rendi conto che security e social sono probabilmente antitetici — e che sprigionano però la stessa aria di caos, sommossa ed energia di un mondo nuovo. Ma, soprattutto, che costruire una comunità è per un giornale impresa molto più ardua e spaventosa di qualsiasi attacco informatico.

    E dunque, andando al sodo su quello che ho imparato (non solo nella mia esperienza di social media editor, ma anche dal confronto con i colleghi e dal mio lavoro in Effecinque.org):

    • I social media sono la trincea del giornalismo

    Lo sono per vari motivi. Ma principalmente perché è lì che ormai è stata delegata (a torto o a ragione, temo a torto) l’interazione col pubblico. Chi oggi voglia commentare un articolo, mandare un complimento, una rimostranza o dello spam al giornale, scrivere a un suo giornalista, segnalare una storia, chiedere informazioni o anche semplicemente fare due chiacchiere con qualcuno si rivolge in primis ai profili della testata sui social network.

    Chi si occupa dei social media si trova così a dover gestire non solo le proprie scelte più dirette ma anche l’intera linea editoriale di una testata, nonché le performance dei suoi singoli redattori. Il tutto dentro un ristrettissimo margine di manovra.

    Se ne esce soprattutto in due modi: da un lato, coinvolgendo di più i singoli giornalisti nell’interazione con gli utenti e invitandoli a seguire la propria storia anche dopo che è stata pubblicata (o che abbiano degli spazi di confronto più diretto, come fa il Washington Post attraverso delle chat); dall’altro, facendo in modo che le criticità emerse dal rapporto coi lettori — se ad esempio un certo articolo o scelta editoriale provocano una motivata insurrezione — siano trasmesse, spiegate e intese dal resto del giornale.

    Il social media team insomma è o dovrebbe essere una cinghia di trasmissione tra il dentro e il fuori, premesso che queste due categorie non hanno probabilmente più senso se non per quei giornalisti che ancora si sentono incastonati nella loro torre d’avorio — trasformatasi nel tempo in un desk di plastica, ma vabbé.

    Ma i social sono una frontiera anche nel senso che lì le contraddizioni si acuiscono. Gli errori tendono a permanere e sono più difficili da gestire. Le immagini e i titoli hanno un impatto più forte. Se il sito è ancora un contenitore che si pensa possa raccogliere un po’ di tutto, sui social ogni scelta di pubblicazione deve apparire in qualche modo motivata agli occhi degli utenti.

    • Creare comunità è il sacro graal del giornalismo digitale

    O, se preferite, la reincarnazione delle televendite di mirabolanti prodotti dimagranti.

    Tutti dicono che bisogna fare comunità, creare comunità, interagire con la fottuta comunità, ma non c’è quasi nessuno che spieghi come farlo concretamente.

    Avere una policy su come rapportarsi con gli utenti e un galateo valido per tutti (come ha fatto La Stampa) su come comportarsi sulle pagine del giornale — che si tratti di social o del suo sito — aiuta, ed è sicuramente un primo punto di partenza.

    Oggi vedere le pagine Facebook dei quotidiani piene di commenti irriferibili non è proprio più accettabile e mantenere mediamente civili i propri luoghi digitali è il minimo sindacale per una testata — minimo che però, precisiamolo, comporta di per sé un notevole dispendio di energie e forza lavoro.

    Aggiungo anche che, nell’ecologia mentale e morale dei social, conta molto quello che si decide di pubblicare. Ovvero — per citare una approfonditaanalisi di Arianna Ciccone sul giornalismo odierno — “dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai”. Questo lo sa intuitivamente qualsiasi social media editor. Se metti su Facebook un pezzo di raccapricciante cronaca nera avrai tante visualizzazioni, tanti clic e tanti commenti. Di che natura questi ultimi? Non ci vuole una scienza per capirlo.

    Occorre invece una riflessione su quale sia l’obiettivo della testata: fare tante visualizzazioni e clic entrando a gamba tesa nella timeline dei propri fan (luogo molto più delicato e intimo del sito di un giornale) e suscitando reazioni emotive che si esprimono soprattutto in commenti di odio e frustrazione, o semmai scegliere di pubblicare qualcosa di più costruttivo benché, all’inizio, meno “performante”?

    Ad ogni modo, fare comunità è ancora un passo successivo. Ed è più semplice farlo per una testata specializzata o settoriale o locale (anche se non mancano i problemi), o magari per un foglio d’opinione. Se rientrate in questo gruppo e la creazione di comunità non è al primo posto dei vostri obiettivi editoriali, state sbagliando qualcosa. Per le testate generaliste, che raccolgono un pubblico vasto ed eterogeneo, più eterogeneo online rispetto a quello che compra l’edizione cartacea, è molto più difficile.

    Un modo per farlo è creare eventi, campagne, inchieste di ampio respiro, di interesse pubblico, e lì lavorare sul coinvolgimento. Pensare a come dialogare con gli utenti nel momento in cui si inizia a ragionare su una storia. Spesso significa anche slegarsi dall’urgenza dei giornali di seguire sempre e solo il flusso di notizie.

    In una redazione, dove la priorità è sempre la breaking news, questa è la parte più difficile. Per quanto le breaking news creino dei picchi di traffico sia sul sito che sui social, per quanto siano molto condivise dagli utenti, rischiano di scivolare loro addosso. La loro importanza è a volte sopravvalutata dai giornalisti che vivono nella costante frenesia del nuovo lancio di agenzia e della gara a chi esce prima.

    Ma alla fine ai lettori interessa molto di più il giornalismo che incide sulle loro vite. E questo raramente — a meno di casi particolari, come le alluvioni o altri cataclismi — si realizza con la breaking news, bensì con gli approfondimenti, le inchieste e anche le informazioni di servizio. Se poi sono partecipate, come quellecoordinate dalla mia amica Rosy Battaglia, ancora meglio.

    Probabilmente, a un livello ancora superiore, le testate che puntino a fare seriamente comunità — riduttivamente tradotta in membership, e quindi in diverse forme di abbonamento o sottoscrizione, da chi sta cercando di far quadrare i bilanci dei media — dovrebbero forse tornare a chiedersi i fondamentali: che visione del mondo hanno? Chi rappresentano? A chi parlano? Ma qui ci troviamo di fronte una No Man’s Land, una terra di nessuno in cui è meglio non addentrarsi.

    • Un fantasma si aggira in redazione: la verifica delle fonti

    C’è un ampio dibattito su quanto i social media polarizzino le conversazioni, spingano i temi e le notizie controverse, diffondano disinformazione. C’è addirittura chi pensa — oh my! — che i social abbiano promosso l’improbabile candidatura di Donald Trump. E c’è chi ha lanciato un vero e proprio grido di disperazione, come l’esperta di antibufale del Washington Post, sconfitta dai muri di gomma in cui si rifugiano complottari, cospirazionisti o anche solo fervidi sostenitori di qualche specifica corrente politica.

    La questione è complessa. Ma in ogni caso le testate giornalistiche non possono chiamarsi fuori da questo dibattito. Anche quando non pubblicano delle bufale in senso stretto, ricadono spesso in quello che Craig Silverman definisce “giornalismo del puntare il dito”, nel senso di un giornalismo che ripubblica contenuti virali tali e quali, che ti indica delle notizie senza prendersi la briga di verificarle, che si preoccupa di propagare più che di informare. Se qualcuno fa una dichiarazione eclatante (ad esempio: “ho sventato un attentato”) ci si limita a riferire la dichiarazione senza approfondire se la stessa sia vera o falsa.

    La responsabilità viene fatta ricadere sul dichiarante, e il risultato è che il lettore riceve sì la notizia ma difficilmente capirà se sia qualcosa di rilevante o una boiata pazzesca.

    Le redazioni oggi dovrebbero avere internamente degli esperti di verifica delle fonti digitali, che spazino dai social media alla crittografia. E che lavorino costantemente al debunking di bufale e disinformazione prodotta da altri, nonché allo scopo di evitare di prendere cantonate internamente.

    Quelle competenze sarebbero utili anche nella gestione delle breaking news. Che ormai si abbattono sui giornali e i loro social media con la furia e la rapidità di un ciclone tropicale. E che richiedono di capire al volo se una notizia, una foto, un video, un tweet, un post, siano veri/autentici/affidabili/corretti o no.

    Su questo c’è un micro (che in realtà rientra in un macro) sapere che va coltivato, come mostra l’esperienza di Reported.ly. O di First Draft News.

    Per una redazione significa provare a stabilire anche delle procedure di lavoro che sono tanto più difficili quanto più prevedono, in poco tempo, un coordinamento fra persone su voci e frammenti di notizie per lo più non confermate, nonché spesso contrastanti.

    A volte, anche con tutti gli strumenti a propria disposizione, non si riesce a capire se una informazione è corretta in pochi minuti. E quindi bisognerebbe anche decidere cosa abbia senso comunicare e cosa no. E magari — orrore! — fare un tweet in meno, invece che in più; così come evitare di dare rilevanza a dichiarazioni prive di fondamento, anche se il fatto di pubblicarle ti porterà dei clic immediati. Ricordando che un articolo online si modifica — spesso, e in modo erroneo, senza lasciare traccia della correzione — ma un tweet no, a meno di non cancellarlo. [Certo si può twittare di nuovo la correzione, ma qui rimando alla Legge dei Tweet Sbagliati: “Un’informazione inaccurata iniziale sarà ritwittata di più di ogni successiva correzione”.]

    Corollario di questo tema della verifica è infine la gestione dell’errore online. Perché gli errori si fanno: su carta, sul sito, sui social. Il punto è se e come vengono corretti.

    Come già detto prima, i social fanno da detonatore delle contraddizioni e degli sbagli: un errore, passato inosservato sulla carta, poi scivolato sul sito e da qui sui social, è una palla di neve che rotola lungo un dirupo. Anche in questo caso, il mantra degli specialisti è il seguente: riconosci apertamente l’errore e correggilo in modo visibile.
    Diciamolo: è più facile a dirsi che a farsi. E la ragione sta anche nel fatto che a volte l’errore è frutto di una catena di creazione e propagazione della notizia in cui il debunker, se e quando arriva, è solo l’ultimo anello, col risultato di trovarsi nella posizione di “comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani”.

    Se però la testata è attivamente impegnata nella correzione di disinformazioni e nella verifica delle notizie, anche i propri errori possono essere affrontati più a viso aperto e a cuor leggero.

    • Pensarsi come luogo in cui connettere i punti

    I giornali in questi ultimi anni sono approdati un po’ su tutte le piattaforme, le app e i social con l’obiettivo di seguire gli utenti. E con alterni risultati.

    Ma se è vero che oggi le persone accedono all’informazione attraverso i canali più disparati — dalle mail a WhatsApp, da Snapchat a Periscope, con i video in diretta che secondo alcune previsioni potrebbe esplodere nel 2016 (anche grazie alla discesa in campo di Facebook) — rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito.

    Parlo della capacità di tracciare dei collegamenti e di creare dei percorsi per i lettori.

    Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco.

    Ma le testate che hanno fatto lo sforzo di organizzare, contestualizzare e presentare in modo chiaro questi argomenti possono entrare in gioco. Ci sono alcuni tentativi interessanti al riguardo: uno dei più recenti è la “mappa della conoscenza” ideata dal Washington Post. Si tratta di una modalità di visualizzazione e di organizzazione dei contenuti in cui un lettore può approfondire o chiarire singoli aspetti di un tema complesso mentre legge un articolo e senza lasciare la pagina (nel caso specifico proprio su Daesh).

    Esempi che rispondono a esigenze simili, anche se risolti in modo diverso, sono il modo in cui il New York Times ha mappato e visualizzato la rete degli attentatori di Parigi; o il racconto del complesso tema sorveglianza e Nsa fatto dal Guardian.

    L’esigenza di tirare le fila emerge — in piccolo — anche sui social media: dal modo in cui alcune testate si sforzano di riepilogare breaking news, già nel momento in cui stanno accadendo, attraverso dei formati appositi; al lancio di Moments da parte della stessa Twitter.
    In grande, ci sono poi progetti giornalistici nati o orientati proprio su questa esigenza, come Vox. C’è tutto un filone basato sull’idea delle card, di schede informative da correlare agli articoli.

    Come dice Ezra Klein, direttore di Vox: “Siamo bravi a dire ai lettori quello che è accaduto, ma non sempre siamo così bravi nel dare loro quelle cruciali informazioni di contesto che hanno portato agli ultimi sviluppi”.

    Non sempre, purtroppo, questa impostazione ha trovato una formula soddisfacente per il business, come dimostrato dalla chiusura della app di notizie Circa. Ma l’esigenza rimane forte e chiara.

    • Che ci piaccia o meno, non ci sono più autorità

    Sui social media, e sul settore specifico del giornalismo e dei social media, c’è già un’ampia letteratura. Ci sono consulenti di marketing, libri, blog specifici, casi studio e paper. C’è chi può elencare i formati di foto migliori da postare sui social, chi può stilare tutti i fattori che condizionano l’algoritmo di Facebook, chi sa leggere gli Insights, chi ti dice cosa pubblicare alle 19,15 del mercoledì in un giorno di pioggia, e così via: dati che sono ovviamente utili da sapere.

    E tuttavia si tratta di informazioni che cambiano in continuazione; valgono per oggi, domani chissà; vanno bene per una piattaforma e non per un’altra. Inoltre, ciò che funziona per una testata non è detto che vada bene anche per altre. Più in generale, non c’è un approdo fisso di conoscenza a cui arrivare. Semmai, ci sono persone ed esperienze diverse che sperimentano, idee che circolano. E probabilmente ci sono anche delle buone pratiche da condividere.

    Ma siamo molto lontani dal concetto di un sapere strutturato, magari veicolato da una corporazione di vecchi o nuovi scriba. Soprattutto siamo distanti dall’idea che esistano formule vincenti da replicare. Più vicini forse a un approccio hands-on — basato cioè sul “metterci le mani”, sul confronto pratico con qualcosa — simile a quello della cultura ed etica hacker.

    E per il giornalismo non vale — o dovrebbe valere — la stessa cosa?

  • L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

    L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

     

    Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.

    A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?

    In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti

    Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.

    Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.

    Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione

    Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.

    Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.

    La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità

    In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.

    Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.

    Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.