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  • Il comunismo

    Il comunismo

    Il comunismo é il tempo dedicato alla dimensione comune e sociale.

    Pratichi concretamente il comunismo ogni volta che fai sport o ti dedichi alla tua crescita personale e alla crescita degli altri, quando fai volontariato, quando ti dedichi ai tuoi cari quando viaggi per svago e fai il turista, quando cioè puoi dedicarti, oltre che al lavoro necessario per produrre il reddito che ti consente di vivere, anche al tempo extra, al tempo condiviso, solidale, comunitario.

    Questa è l’unica definizione rigorosa, fondata, filologica, del comunismo secondo Karl Marx.

    Nel corso di due secoli, specie in Europa, c’è stato molto comunismo realizzato.

    Questa affermazione é evidentemente fondata solo che si consideri che questo stile di vita, quando Marx era in vita era appannaggio solo delle persone molto ricche. Tutti gli altri, cioè i trisavoli della quasi totalità delle persone che stanno leggendo, per mangiare doveva lavorare dall’età di sette -otto anni per sei sette giorni a settimana, per 10–12 ore al giorno, finché non moriva di malattie e di stenti. Marx voleva liberare le persone dal lavoro salariato, da quel lavoro salariato confidando nella capacità del sistema produttivo industriale implementato dalla borghesia grazie al capitalismo (si, proprio dalla classe borghese e dal capitalismo di cui Marx era un estimatore), il comunismo é ottenuto mediante la proprietà comune dei mezzi di produzione. La proprietà comune non è la proprietà di Stato.

    • ‘Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico‘.

    K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

  • Vassalli o liberi dagli americani?

    Vassalli o liberi dagli americani?

    Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1941. Dopo avergli spedito milioni di emigranti italiani e senza che gli USA ci avessero torto un capello. E pure a tradimento gliel’abbiamo dichiarata, poche ore dopo che avevano subito la coltellata alla schiena dell’attacco a Pearl Harbor.

    E abbiamo perso la guerra.

    Sono arrivati, ci hanno cacciato dall’Africa, ci hanno invaso e alla fine ci hanno sconfitto. E non contenti, ci siamo divisi in due e una metà dell’Italia ha continuato a combattere contro gli americani.

    Chiunque altro ci avrebbe massacrati, triturati nel macinino da caffè e utilizzato la polvere come concime, trasformando l’Italia nel 51° stato dell’unione.

    Invece, non solo non ci hanno massacrati, né hanno massacrato i nostri emigrati. Ci hanno dato una mano a liberarci dai nazisti, ci hanno finanziato la ricostruzione e oggi siamo del tutto liberi di fare domande come questa e di scrivere una marea di risposte e commenti antiamericani che una marea di imbecilli non tarderà a postare.

    Direi che possiamo considerarci alleati. E fortunati.

    Dall’altra parte, sono stati invasi, conquistati, massacrati e occupati. E se qualcuno si azzardava a dire una parola contro i sovietici, finiva per concimare i licheni in Siberia. Non a spargere concime. Proprio lui diventava concime. E oggi con la Russia è lo stesso: se ti va bene finisci in galera, se ti va male ti entrano in casa con i carri armati, dopo una spruzzata di razzi e bombe come aperitivo.

    Direi che quelli erano (e qualcuno lo è ancora) vassalli.

  • Eco – chi odia l’italia

    Eco – chi odia l’italia

    l’Italia è odiata in tutto il mondo?

    New York. Erano gli anni ottanta.

    Umberto Eco salì su un taxi e l’autista notò che portava con sé dei giornali italiani e, quindi, gli chiese per averne certezza: <<Mi scusi, signore! Ma lei è italiano?>>.

    Eco rispose: <<Si, lo sono!>>.

    Mentre continuava a guidare il tassista gli disse: << Senta le volevo chiedere una cosa. A voi italiani, nel mondo, chi vi odia?>>.

    Eco: <<Come, scusi?>>

    Il tassista esclamò: <<Ma sì dai! Tutti i popoli vengono odiati da qualche altro popolo. A noi americani ci odiano tantissime persone come i russi o i palestinesi, e potrei stare qui ad elencarne altri per un quarto d’ora. Quindi, a voi italiani chi vi odia?>>.

    Eco sorpreso per questa domanda si limitò a dire: <<Ma guardi, nessuno ci odia!>>.

    Il tassista ci rimase quasi male di questa risposta e dopo un po’ gli chiese: << Scusi, ancora signore. Ma se a voi italiani non vi odia nessuno, invece, voi chi odiate? Perché tutti i popoli odiano un altro popolo. Gli americani odiano: i messicani, i cubani o i nativi, per esempio. E molti altri. Voi, invece, chi odiate?>>.

    Eco ci pensò e disse: <<Nessuno! Non odiamo nessuno sul piano internazionale.>>

    Il tassista ci rimase nuovamente male di questa risposta.

    Umberto scese dall’auto e mentre camminava per le strade della città pensò che in realtà c’era una risposta ad entrambe le domande. Gli sarebbe piaciuto rincorrere quell’uomo, bussare nel finestrino, per dirgli: <<Mi scusi. Vorrei rettificare. Le ho detto che noi italiani non odiamo e non siamo odiati da nessuno, ma avrei dovuto aggiungere che per compensare siamo formidabili ad odiarci a vicenda. Internamente. Su questo non ci batte nessuno.>>.

    Noi italiani odiamo tantissimo noi stessi. Il nostro stesso paese. Forse lo amiamo, da un canto, ma dall’altro lo odiamo più di qualunque altro.

  • Cause guerra Ucraina

    Cause guerra Ucraina

    Lo storico greco Polibio diceva che le guerre hanno tre cause:

    1. La profasis: la scusa raccontata al popolo per giustificare il conflitto e il sacrificio.
    2. L’aitia: la causa effettiva della guerra, riscontrabile spesso in un interesse economico.
    3. L’arché: l’evento o la scusa che porta, in concreto, all’inizio della guerra

    Tali aspetti si possono riscontrare in tutti i conflitti, basti pensare alla prima guerra mondiale. In essa, l’arché (la scusa), è stato l’omicidio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e della moglie ad opera di uno studente serbo. L’aitia, cioè il vero motivo, era il controllo dei Balcani.

    Nella guerra di secessione americana, il motivo apparente (profasis) era la liberazione degli schiavi dal sud del paese, ma la vera ragione era che il nord non riusciva a competere contro i prezzi troppo bassi del sud dovuti alla manodopera gratuita. Inoltre, al nord servivano operai per le industrie e gli schiavi potevano essere una soluzione. L’arché è stata la dichiarazione di indipendenza di alcuni stati meridionali.

    Nell’Unità d’Italia la profasis è stata l’unificazione nazionale, ma l’aitia è stata la paura dell’Inghilterra nei confronti dell’espansione francese verso sud e l’economia sempre più crescente dei Borboni.

    Ora, ritornando all’Ucraina.

    La profasis è la scusa russa di “denazificare” l’Ucraina. Una paura ancora viva in Russia. Una parte dell’Ucraina orientale aveva chiesto l’indipendenza i quanto si sente vicina all’identità russa. Vi furono delle repressioni assai sanguinose con dei crimini contro l’umanità compiuti da Kiev e riconosciuti nel 2016 dall’ONU. Alcuni battaglioni ucraini erano famosi per essere spalleggiati da estremisti di destra. Il presidente Zelensky non ha mai preso le distanze da questi eventi e ciò ha incrementato la profasis.

    L’aitia, il vero motivo, è riscontrabile sul fronte economico. La Russia ha investito molto nella parte orientale dell’Ucraina. Essa è anche la zona più ricca di risorse, come il grano e giacimenti minerali. Possiede i più grandi giacimenti di litio: metallo sempre più richiesto per la realizzazione di batterie. Vi sono anche tante centrali nucleari e parecchia manodopera. Inoltre, vi è il passaggio dei gasdotti, per cui gli ucraini volevano rivendicare il diritti di passaggio.

  • Il dramma di Meloni

    Il dramma di Meloni

    Per chi crede ancora nelle ragioni della buona politica, il Riformista fa un regalo prezioso: le riflessioni di uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: il senatore Rino Formica.

    In molti hanno parlato e scritto di quelle del 25 settembre come di elezioni “storiche”. Lei che la storia politica italiana l’ha vissuta per decenni da protagonista, come la vede?
    In questo Paese diventa storico il suono della sveglia. Quel voto è una sveglia. Il Paese era nell’area della tranquillità, della serenità. Nella politica italiana vi sono due periodi fondamentali: uno fino al ’92 e poi quello dal ’92-’94 e seguenti. Sino al ’92 questa tranquillità di fondo veniva data da un forte rapporto fiduciario tra il cittadino e la democrazia organizzata. Era quasi un rapporto di carattere religioso. È come la fede nella religione. Anche la religione ha un problema di rapporto tra fede e ragione. Nella fase di sviluppo naturale della democrazia in Italia, nei primi 40-50 anni di vita repubblicana, essa era in parte legata alla ragione delle classi dirigenti e in parte alla fede di massa. Il legame tra fede di massa e ragione delle classi dirigenti portava ad una sintesi tra fede e ragione. Questo si è rotto all’inizio degli anni ’90.

    Perché senatore Formica?
    Perché è venuto meno il sistema di rete della democrazia organizzata. Questa mancanza di rete della democrazia organizzata è stata interpretata dalle classi dirigenti, che si sono immediatamente adeguate al nuovo corso dimostrando così tutta la natura profonda dell’opportunismo e del trasformismo di cui erano intrise ma che era coperto da una condizione che era propria della democrazia organizzata, e così abbiamo avuto un progressivo distacco tra masse popolari e non solo la democrazia organizzata nell’interno del sistema ma un distacco con le istituzioni. Questo distacco dalle istituzioni non modificava le condizioni di diseguaglianza di carattere economico, sociale, civile e territoriale del Paese. Quelle restavano tutte in piedi e questo in un mondo che stava cambiando con la globalizzazione. E la globalizzazione portava a un nuovo e diverso livello le conoscenze di massa in sede globale. L’elemento della coscienza per via di conoscenze da parte delle masse nel mondo, non aveva però un elemento coagulante e unificante su scala globale. Perché su scala globale restava unificante la forza impetuosa del capitalismo che sganciato dai compromessi nazionali diventava sempre di più una forza di un imperial capitalismo. Questo imperial capitalismo era sbilanciato. Perché da una parte era l’imperial capitalismo tutelato da minoranze detentrici del potere dell’ineguaglianza nella società e dall’altra parte vi erano le grandi masse che prendevano coscienza che non era sufficiente la presenza ma il protagonismo per cambiare le condizioni andando al cuore del capitalismo imperiale. Tutto questo poneva un problema…

    Quale?
    Il problema che quello che era stato detto e gabellato e cioè che la società evolvendo, il progresso di carattere economico e la diffusione del benessere nel mondo sia pure in parti ineguali, spegneva la lotta di classe. La lotta di classe c’è. Sicuramente è più complicato poterla interpretare e poterla guidare perché le classi non sono più regolabili in un conflitto sociale su base nazionale ma su base universale dove le lotte di classe sono differenziate, ineguali e diverse tra di loro. E qui nasce il problema.

    Di che problema si tratta?
    Se si osserva bene, si coglie il fatto che le uniche forze che hanno un elemento di unificazione a livello sovranazionale sono le grandi religioni. Le grandi religioni hanno percepito questo elemento di inquietudine generale. Il mondo è inquieto. Cosa vuol significare il Papa quando dice che bisogna cambiare il modello di sviluppo? Questo era il linguaggio che negli anni ’70 era degli extraparlamentari. Cambiare il modello di sviluppo. Cioè si pone il problema della inadeguatezza dell’imperial capitalismo. Ma le religioni non sono in condizioni di condurre una lotta politica perché per condurre una lotta politica le religioni devono perdere il loro carattere universale e diventare nazionali. Come lo è diventata improvvisamente la Chiesa ortodossa russa che ha dovuto perdere il carattere universale e ha dovuto affermare, per diventare nazionale, che c’è una sanatoria dei peccati se vai a combattere in Ucraina. Resta il fatto, enorme, che le religioni universali pongono il problema non solo dell’inadeguatezza ma della ingiustizia intrinseca, strutturale, di quei processi politici, economici e sociali che non soltanto non hanno attenuato le condizioni dell’ineguaglianza ma che hanno esasperato le vecchie ineguaglianze e creato delle nuove. Qui sta la crisi della politica e delle sue forme organizzate. Il non essere all’altezza di questa sfida del cambiamento globale e globalizzato. D’altro canto la storia del Novecento sta lì a ricordare che il capitalismo quando si è trovato in difficoltà è diventato repressivo e guerrafondaio. E questo può accadere anche con l’imperial capitalismo che, messo alle strette o comunque in difficoltà, trova la soluzione della guerra. Noi ci troviamo di fronte al rischio che la riflessione di carattere politico generale della nuova globalizzazione delle conoscenze, che potrebbe spingere l’umanità a creare delle forze internazionaliste di organizzazione delle condizioni umane differenziate che ci sono nella società, i deboli con i deboli contro i forti che sono una minoranza non solo nelle realtà nazionali ma sempre più minoranze nell’assetto globale, si possa bloccare questo processo di riflessione attraverso una espansione del conflitto oggi in Europa e domani chissà dove.

    Quelle che lei ha fin qui sviluppato sono riflessioni di portata epocale. Ma venendo alla politica italiana, lei non ritiene che una sinistra o comunque una forza progressista, il Pd, per provare a ritrovare ragione di sé proprio su queste grandi tematiche dovrebbe cimentarsi e non avvitarsi nella spirale mortifera di una resa dei conti sul nuovo segretario?
    Ma porta su di sé il peso enorme di trent’anni in cui ha sposato la linea dello svuotamento del sistema politico. La sinistra è stata artefice dello svuotamento politico del sistema. E qui sta il suicidio politico. Perché lo svuotamento politico del sistema colpiva innanzitutto la sinistra.

    Perché, senatore Formica?
    Vede, i conservatori hanno una politica oggettiva che cammina da sé. Conservare l’esistente. A sinistra la politica è intrecciata indissolubilmente al cambiamento. E quando questa politica viene meno all’interno del sistema, viene meno l’esigenza del cambiamento e con essa la sinistra stessa. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, l’interrogativo attorno al quale provare a sviluppare una riflessione collettiva dalla quale dipende l’esistenza stessa futura della sinistra, è perché la sinistra è andata progressivamente perdendo consenso, entusiasmo, passione, capacità di essere forza creativa nella società, capace di modificare, di innovare, di riformare. Perché?

    Una domanda “esistenziale”. Qual è la sua di risposta?
    Perché si è lasciata guidare dalla destra. Il minimalismo sociale è una scelta ideologica. Il minimalismo sociale non può non produrre che il populismo massimalista. L’indifferenza istituzionale non può non provocare che l’abbandono della via democratica alla costruzione del proprio sistema di vita e all’ingresso di forze dominanti che finiscono per diventare prima reazionarie e poi repressive. Ecco perché hanno ragione coloro che dicono che la responsabilità non è del gruppo dirigente in carica nel momento dell’ultima clamorosa sconfitta della sinistra. La responsabilità è di tutta quanta la classe dirigente, il ceto politico dominante della sinistra da trent’anni a questa parte, accumulando una serie impressionante di errori. Alcuni dei quali sono partiti non con la consapevolezza dell’errore ma come una furbizia per mimetizzare la propria determinazione di rovesciare il tavolo senza che nessuno se ne accorgesse, spacciando una presunta furbizia per machiavellica capacità tattica. Ma alla fine la legge bronzea della quotidianità del vivere ha fatto sì che il trasformismo delle classi dirigenti sia diventato un trasformismo per adeguamento e per rassegnazione delle masse popolari. Ma di questo non possono godere neanche i vincitori di queste elezioni, cioè Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Vuol sapere qual è il vero dramma della Meloni?

    Sono tutto orecchie, senatore Formica.
    Lei avrebbe avuto tanto, ed era attrezzata per poterlo fare, un gran desiderio di poter essere l’Evita Peron della socialità di massa populista in Italia. Ma sarà condannata dalla forza delle cose ad essere una burbera Thatcher senza neanche avere l’autonomia della guida. Perché la guida spetta ad altri. Su sede sovranazionale. Ne vuole la prova?

    Certo che sì.
    Questa maggioranza si riunirà il 13 ottobre. Con la maggioranza che ha, con il tempo che ha avuto per ristabilire l’ordine al proprio interno, per avere la certezza di una maggioranza di governo, in tre giorni Meloni avrebbe potuto definire gli organismi dirigenti interni, eleggere i suoi organi di rappresentanza in Parlamento, avere l’incarico dal Presidente della Repubblica e presentare in ventiquattr’ore il nuovo Governo. Sarebbe stato un gesto corrispondente al superamento di una legge elettorale balorda. Almeno si poteva dire di lei che in tre-quattro giorni aveva saputo eleggere gli organi per l’efficienza del Parlamento e gli organi di Governo del Paese. Invece no. Il “lord protettore” le ha detto che il 20 di ottobre alla riunione dei capi di Governo dell’Unione Europea va lui. E che la campanella passerà di mano alla fine di ottobre. E la Meloni non ha risposto con l’orgoglio di una maggioranza indicata dal voto popolare, sia pure con una legge balorda, e insediata in Parlamento, col dire: no il 20 ci sarà probabilmente il nuovo Governo e a quella riunione ci sarò io che di quel Governo sarò la premier.

    Quando fa riferimento al “lord protettore” della premier in pectore, il suo nome e cognome è Mario Draghi.
    Mario Draghi adesso ma chi per lui domani. Un “lord protettore” che guiderà la destra italiana a stare nel solco del conservatorismo parassitario europeo ci sarà comunque. È la funzione che conta non il nome di chi sarà chiamato ad esercitarla. Noi siamo sotto protettorato. Oggi il “lord protettore” più credibile sul piano internazionale e più disponibile per il momento è Draghi. E probabilmente lo sarà. Sicuramente per il primo semestre di questo Governo.

  • Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue ritornerà.
    Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
    Padri che debbono essere derisi.
    Luoghi da profanare bestemmie da proferire
    incendi da fissare delitti da benedire.
    Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
    Al partito che bisogna prendere e fare.
    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.

    Franco Fortini

  • La dettatura europea

    La dettatura europea

    Sovente viene evocata a sproposito la nozione di dittatura: dittatura sanitaria, dittatura di Bruxelles…

    La dittatura evocata esprime il timore pallido – non la convinzione granitica – che il potere politico si concentri in un solo organo o in una sola persona.

    Al timore agito enfaticamente e demagogicamente su ogni genere di media si accompagna tutto un lamento inscenato e insensato sul bisogno di politica e sui guasti dell’antipolitica. La politica viene richiesta a gran voce come nobile rimedio per ogni situazione mentre è essa, la politica, la causa di tanti problemi. Il motivo è semplice: la politica è organicamente incapace di far fronte alle questioni preminenti della contemporaneità i quali necessitano di uno sguardo largo e cooperativo, pianetico, non dello sguardo miope e proprietario tipico della politica. [1]

    La politica non è una leva di progresso, ma solo una componente macchinale e consunta dell’organizzazione sociale.

    La nozione di dittatura poco serve a visualizzare l’immagine dei poteri politici presenti, non solo in Europa.

    Più utile potrebbe risultare la nozione di dettatura.

    Per quanto abbiano delle affinità linguistiche e musicali, la dettatura è ben diversa dalla dittatura ma non è di minore importanza.

    Differentemente dalla dittatura, la dettatura indica una situazione nella quale le decisioni da prendere sono storicamente segnate. La dettatura è indifferente agli organi o alle persone, si enuncia con le cose in divenire, con le cose da realizzare indipendentemente dalle persone che la interpretano.

    La dittatura nasce da uno stato incerto e dalla speranza che la forza ( di una persona o di un partito) sia in grado di risolvere i problemi.

    La dettatura nasce invece dallo stato di certezza e dalla sicurezza che la strada intrapresa sia in grado, se non proprio di risolvere i problemi, di affrontarli al meglio secondo i canoni costituiti.

    La dittatura concentra il potere e lo personalizza.

    La dettatura al contrario rende possibile la massima diffusione del potere e ne istituzionalizza la parte macchinica, politica.

    La dittatura annulla la democrazia distruggendo tutti i suoi riti. 

    La dettatura è una più alta forma di democrazia perché mantiene intatti i suoi riti e rende possibile il massimo potere diffuso del demos sottraendogli ed evitandogli la responsabilità e la noia della decisione della macchina politica.

    La dittatura arriva dove la democrazia perisce.

    La dettatura dove la democrazia mantiene i suoi riti anestetizzandone gli spasmi.

    La dettatura non si fonda sul primato degli uomini, ma su quello delle cose.

    La dettatura è amnio e alveo entro cui si decidono e si producono le cose quando il cammino è ben segnato.

    La dettatura non è un limite della macchina politica o il canto del cigno della democrazia, ne è invece il  rituale compimento.

    L’indifferenza alla politica sotto il regime della dettatura non marca la generale insensibilità, anzi può avvenire in presenza di una sensibilità sociale diffusa capace di esprimersi in tutti gli altri campi della vita vivente.

    Nell’epoca della dettatura, la politica si muove entro binari definiti. Finché questi binari assicurano l’esercizio del potere diffuso, il potere rituale del popolo – i rappresentanti, le elezioni, le istituzioni – è salvo.

    La dettatura è dunque la forma che il potere politico assume quando la direzione è certa. In Italia e in Europa, in questo momento, l’orizzonte è chiaro.

    Ciò che occorre fare, ciò che si può fare, è già interiorizzato dalla macchina istituzionale che è avviata nella sua direzione.

    L’Italia è sotto dettatura. Comunque vadano le cose, per chiunque si voglia votare, il regime della dettatura comporta che le cose proseguano il loro corso nell’alveo già fissato da almeno 6 anni.

    L’amnio della dettatura è segnato:

    1. dal nuovo corso dell’Unione europea dopo l’uscita del Regno unito;
    2. dal ruolo di leadership che il Paese inevitabilmente deve avere in Europa;
    3. dal ruolo autonomo e pianetico che l’Unione europea inevitabilmente assume;
    4. dalla crisi climatica;
    5. dall’asimmetria demografica.

    Tali priorità rendono fantasmatiche le frontiere e necessiterebbero di una visione pianetica, la quale impone una totale messa in mora dei paradigmi della politica.

    In assenza di una visione pianetica, i governi sono costretti a comportarsi seguendo, magari in modo acefalo e tortuoso, l’onda.  Quando deviano dalla direzione di marcia sono costretti – dopo aver sbattuto contro la realtà delle cose – non da qualcuno ma da quella medesima direzione a riseguitare il cammino. In questo caso, mancando alla politica – per intrinseca deficienza – la capacità d’interpretare la direzione e di seguirla, tocca alle istituzioni dettare le regole, istituzioni generalmente guidate da persone indipendenti dalla politica o che si rendono tali in forza del loro ruolo istituzionale.

    La dettatura diviene il luogo della decisione effettiva al di là di ciò che deciderebbe la politica e in forza della sua impotenza.

    In regime di dettatura, alla politica tocca solo l’indispensabile ruolo di confermare tramite tutti i rituali del voto le decisioni già dettate dalle forza delle cose.

    L’Italia vive da tempo sotto la dettatura di Mattarella e di Draghi, ma anche in loro assenza la dettatura rimarrebbe in vigore. Solo in caso di rivolgimento regressivo e funesto della situazione la dettatura verrebbe meno.

    In caso di shock – uscita dall’UE e dall’Euro, indifferenza ai problemi climatici, distruzione dei diritti civili, guerra ai migranti -, quando si rischia che il cammino prestabilito venga disarcionato, allora si comincerebbe a sentire il lezzo della dittatura.

    Dettatura, democrazia e libertà

    L’Italia e l’Europa sono sotto dittatura? Ha ancora senso che ci siano le elezioni? Qualcuno pensa ancora di votare veramente? Se sì, per chi? Per che cosa? Gli eletti hanno voce in capitolo?

    E il parlamento, è in grado di decidere qualcosa?

    Tutte legittime domande poste ogni qualvolta in Europa si replica l’indispensabile benché esausto rito delle elezioni.

    Esausto perché privo di pathos, privo di passione, incapace di elevare anche il meno nobile impeto dell’animo umano, capace solo di intercettare qualche profanissimo interesse della mediocrità generale. Rito stancamente riprodotto su scene calcate da attori stinti, improvvisate passerelle di transeuntissimi protagonisti dell’ultima chiacchiera di cortile, pessimi presunti salvatori di patrie ormai estinte.

    Tutto questo orrifico circo della politica prolifera tra annoiati commentari ma anche tra estese voci che ostentano indignazione mentre piluccano nella consunzione generale.

    La storia quando è esausta non abbandona facilmente i riti. Spesso li conserva anche quando risultano botulinosi.

    Non è sragione la sua, anzi è raziocinio puro. I riti della politica infatti tanto sono esausti tanto risultano essere ancora indispensabili.

    La domanda alla quale occorre rispondere è proprio questa: perché ciò che esausto anziché perire in fretta prolunga all’infinito la sua agonia?

    La sfinitudine della politica si esprima con la massima impotenza nel rito elettorale.

    Nel rito elettorale non c’è la festa, non c’è l’attesa. L’entusiasmo non è di casa illo tempore.

    Per ridare un po’ di carica fibrillatoria alla noia elettorale ci sarebbe bisogno di qualche pallida o effettiva paura (il fascismo alle porte, l’aborto cancellato, l’invasione dei migranti).

    In effetti, in Francia, in Italia, in Svezia o altrove si è vista qualche minimale paura all’opera, ma poi inevitabilmente la paura sfuma in fretta. Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nelle ultime elezioni, dopo qualche spasmo digitale, si rimette in carreggiata. La marcia della democrazia riprende a macinare i suoi felpati passi lungo il cammino della dettatura.

    Tutto sembra inutile, eppure tutto rimane così indispensabile. Perché?

    Perché, per quanto decerebrato, è nel rito elettorale che si coglie il carattere indispensabile della democrazia.

    Senza libere elezioni non c’è democrazia. Senza democrazia niente libere elezioni.

    La democrazia è nota per essere il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri.

    Nonostante tutti i suoi limiti, non c’è regime politico migliore della democrazia. La democrazia è la più alta forma di politica. Lo è perché tutti i suoi ciclopici limiti intrinseci anziché assassinarla la rafforzano.

    La democrazia è il regime politico che rende possibile sentirsi universalmente liberi. Sentirsi liberi equivale a essere effettivamente liberi? Ovviamente no.

    È il sentirsi liberi al di là dell’esserlo effettivamente.

    Nella democrazia tutto può essere deciso finché le masse pensano di deciderlo tramite il voto.

    Il voto, questo esausto rito, è lì a dimostrare che la libertà è data proprio nel momento in cui essa viene meno.

    La democrazia è il regime della facoltà. La facoltà, in questo regime, conta più dell’effettività. La facoltà di votare, per esempio, conta più del voto. In effetti, una parte considerevole della popolazione non esercita il suo diritto.

    Nella facoltà si esprime l’intima connessione tra la simulazione e la realtà, tra la rappresentazione e l’espressione.

    La rappresentazione elettorale simula l’espressione sociale senza mai poterla realmente compiere.

    Tanto più la simulazione si tiene in vita tanto più l’espressione sociale è attiva.

    La simulazione – per quanto marginale –  è parte costitutiva della realtà. 

    La libertà ha a che fare con la facoltà. Essa si esprime nel suo esercizio, ma si esalta quando l’esercizio viene sospeso da chi lo possiede. La libertà non si esprime quando si ha l’obbligo di esercitarla ma quando è  facoltà che può non essere esercitata. Non c’è musica senza silenzio.

    La facoltà di votare fa sentire liberi, ma il non esercizio del voto – volontario, autonomo da ogni prescrizione – non è contrario della libertà, né la limita, tutt’altro. Ne è semmai intima espressione, privilegio afferente a chi presume che l’inesercizio del voto non metta in alcun modo a rischio il resto delle facoltà.

    L’indifferenza verso la politica nella contemporaneità, anziché marcare, come i più ritengono, l’insensibilità generale della popolazione, esprime questo privilegio. Simile privilegio si manifesta – soprattutto tra la popolazione giovane – riguardo alle attività e al tempo di lavoro.  Anche la scelta tra lavorare e non lavorare, tra attività autogestite o eterodirette, con tempi di lavoro limitati o espansi a tutta la giornata biologica va a marcare il tempo presente.

    La libertà esiste se c’è possibilità di scelta. La prima opzione – votare o non votare – non inibisce la libertà, anzi la esalta.

    Chi non vota perché non desidera esercitare la facoltà non è detto che si senta meno libero di chi si comporta in modo avverso, anzi.

    L’indifferenza verso il voto e verso la politica – anche se è espressione di variegatissime situazioni – indica comunque una diversa concezione della libertà.

    Tale concezione può esprimersi con due metafore, dei semafori e dei pompieri.

    Ciò che interessa alle persone comuni – ciò che le fa sentire libere, ciò che permette loro di essere libere – è che i semafori funzionino e che i pompieri intervengano celermente in caso d’incendio.

    Una volta tranquilla sui semafori e sui pompieri, chiunque può concentrarsi sui suoi interessi, sulla sua vita, indifferente al chiacchiericcio politico.

    Ma questo sentirsi liberi ha davvero a che fare con la libertà?

    Chi si sente libero non è detto  che non lo sia.

    Si sente libero chi crede di sviluppare i propri interessi, le proprie attitudini senza subire pregiudiziali limitazioni esterne.

    Chi si sente libero certamente lo è, ma ben al di sotto di quanto presume, ben meno delle reali possibilità. È libero fino ai limiti imposti dalla situazione. Se oltrepassa i limiti, se li vìola, se li sfida, la sua libertà se ne va a ramengo.

    La politica è un limite alla libertà o è una sua leva?

    La democrazia è il regime peggiore, esclusi gli altri, perché il potere del demos – che ufficialmente viene esercitato per suo conto dai rappresentanti o si esercita in modo diretto – rimane in buona parte al demos. Quel demos che delega volentieri la parte politica del potere come escamotage per trattenere tutto il resto.

    La democrazia permette che l’esercizio del potere diffuso marginalizzi nella società e nell’esperienza della vita singolare il ruolo della politica.

    Quel demos indistinto che ha interessi, passioni, gusti attitudini, attributi, comportamenti estremamente variegati. Più questa variegazione è in grado di esprimersi, meno è importante il potere sul demos. La politica si sgonfia in misura proporzionale alla crescita di questa variegazione.

    Tutto questo insieme esprime il vero status del potere contemporaneo. Intenderlo ancora come attributo unico o preponderante della politica è anticaglia priva di qualsiasi valore.

    Il potere diffuso è il miglior antidoto contro il potere politico.

    Alla politica rimane di governare a fatica soltanto la sua incapacità di governare. 

    La dittatura è l’espressione più nefasta della politica.

    La dettatura è un bagno di luce sul suo tramonto.

    Il tramonto della politica annuncia la necessità della pianetica.

    La dettatura è la fase necessaria e transitoria tra la politica e la pianetica.


    [1] Per approfondire la differenza tra la nozione di Politica e quella di Pianetica, vedasi Lettera al Presidente Putin, maggio 2022, rilasciata dalla news letter di Pianetica, e Pino Tripodi – Giuseppe Genna, Pianetica, febbraio 2022, libro autoprodotto disponibile al link https://milieuedizioni.it/product/pianetica/

  • NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    Dal Diciottesimo secolo l’uomo si chiede fino a quanto potremo crescere come numero di abitanti sulla Terra. Se nel Settecento gli esseri umani sul Pianeta erano 700 milioni, i progressi tecnologici e una migliore qualità della vita hanno sostenuto una crescita demografica esponenziale a partire dal secolo successivo, per poi arrivare all’esplosione nel Novecento e ai 7 miliardi e 900 milioni di abitanti attuali. Tra le principali teorie legate al tema della sovrappopolazione, sin dall’Ottocento hanno avuto risalto quelle malthusiane, coniate dall’economista e filosofo Robert Malthus, secondo cui avremmo rischiato l’estinzione per una carenza di risorse dovuta alla crescita esponenziale della popolazione.

    Malthus ragionava per progressioni aritmetiche, con un approccio poi molto contestato. Ralph Waldo Emerson rispose alla sua teoria scrivendo che “Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica”. Nel Novecento il dibattito si amplificò, e molti scienziati iniziarono a pensare che non era soltanto l’equilibrio matematico tra risorse e numero di abitanti il fattore determinante per un eventuale collasso della specie umana. Bisognava aggiungere altre componenti, e la principale tra queste era il comportamento dei singoli individui all’interno della società.

    L’etologo John Calhoun, nella seconda metà del Novecento, mise in atto degli esperimenti per dimostrare come non fossero le risorse limitate il pericolo maggiore per una società, ma quelle dinamiche sociali che riunì sotto il termine fogna del comportamento. Arrivò a questa conclusione dopo decenni di esperimenti sui roditori. Nel 1947 iniziò uno studio su una colonia di topi norvegesi inseriti in un recinto, accorgendosi che la popolazione non raggiungeva il numero previsto. Incuriosito da questo freno demografico, passò gli anni successivi ad ampliare i suoi studi per capire i meccanismi del blocco delle nascite. Nel 1962 condusse un altro studio comportamentale, stavolta usando dei ratti grigi, e notò lo stesso fenomeno dell’esperimento del 1947. Capì che per arrivare a comprendere scientificamente ogni passaggio dello studio avrebbe dovuto ricreare una vera e propria società dei topi, l’utopia perfetta. Nacque così l’Universo 25.

    John Calhoun, 1971

    Nel 1968, nel Maryland, Calhoun costruì l’habitat ideale per quattro coppie di topi. Risorse illimitate per l’alimentazione, temperatura ideale intorno ai venti gradi, nessuna interazione con i pericoli esterni, pulizia frequente dell’ambiente, uno spazio sufficiente per ospitare fino a 3.800 topi. Vennero scelti inoltre gli esemplari più sani forniti dal National Institute of Mental Health, inseriti in un recinto con cunicoli, zone separate per nidificare e distributori d’acqua continuamente in azione. Come previsto, i topi iniziarono a riprodursi, con un raddoppio della popolazione ogni 55 giorni. Sembrava il loro Eden, arrivarono a 600 esemplari in meno di un anno e tutto continuò a filare liscio. 

    Il primo problema riguardò la creazione di ruoli sociali all’interno della colonia di roditori. Una volta raggiunto un ampio numero di esemplari, non avvenne un ricambio generazionale, ma si venne a creare a tutti gli effetti una struttura gerarchica dove ogni topo difendeva il suo status, a costo di attaccare i propri stessi figli. Le femmine furono costrette a rintanarsi nelle zone separate per proteggere la prole, ma questo non bastò di fronte all’aggressività dei “maschi alfa”. Si arrivò a episodi di cannibalismo, e la mortalità dei cuccioli raggiunse il 96%. L’esasperata interazione sociale portò alla violenza per mantenere un ruolo di rilievo. Le femmine si nascondevano nei giacigli più alti per non essere raggiunte dai maschi, frenando drasticamente la riproduzione. Si arrivò dunque al pansessualismo, oltre che a una battaglia quotidiana in cui la prevaricazione era l’elemento fondante per non essere emarginati dalla società. Chi lo faceva, isolandosi dal gruppo e rinunciando a combattere, rientrava tra gli esemplari che Calhoun rinominò “i belli”, poiché il loro pelo non era lacerato dai combattimenti e l’alienazione li aveva preservati dalle ferite. I “belli” erano però ai margini della società, passando le giornate esclusivamente a nutrirsi in solitudine.

    Il numero massimo di esemplari non raggiunse i 3.800 ipotizzati da Calhoun, ma si fermò a 2.200. Intorno al seicentesimo giorno dall’inizio dell’esperimento il numero iniziò a calare drasticamente. Le gravidanze continuarono a ridursi di numero, con i piccoli che morivano alla nascita, e nonostante tutti i confort e le risorse illimitate a disposizione, la società dell’Universo 25 finì per collassare. Si arrivò all’estinzione per l’incapacità di mantenere un equilibrio sociale. Fu quella che Calhoun definì “la prima morte”, quella sociale, che precedeva la seconda, quella fisica. L’ultimo topo morì nel 1973, cinque anni dopo l’inizio dell’esperimento.

    Nello stesso anno Calhoun scrisse le tesi del suo esperimento in una pubblicazione dal titolo Death squared: the explosive growth and demise of a mouse population. L’etologo parla dell’Universo 25, ma in realtà lancia un monito alla specie umana. In un passaggio scrive: “Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza è la distruzione dell’organizzazione sociale”. Parla inoltre della fogna del comportamento spiegando come le risorse illimitate siano state in realtà un’aggravante per le lotte interne, potendosi concentrare soltanto sull’interazione e non sulla sopravvivenza. Negli anni successivi, gli studi di Calhoun sono stati ripresi non per spiegare il comportamento degli animali, ma per fare un parallelismo con la nostra società.

    A mezzo secolo di distanza, l’Universo 25 richiama per certi aspetti il mondo in cui stiamo vivendo. La lotta per un posto nella società si è inasprita con la diminuzione dei ruoli da occupare, come dimostrano i tassi di disoccupazione giovanile in molti Paesi del mondo. Anche l’illusione delle risorse illimitate che per anni ha caratterizzato la filosofia delle nazioni industrializzate non garantisce nessun sollievo ai suoi abitanti, ma alimenta in molti l’istinto di prevaricazione sui propri simili. E, anche in questo caso, si arriva all’isolamento.

    I “belli” di Calhoun che rinunciano alla società possono essere equiparati ai waldgänger del filosofo tedesco Ernst Jünger, che si ritirano nella foresta, o agli hikikomori. Si isolano, abbandonano le interazioni sociali per difesa e per necessità. E non sono spinti da angustie economiche o da carenze di risorse. Le teorie malthusiane stonano con alcuni dati dei giorni nostri. Le nazioni con più risorse e più avanzate tecnologicamente sono anche quelle con il più alto tasso di suicidi. Il continente con il Pil pro capite più basso, ovvero l’Africa, è quello con il tasso di suicidi più basso, mentre l’Europa è al primo posto, trainata dai quei Paesi scandinavi che invece nei World Happiness Report dell’Onu stazionano sempre nelle prime posizioni. 

    Midsommarfest, Svezia

    Oggi viviamo all’interno di un altro Universo 25, quello della pandemia. L’isolamento è forzato, ma ha messo in luce lo stesso istinto a ergersi al di sopra degli altri, con gli ultimi che combattono i penultimi aizzati da chi sta in cima alla gerarchia sociale. Da virus-contro-uomo si è passati a uomo-contro-uomo, e questo non è avvenuto nel momento massimo di difficoltà del primo lockdown, ma quando sono arrivati i vaccini, la letalità è calata con varianti meno aggressive e si è tornati quindi a una competizione sociale con tinte da guerra civile tra discriminazioni, vittimismo e prevaricazione. Per Calhoun abbiamo nel nostro Dna il gene della prima morte, quella sociale. Ne siamo attratti, la cerchiamo inconsciamente. Spesso la raggiungiamo, quasi sempre senza accorgercene.

  • Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”. Apertura sui laghetti collinari, “ma il nodo è l’approccio insostenibile nell’uso dell’acqua”

    Siccità, luci e ombre del Piano invasi. Associazioni: “No a nuove dighe”. Apertura sui laghetti collinari, “ma il nodo è l’approccio insostenibile nell’uso dell’acqua”

    Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura: “Delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo a invasi e laghetti”. Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale: “L’obiettivo deve essere la ricarica controllata della falda”. Il nodo delle perdite della rete idrica, dei consumi domestici e quello dell’agricoltura.

    “Crisi climatica e siccità non guardano in faccia a nessuno, neanche alla crisi del governo”. Nonostante piogge e previsioni di piogge, il problema resta. Di queste ore, ad esempio, l’allarme sulle acque sotterranee in Emilia Romagna, mai così in sofferenza. E gli incendi non fanno che peggiorare una situazione già sull’orlo del collasso. E così nove associazioni propongono sette interventi chiave, tra cui l’adozione per ogni bacino di protocolli di gestione delle siccità e strategie di riduzione dei consumi idrici e di trasformazione del sistema agroalimentare. Agli inizi di luglio, invece, un Piano invasi e laghetti è stato lanciato da Coldiretti e Anbi (Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue), che aveva chiesto una cabina di regia e un commissario per gestire l’emergenza siccità. Certo, la crisi di governo non ha aiutato. Un piano che divide. Gli invasi? “Nuovi invasi non sono la risposta. Nessuna opposizione ‘ideologica’, ma sono una soluzione che ha molte controindicazioni”. Ne sono convinti Cipra Italia, Club Alpino Italiano, Federazione Nazionale Pro Natura, Free Rivers Italia, Legambiente, Lipu, Mountain Wilderness, Wwf Italia e Cirf (Centro italiano per la riqualificazione fluviale), che aveva già mostrato delle perplessità su soluzioni basate sulla costruzione di nuovi invasi. Una posizione contraria “a nuove dighe lungo i corsi d’acqua naturali”, più possibilista “rispetto a un limitato numero di piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, per quanto non siano esenti da criticità. È prudente, a riguardo, anche Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr: “Credo che la questione vada affrontata con la massima attenzione ai delicati equilibri ecologici che potrebbero essere compromessi da un ricorso eccessivo ad invasi e laghetti” spiega a ilfattoquotidiano.it.

    Il piano invasi e laghetti – Il piano di Anbi e Coldiretti prevede la realizzazione di 10mila invasi medio-piccoli e multifunzionali entro il 2030, in zone collinari e di pianura. Sono 223 i progetti definitivi ed esecutivi, cioè immediatamente cantierabili e l’investimento previsto per questa prima tranche del Piano Laghetti ammonta a oltre 3 miliardi di euro. La realizzazione di questi oltre duecento laghetti comporterebbe un aumento “di quasi 435mila ettari nelle superfici irrigabili in tutta Italia”. Secondo le stime, i nuovi bacini incrementerebbero “di oltre il 60% l’attuale capacità complessiva dei 114 serbatoi esistenti e pari a poco più di un miliardo di metri cubi, contribuendo ad aumentare, in maniera significativa, la percentuale dell’11% di quantità di pioggia attualmente trattenuta al suolo”. Il maggior numero di progetti già pronti interessa l’Emilia Romagna (40), seguita da Toscana e Veneto. Al Sud, il maggior numero di progetti riguarda la Calabria. Ma c’è un altro obiettivo strategico, ossia quello dell’autosufficienza energetica. Per questo scopo, calcolano Anbi e Coldiretti, dovranno essere realizzati 337 impianti fotovoltaici galleggianti (potranno occupare fino al 30% della superficie lacustre) e 76 impianti idroelettrici, capaci di produrre complessivamente oltre 7 milioni di megawattora all’anno. D’altronde, ricorda il presidente Coldiretti, Ettore Prandini, “l’Italia è al terz’ultimo posto in Europa per investimenti nel settore idrico. Un piano di laghetti diffusi e con funzioni anche ambientali è la soluzione all’impossibilità di realizzare grandi invasi”. Un limite si cui, a ilfattoquotidiano.it aveva già parlato anche Maurizio Righettidocente di Costruzioni idroelettriche presso l’Università di Bolzano: “Quando si parla di siccità, bisogna però fare i conti con le peculiarità dei territori e, caso per caso, valutare fabbisogni e ipotesi invasi”.

    La posizione del Centro per la riqualificazione fluviale – Anche i piccoli invasi collinari volti alla raccolta di deflussi superficiali, però, per il Cirf “non devono infatti diventare ulteriore causa diffusa di consumo di suolo e di alterazione delle portate dei corpi idrici, come sta accadendo con gli invasi per l’innevamento artificiale, altro esempio di approccio insostenibile nell’uso dell’acqua nel contesto del cambiamento climatico”. Il Cirf ricorda proprio le stime di Anbi (“In Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali”) e ritiene, dunque, prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare “in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP)” bocciato dalla Commissione Europea “proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale”.

    Puntare sulle falde – Per il Cirf “il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una. I serbatoi artificiali – aggiunge – sono sostanzialmente interventi monofunzionali, la multifunzionalità tanto sbandierata è solo una chimera, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente”. La ricarica controllata della falda, invece, determina un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: “Falde più alte sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat, si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda, oltre al fatto che falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra e contrastano l’intrusione del cuneo salino”. E, di fatto, tra le azioni indicate dalle nove associazioni nell’appello al Governo, ce ne sono un paio che hanno come obiettivo proprio quello di ripristinare le falde. Si chiede, infatti, di destinare almeno 2 miliardi di euro l’anno per un periodo di 10 anni “a interventi di riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua e del reticolo idraulico minuto e di ricarica della falda previsti dai Piani di gestione e Piani di tutela delle acque”. Ma anche di “recepire le misure previste dalle strategie per la “Biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal dell’Ue e riprese dalla recente proposta normativa “il Pacchetto Natura” presentata lo scorso 22 giugno dalla Commissione Europea.

    Le altre soluzioni, perdite idriche e politica dei consumi – Tra le altre azioni, l’istituzione di protocolli di raccolta dati e modelli previsionali che permettano di rendere disponibile ai cittadini stime affidabili delle disponibilità di risorse idriche, dei consumi reali e della domanda potenziale e l’adozione per ogni bacino dei protocolli di gestione delle siccità. L’altra richiesta è quella di individuare “gli eventuali ostacoli e i meccanismi di reperimento delle risorse finanziarie che permettano di accelerare il percorso” per portare le perdite delle reti civili al di sotto del 25% (per le perdite percentuali). Nel 2018 le perdite nelle reti idriche potabili sono state pari al 42%, in aumento di 10 punti rispetto al decennio precedente. Il Pnrr prevede di investire entro il 2026 appena 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi euro l’anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il resto d’Europa. Le associazioni chiedono anche di definire, di concerto con l’Anci, una strategia che promuova la riduzione dei consumi idrici domestici e il ricorso ad acque non potabili (acque di pioggia accumulate o acque grigie depurate) per gli usi compatibili (risciacquo dei WC, lavatrice, lavaggi esterni) in modo da portare il valore medio dei consumi civili di acqua potabile a non oltre i 150 litri abitante giorno.

    Il nodo agricoltura – Discorso a parte merita l’agricoltura. Come spiega Vito Felice Uricchio, dirigente tecnologo dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr “anche in agricoltura è necessario ridurre sensibilmente le perdite delle reti irrigue e favorire il riuso di acque reflue depurate. Ma non solo. La necessità di favorire la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e di contenere i consumi irrigui “entro la soglia dei 2500 metri cubi di ettaro all’anno” suggerisce il Cirf, va di pari passo con il bisogno di adottare misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei suoli agrari e della loro capacità di trattenere l’acqua. “Non possiamo continuare a deteriorare habitat, ma è necessario rendere l’agricoltura più sostenibile. È possibile – spiega Uricchio – agire sulle pratiche agronomiche, sull’incremento della sostanza organica ed in generale sull’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli”. Secondo l’Ispra, infatti, il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione “che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua” spiega il Cirf, ricordando che “secondo dati del 2008, in Italia l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%”. Questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva.