Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”.
A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto.
Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana.LEGGI ANCHE
Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo.
Michele Serra, nell’Amaca di stamattina, inquadra con rara precisione non tanto uno dei guasti del ddl Zan, ma uno dei guasti provocati della sensibilità contemporanea in fatto di diritti. Serra riparte dagli interventi in cui Gianni Cuperlo e Luigi Manconi parlano dell’eccesso definitorio della legge respinta al Senato, e Serra commenta l’eccesso definitorio proponendo una definizione sintetica con cui si può essere in disaccordo soltanto se si è alle prese con seri problemi di convivenza civile: “Nessun essere umano deve essere offeso o discriminato a causa delle proprie scelte sessuali”. Serra corre un serio pericolo a ridurre la questione alle scelte sessuali, ed è un rischio che vorrei correre con lui, perché poi c’è l’aspetto del genere, e si potrebbe aggiungere “e di genere”, ma preferisco correre questo pericolo piuttosto di correre quello di deviare la sua mira da cecchino.
Qualche giorno fa un amico mi ha scritto una lunga mail per chiedermi conto, lui favorevole, delle mie perplessità sul ddl Zan (l’occasione mi sembra troppo ghiotta e non me la lascio scappare: siccome mi si rimprovera di riempirmi tanto la bocca con la filastrocca dei diritti, ma di non spendere una sillaba per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, ecco, l’ho scritto su Huffpost, sulla Stampa, l’ho detto in almeno uno dei miei interventi settimanali a Radio Capital, l’ho detto in piazza a Bologna a Repubblica delle Idee e lo ripeto volentieri, ditemi dove si deve firmare per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, e io firmo ratto come la folgore). Torno al mio amico. Siccome gli avevo risposto, fra l’altro, che quando la legge penale e più vastamente i codici non parlano di esseri umani ma di ebrei, gay, transessuali, donne e così via, si stabilisce una gerarchia di valori che frantuma il concetto di essere umano (ecco perché sono così felice che Serra abbia recuperato l’espressione, essere umano). Il mio amico ha ulteriormente obiettato che quando sente parlare di esseri umani si allarma più di un po’ perché Adolf Hitler progettò la Shoah rifiutando agli ebrei l’appartenenza al genere umano e sterminandoli proprio per la loro particolare qualifica di ebrei. Ecco, anche il mio amico aveva centrato il punto ma, secondo me, aveva commesso l’errore di ribaltarlo.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle nazioni unite, davanti al disastro di due guerre mondiali, di due bombe atomiche, della sistematica violazione della Convenzione di Ginevra, soprattutto davanti all’orrido mattatoio della Shoah, promosse la riscrittura della Dichiarazione universale dei diritti umani, da cui i Paesi aderenti avrebbero fatto discendere le loro legislazioni. Dico riscrittura perché si partì dal Bill of Rights inglese (1689), dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) redatta in Francia all’alba della Rivoluzione. Il testo dell’Onu (1948) si riprometteva di precisare, di sottolineare, di meglio dettagliare i diritti umani rasi al suolo nel precedente trentennio, una sciagura di cui Auschwitz era la cattedrale. Andate a prendervi quel testo: la parola “ebrei” non c’è. L’articolo uno dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”; l’articolo due aggiunge che “a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.
Perché, tre anni dopo la Shoah, non c’è un passaggio sugli ebrei? Mi pare evidente, per il totale rifiuto del modo di ragionare di Hitler: mettere un accento sugli ebrei avrebbe significato sottrarli di nuovo alla loro umanità per racchiuderli dentro una qualifica, o dentro un ghetto: ebrei. Quei due articoli sono di una perfezione inemendabile: se faccio del male a un essere umano commetto un crimine, se faccio del male a un essere umano perché è di un altro colore, di un’altra religione, di altra condizione, di altro sesso, commetto un crimine più grave e come tale sarà trattato. Essere umano: soltanto questo è il grande insieme, il resto è riduzione della nostra umanità a qualcosa di secondario.
Il problema dell’Afghanistan è che preferisce la legge di Dio a quella degli uomini
18 Agosto 2021 alle 11:22
Il 10 luglio qui su Huffpost ci chiedevamo con plateale scetticismo se la democrazia fosse un bene esportabile come scarpe Nike o pollo del Kentucky. Lo spunto arrivava da Kabul, dove il ritiro delle forze militari dei Volenterosi induceva a pronosticare il ritorno dei talebani nella capitale entro fine anno. È invece bastato poco più di un mese, e una decina di giorni di marcia senza sparare un colpo. Non lo si sottolinea per darci un tono: eravamo già in ritardo anche noi. Ma vale la pena sottolinearlo per restituire il giusto apprezzamento a una politica capace di cogliere la portata del disimpegno in Afghanistan fuori tempo massimo, guardando al Var le immagini disperanti dell’aeroporto e commentandole in stile rubicondo, perché prima, secondo recente e ubertosa tradizione, era troppo impegnata a spremere in quotidiane frivolezze le sue migliori energie. Questo abbiamo, perché è quanto sappiamo produrre: leadership che non sapevamo guardare oltre il domani, poi solo all’oggi e adesso dedite allo ieri. Bell’affare.
Scrivevamo, allora, che la democrazia non è un bene esportabile, riferendoci all’Afghanistan e in parte al malsicuro Iraq, perché la democrazia non è soltanto un insieme di regole ma soprattutto una disposizione mentale e culturale (Robert Conquest) nata in Europa due millenni e mezzo fa nell’Atene di Pericle, passata dalla Magna Carta, da Oliver Cromwell e poi dalla Gloriosa rivoluzione in Inghilterra, dalla Guerra d’Indipendenza americana (caso interessante di importazione della democrazia con uso di armi), dalla Rivoluzione francese, dalle svariate dichiarazioni dei diritti dell’uomo, insomma un lunghissimo, dibattutissimo, sanguinoso percorso in fondo al quale le democrazie occidentali oggi non sono una soluzione finale ma un esperimento in cammino, talvolta in evoluzione altre in involuzione, e messo a faticosa prova dagli accidenti della vita, come ora il virus.
Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova.Non sono nè un giornalista, nè un cronista, sono un cittadino ITALIANO che scrive come la vede. Che esprime semplicemente il suo punto di vista, che non siete obbligati a condividere. Libero io e liberi tutti, il pensiero non è un canarino.
Caro Michele, debbo riportare verbatim le parole che hai appena pubblicato sulla tua posta del Venerdì: “Venendo a Draghi: io mi sentivo un elettore del governo giallo-rosso, con tutti i limiti del caso, e non mi sento un elettore di questo governo, che è frutto di una lecita alchimia istituzionale (ha i voti in Parlamento), non certo di un risultato elettorale. Ma non posso non vedere e non sentire che il prestigio di Draghi poggia su solide basi. Quando parla, di solito poco, è preciso e semplice, il contrario del politicante. È un uomo di centro, laico anche se credente. È un uomo di mercato, eccome, ma anche un uomo di Welfare. Un democratico legalitario. Un forte e credibile europeista. Una specie di Prodi conservatore, ammesso che i conservatori se ne accorgano. E dunque penso che sarebbe il leader ideale di un centro-destra finalmente civilizzato.”
Non ho saltato neanche una virgola. E resto di sasso …
Perché mi sento improvvisamente diverso, estraneo, tagliato fuori da una storia che credevo comune, che mi pareva comune, e che invece ora, alle soglie dei miei (e anche tuoi, tra un po’…) settant’anni, mi proietta violentemente da un’altra parte. E non so più quale!
Io credevo di avere una storia ed anche una pratica di sinistra (tessera del PCI di Berlinguer, voto sempre, disciplinatamente, alla filiera PCI/PDS/DS/PD in ogni tipo di elezione e referendum, fondazione e militanza nel PD, il partito lungamente atteso, desiderato, mai compiuto, strapazzato dalle sue infinite traversie, infine grato a Matteo Renzi per quanto ha fatto e fa ancora…). Ahi! Qui si apre la prima faglia: infatti oggi io sostengo l’azione di Italia Viva e sono riconoscente a Renzi per avere indirizzato abilmente ed efficacemente la politica di questo Paese, fino a Mario Draghi, in un frangente molto complesso e delicato.
Ma a parte questo “grave difetto”, mai mi ha nemmeno sfiorato l’idea di poter sostenere un qualsiasi centrodestra, fosse anche “finalmente civilizzato”, e per un fatto quasi antropologico, sul qual adesso non serve che mi dilunghi. Credimi, è così e tanto basta. Ora scopro che uno come te, una specie di fratello coetaneo culturale e politico, con un percorso ideale non dissimile dal mio, ed in più dotato di mezzi intellettuali nonché di successo e popolarità incommensurabili ai miei, si sente elettore del Governo Conte2 (tu lo chiami gentilmente giallo-rosso, ma era il Conte2, che veniva dopo il Conte1 con Salvini), ma non del Governo Draghi. Cioè, elettore del Governo nato dall’emergenza di fermare le mire agostane del Capitano, guidato da un improbabile “avvocato del popolo”, con Bonafede, Azzolina, Arcuri, il prof. Mimmo “Navigator” Parisi, arrivato dal Mississippi “a miracol mostrare”, con “incapaci” o “miracolati” (Beppe Grillo dixit), e non di quello dell’italiano più apprezzato al mondo da tempi immemorabili, che sta ottenendo risultati strabilianti, e tutti fortemente politici, mica tecnici o emergenziali …, con l’aiuto di un pugno di collaboratori eccellenti del calibro di Colao, Cingolani, Franco, Cartabia, Giovannini, … Anzi, tu dichiari, “papale papale”, che Draghi sarebbe ideale per un “centro-destra finalmente civilizzato”.
E io mi perdo, vado nel pallone. Ma allora, chi sarebbe adatto al centrosinistra, Che Guevara, Allende oppure, più prosaicamente, Bertinotti, Bersani, Zingaretti, Bettini, Provenzano, oppure addirittura Giuseppe Conte, improbabile “punto di riferimento del progressismo europeo”? Che razza di centrosinistra hai in mente, con quali riferimenti politici e culturali, forse Corbyn, Sanders, Ocasio-Cortez, Elly Schlein? Quale elezione puoi mai pensare di vincere con persone (tutte rispettabilissime, per carità!) così? Quando mai governerai un Paese occidentale negli anni Venti del Terzo Millennio?
Tu, in sostanza, e scusa se azzardo una interpretazione temeraria, ti auguri che uno come Draghi sia il leader di un centro-destra del tutto teorico, solo perché questo ti permette di coltivare un assurdo sogno utopistico di una sinistra idealista ed inconcludente, che sta all’opposizione, comoda, tranquilla, magari a discettare e far convegni, tanto a scavare nella merda e guidare la baracca ci pensa uno bravo come Mario Draghi, ma con un centrodestra civilizzato!
Eh, no, Michele, no! Troppo comodo! Direi persino “irresponsabile”. Governare, e cambiare un Paese, richiede non “anime belle” ma anime capaci, competenti, altamente professionalizzate, guidate da sani principi democratici e civili. Possibilmente e sperabilmente di sinistra. Ma in ogni caso “maggioranze”: altrimenti fai solo opposizione ed a governare ci pensano gli altri. E il Paese così lo cambiano gli altri, e a modo loro. Io credo che la sinistra debba avere la capacità di aprirsi, di allargarsi, di diventare maggioranza, includendo anche incerti ed indecisi, od anche pencolanti dell’altro campo; debba sapere accogliere istanze ampie, e non rinchiudersi in una ridotta di utopisti acchiappanuvole. La sfida è quella. E uno come Mario Draghi oggi è il più attrezzato per farvi fronte, inutile girarci intorno. Anche se non viene dalle sezioni del PCI o dagli oratori dei gesuiti, ma dalla scuola di Federico Caffè. E scusa se è poco.
Su Wikipedia c’è ancora scritto che Mario Draghi si è definito un “socialista liberale”. E tu vuoi regalarlo alla destra?
Forse stai scherzando ed io non ho capito niente. Vorrei che fosse così. Perché se non così fosse, dovrei constatare “definitivamente” che la sinistra non governerà MAI nulla, nemmeno un condominio, e quella che di tanto in tanto “casualmente” va al Governo, come Obama, Biden, o come fecero Blair, Palme, … Renzi …, è una destra camuffata. Spietati poteri forti, nel loro migliore travestimento, organizzati per imbrogliare i poveri scemi come me che ci cascano come pere cotte.
Scusa, ma a settant’anni non posso accettarlo. Non mi capacito di come possa accettarlo tu… Con (un po’ dubbioso) affetto,
Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera a Cacciari, con un invito al confronto in pubblico
“Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri”. Il direttore di MicroMega replica al testo firmato dal filosofo in coppia con Giorgio Agamben.
Caro Massimo, perché mai, nel tuo testo (in coppia con Agamben), diramato dall’“Istituto di studi filosofici di Napoli” col titolo “A proposito del decreto sul green pass”, non hai speso una sola parola di indignazione, vituperio, condanna, per la “pratica di discriminazione” che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un “green pass” definito “patente di guida”?
E perché mai non hai stigmatizzato l’insopportabile “regime dispotico” con cui in Italia si pretende un “green pass”, chiamato burocraticamente “porto d’armi”, per il libero cittadino (ridotto con ciò a suddito) che voglia girare con una P38 in tasca, mentre liberamente e gioiosamente un cittadino statunitense può acquistare al negozio d’angolo anche una Beretta pmx, una Skorpion Vz 61, una Thompson, e altri gingilli di libera autodifesa?
E perché non hai ricordato che queste nefaste pratiche discriminatorie hanno il loro antefatto nell’odiosa volontà (Legge 11 novembre 1975, n. 584, poi Legge 16 gennaio 2003, n 3, rafforzata dieci anni dopo con la “legge Sirchia”) di “purgare” i fumatori, discriminandoli col divieto d’ingresso nei cinema, teatri, ristoranti, caffè, treni, aeroporti, uffici, ghettizzandoli sui marciapiedi e in molti paesi cacciandoli infine anche dai luoghi aperti?
A me queste leggi antifumo sono sempre sembrate invece civilissime, e anzi libertarie. Perché mai dovrei essere costretto a inalare nicotina e catrame se voglio frequentare un luogo pubblico chiuso (o devo lavorare in uno spazio comune)? Ma in un luogo pubblico chiuso il fiato di un contagiato Covid è molto ma molto più dannoso degli sbuffi delle più micidiali Marlboro rosse o Gitanes papier mais.
Che senso ha trincerarsi dietro un generico “il dibattito scientifico è del tutto aperto”? Va da sé: il dibattito scientifico è sempre aperto, per definizione. Ma i dati delle ultime settimane sono costanti e inoppugnabili: contagi, ricoveri (e morti) dei non vaccinati sono, in proporzione al loro numero, dieci volte superiori a quelle dei vaccinati. La “libertà” di impestare il prossimo non è ancora stata introdotta tra i diritti umani e civili inalienabili, riforma costituzionale che il tuo testo solfeggia in filigrana, continua anzi a costituire una forma insopportabile non già di libertà ma di violenza, prepotenza, sopruso.
Le democrazie nascono impegnandosi a garantire l’endiadi “vita e libertà” dei cittadini, ma che vita e che libertà sono garantite a cittadini costretti a rischiare, in ogni luogo pubblico chiuso o all’aperto ma molto affollato, l’alito impestato di chi per privata prepotenza non vuole prendere l’unica misura che abbatte tale rischio: il vaccino? In realtà vi è, come noto (da secoli) un’altra misura: il distanziamento. Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha perciò nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri. Ai governi (il nostro compreso) si può e deve imputare – semmai – di non averla difesa e non difenderla abbastanza, questa comune libertà.
Che il “green pass” costringa a essere controllati e “tracciati” è infine pura menzogna. Vieni “tracciato” se lo usi sul telefonino con localizzatore, ma se te lo stampi (ci vuole un “clic”, appena più del teologico “fiat”), lo presenti dove è richiesto e nessuno ti “traccia”.
Infine, non è solo davvero fuori misura, ha piuttosto qualcosa di indecente e ingiurioso, evocare il passaporto interno di staliniana e brezneviana memoria o le misure di controllo del maoturbocapitalismo di Xi Jinping. Un’offesa sanguinosa ai milioni e milioni di vite umane che il totalitarismo comunista lo hanno subito davvero, carne e ossa, gulag e sangue. Spero che le righe in proposito siano uscite dalla penna del tuo sodale Agamben, che suona questo mostruoso refrain da anni, e tu le abbia accolte solo per momentanea debolezza.
Un abbraccio Paolo
p.s.
Caro Massimo, vedo che in una intervista a “La Stampa”, ripresa da Huffington Post e Dagospia, insisti, con argomentazioni che mi sembra restino più che mai claudicanti e infondate. Dato l’interesse del tema per tutti i cittadini, ti propongo di discuterne in pubblico e col pubblico, in una delle tante occasioni di controversie che stanno riprendendo “in presenza” (Convegni, Festival, Saloni, ecc.). Sono certo che, convinto come sei della forza delle ragioni che hai addotto, non ti sottrarrai al confronto.
Ma quale dispotismo! Il Green pass è libertà. Lettera a Cacciari, con un invito al confronto in pubblico
“Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri”. Il direttore di MicroMega replica al testo firmato dal filosofo in coppia con Giorgio Agamben.
Caro Massimo, perché mai, nel tuo testo (in coppia con Agamben), diramato dall’“Istituto di studi filosofici di Napoli” col titolo “A proposito del decreto sul green pass”, non hai speso una sola parola di indignazione, vituperio, condanna, per la “pratica di discriminazione” che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un “green pass” definito “patente di guida”?
E perché mai non hai stigmatizzato l’insopportabile “regime dispotico” con cui in Italia si pretende un “green pass”, chiamato burocraticamente “porto d’armi”, per il libero cittadino (ridotto con ciò a suddito) che voglia girare con una P38 in tasca, mentre liberamente e gioiosamente un cittadino statunitense può acquistare al negozio d’angolo anche una Beretta pmx, una Skorpion Vz 61, una Thompson, e altri gingilli di libera autodifesa?
E perché non hai ricordato che queste nefaste pratiche discriminatorie hanno il loro antefatto nell’odiosa volontà (Legge 11 novembre 1975, n. 584, poi Legge 16 gennaio 2003, n 3, rafforzata dieci anni dopo con la “legge Sirchia”) di “purgare” i fumatori, discriminandoli col divieto d’ingresso nei cinema, teatri, ristoranti, caffè, treni, aeroporti, uffici, ghettizzandoli sui marciapiedi e in molti paesi cacciandoli infine anche dai luoghi aperti?
A me queste leggi antifumo sono sempre sembrate invece civilissime, e anzi libertarie. Perché mai dovrei essere costretto a inalare nicotina e catrame se voglio frequentare un luogo pubblico chiuso (o devo lavorare in uno spazio comune)? Ma in un luogo pubblico chiuso il fiato di un contagiato Covid è molto ma molto più dannoso degli sbuffi delle più micidiali Marlboro rosse o Gitanes papier mais.
Che senso ha trincerarsi dietro un generico “il dibattito scientifico è del tutto aperto”? Va da sé: il dibattito scientifico è sempre aperto, per definizione. Ma i dati delle ultime settimane sono costanti e inoppugnabili: contagi, ricoveri (e morti) dei non vaccinati sono, in proporzione al loro numero, dieci volte superiori a quelle dei vaccinati. La “libertà” di impestare il prossimo non è ancora stata introdotta tra i diritti umani e civili inalienabili, riforma costituzionale che il tuo testo solfeggia in filigrana, continua anzi a costituire una forma insopportabile non già di libertà ma di violenza, prepotenza, sopruso.
Le democrazie nascono impegnandosi a garantire l’endiadi “vita e libertà” dei cittadini, ma che vita e che libertà sono garantite a cittadini costretti a rischiare, in ogni luogo pubblico chiuso o all’aperto ma molto affollato, l’alito impestato di chi per privata prepotenza non vuole prendere l’unica misura che abbatte tale rischio: il vaccino? In realtà vi è, come noto (da secoli) un’altra misura: il distanziamento. Tenere a distanza chi non vuole vaccinarsi non ha perciò nulla di discriminatorio, è una misura elementare minima di difesa della libertà (e vita) degli altri. Ai governi (il nostro compreso) si può e deve imputare – semmai – di non averla difesa e non difenderla abbastanza, questa comune libertà.
Che il “green pass” costringa a essere controllati e “tracciati” è infine pura menzogna. Vieni “tracciato” se lo usi sul telefonino con localizzatore, ma se te lo stampi (ci vuole un “clic”, appena più del teologico “fiat”), lo presenti dove è richiesto e nessuno ti “traccia”.
Infine, non è solo davvero fuori misura, ha piuttosto qualcosa di indecente e ingiurioso, evocare il passaporto interno di staliniana e brezneviana memoria o le misure di controllo del maoturbocapitalismo di Xi Jinping. Un’offesa sanguinosa ai milioni e milioni di vite umane che il totalitarismo comunista lo hanno subito davvero, carne e ossa, gulag e sangue. Spero che le righe in proposito siano uscite dalla penna del tuo sodale Agamben, che suona questo mostruoso refrain da anni, e tu le abbia accolte solo per momentanea debolezza.
Un abbraccio Paolo
p.s.
Caro Massimo, vedo che in una intervista a “La Stampa”, ripresa da Huffington Post e Dagospia, insisti, con argomentazioni che mi sembra restino più che mai claudicanti e infondate. Dato l’interesse del tema per tutti i cittadini, ti propongo di discuterne in pubblico e col pubblico, in una delle tante occasioni di controversie che stanno riprendendo “in presenza” (Convegni, Festival, Saloni, ecc.). Sono certo che, convinto come sei della forza delle ragioni che hai addotto, non ti sottrarrai al confronto.
Dalla DAD all’OMO, un altro insegnamento è possibile
DI NICOLETTA IACOBACCI20 Giugno 2021 3 minuti di lettura
Il 15 marzo del 2020 dovevo partire per la Cina per iniziare il mio consueto semestre universitario. Insegno a Guangzhou da cinque anni, due corsi su etica e tecnologie emergenti con circa 45 studenti ognuno. Eravamo in piena pandemia e fino a due settimane prima non sapevo se l’università restava aperta, se dovevamo utilizzare una piattaforma online o se i corsi erano rimandati o addirittura cancellati. Conoscendo tutte le piattaforme a disposizione ero piuttosto tranquilla anche se non le avevo mai utilizzate per gestire due dozzine di persone in contemporanea.
Insegnare in Cina è un’esperienza notevole perché In materia di istruzione gli studenti sono più audaci e determinati di quelli occidentali. Si impegnano, sono esigenti e scrupolosi. Sono preparati e ti rispettano, come insegna il loro maestro Confucio.
In alcune scuole, gli allievi cominciano a imparare a memoria gli insegnamenti di Confucio fin da piccoli. “Tra i 2 e i 6 anni, la capacità di memorizzazione è eccellente. Noi piantiamo i semi della pietà filiale, del rispetto per gli insegnanti e della compassione”, ha detto il direttore di un asilo nel centro di Wuhan.nullPUBBLICITÀnullnull
Ma non solo tradizione, le scuole cinesi adottano con entusiasmo anche l’intelligenza artificiale, come tecnologie di riconoscimento facciale, sistemi che gestiscono la sicurezza all’interno dei campus e software che registrano le presenze degli studenti.
D’altra parte gli sforzi della Cina per guidare l’IA inizia nella scuola. Nel febbraio 2019 nella città di Jinhua, nella provincia di Zhejiang, in una classe primaria entra un dispositivo per monitorare le onde cerebrali dei piccoli studenti: il brain scanner. Si utilizza al fine di migliorare la concentrazione e l’apprendimento degli alunni e di garantire gli insegnanti di identificare chi si distrae. Qualche mese dopo Supchina, una piattaforma americana di notizie incentrata sulla Cina pubblica l’immagine che ritrae i bambini in classe, seduti ai banchi, con il brain scanner ben visibile sulla fronte. La notizia suscita accese polemiche internazionali. Discutono genitori e professionisti dell’educazione, si impauriscono le famiglie, tanto che l’esperimento viene sospeso.
A prescindere dell’immagine inquietante, è necessario riflettere su come stare al passo con la tecnologia esponenziale applicata all’educazione. E’ possibile riformulare un sistema educativo utilizzando la tecnologia e salvaguardando il rapporto tra gli studenti, le sinergie con i professori e i valori morali che si imparano con l’esperienza? Possiamo gestire la tecnologia senza farci gestire da essa?
Ho affrontato questa tematica con i miei allievi La figura dell’insegnante in carne ed ossa è determinante anche se il modello didattico tradizionale, sia in classe che virtuale, va completamente rivoluzionato. Le lezioni odierne “one size fits all”, una misura uguale per tutti, sono strutturate con poca o nessuna flessibilità e le piattaforme online sono sotto-utilizzate o spesso considerate solo come opportunità visive, come fornitrici di telecamera. Riusciremo ad integrare online e offline senza perdere i vantaggi dell’una o dell’altra soluzione?
Se si considera che l’educazione online è molto più che un sostituto dell’insegnamento in classe, il cambiamento deve essere radicale. E’ necessario un approccio sistemico e il modello O-M-O, Online-Merge-Offline cinese puo’ forse ispirare una riforma didattica vincente.
Nei programmi O-M-O, i ruoli dell’insegnante (Chief Learning Facilitator) e dello studente (Active Learner) sono aggiornati e ridefiniti. L’insegnante deve conoscere profondamente la sua materia, deve avere una grande padronanza/conoscenza delle tecnologie d’insegnamento online e deve essere in grado di creare un’esperienza che sia stimolante, educativa e divertente. Lo studente deve essere dinamico, efficiente, disciplinato e deve saper sfruttare al meglio la ricchezza delle risorse a disposizione. Emerge anche una nuova figura, il Learning Facilitator, l’assistente, che ha un compito piu’ specifico di quello canonico dell’aiuto docente. Deve saper gestire piccoli gruppi di singoli studenti (non piu’ di sei) e controllare che siano sempre allineati e al corrente. Comporta un costo aggiuntivo ma questa figura garantisce il risultato finale.
Nel prossimo futuro le classi, in particolare modo quelle universitarie, saranno orizzontali, differenziate e interdisciplinari. Come possiamo raggiungere gli studenti con lezioni che siano coinvolgenti, pratiche, scalabili ed eventualmente personalizzate? Ci aiuterà sicuramente l’intelligenza artificiale, che utilizzando algoritmi di machine learning, sarà in grado di valutare il progresso scolastico di ogni studente e in tempo reale, selezionare e compilare i contenuti multimediali più rilevanti e adeguati ai suoi interessi, alla sua preparazione, alla sua storia personale.
“Ci sforziamo di fornire ad ogni studente un Super Insegnante AI” afferma Squirrel AI, la società cinese più emergente nell’adaptive learning, l’insegnamento su misura. Il sistema sembra funzionare a meraviglia tuttavia il problema è che se non proteggiamo il ruolo dell’insegnante (umano) la tecnologia ci scalza anche in questo settore. Ben venga l’adaptive learning ma cerchiamo di —integrare, non di sostituire.
Anche perché Confucio dice che: “Se pensi in termini di un anno, pianta un seme; se in termini di dieci anni, pianta alberi; se in termini di 100 anni, insegna alla gente”. Vogliamo delegare l’educazione delle nuove generazioni ad un sistema, che il piu’ delle volte è ancora biased e pieno di pregiudizi?
A Massimo D’Alema è stato contestato l’incasso di 10 mila euro al mese da presidente della Fondazione dei Socialisti europei. Lui ha risposto: “Le mie prestazioni intellettuali valgono più di quel che mi hanno dato”. La scrittrice Guia Soncini ne ha parlato su Linkiesta. “Comunismo è dove non mi siedo io. Draghi impari il senso del capitalismo da D’Alema” è il titolo della sua rubrica. Le abbiamo chiesto di commentare la vicenda. “D’Alema ha fatto benissimo a prendere quei soldi. Poi ha usato la parola “prestazione” che sa subito di sesso, e fa molto ridere”.
“In Italia abbiamo un rapporto complicato con i soldi, ma non siamo gli unici. L’altro giorno in un editoriale sul New York Times c’era scritto: “La mia generazione ha fallito perché l’obiettivo che c’eravamo preposti era l’eliminazione dei miliardari”. Prego? Ma come? Allora rivolete il comunismo, diceva Corrado Guzzanti. La verità è che anche il capitalismo più capitalista, cioè quello americano, è diventato apologetico come il nostro, pronto ad andar dietro a istanze poveracciste un po’ a caso. Un americano mi spiegava come gli americani abbiano smesso di essere quelli che desideravano fare carriera per comprare una limousine, per diventare quelli che alla limousine vorrebbero dare fuoco”.
Si sono allineati?
“Ci emulano in molte cose. Hanno avuto Trump dopo che in Italia abbiamo avuto Berlusconi. Ora si sono adeguati anche a questo rapporto contraddittorio che noi abbiamo con i soldi. Alla nostra stupidissima voglia di trovare il denaro una cosa brutta. Il sogno americano era diventare ricchi: se eri un ragazzino povero, pensavi a come risolvere i problemi che avresti avuto una volta diventato un adulto ricco. Oggi gli americani contestano i guadagni di Jeff Bezos”.
D’Alema come Jeff Bezos?
“Dicono che non è giusto che Bezos guadagni non so quanti milioni di dollari al giorno [321, ndr] e che un magazziniere dei Amazon prenda 2mila dollari al mese. Certo è vero, c’è la disparità, la diseguaglianza, ma perché un imprenditore dovrebbe sbattersi, mettere su un’impresa, se non perché sa che se riuscirà, se non fallirà, guadagnerà uno sproposito? Senza considerare il fatto che un miliardario come Bezos i soldi li ridistribuisce anche”.
E poi Amazon paga anche le tasse…
“Oltretutto. Pensiamo anche alle varie accuse di elusione e di utilizzare tutti i buchi legislativi per pagarne meno possibile. Mica è colpa dei miliardari, ma di chi non tappa i buchi legislativi. Stiamo parlando di un Paese in cui i miliardi sono perlopiù fatti e non ereditati. È gente che si è sbattuta ed è arrivata a un traguardo. Ma che volete di più dalla vita. Tra l’altro credo che il fatto che i soldi non siano ereditati dalla famiglia crei una ulteriore ragione di ira sociale negli Usa. In Italia puoi sempre raccontarti che gli altri abbiano più successo di te perché sono raccomandati o hanno ereditato da papà. In un Paese in cui se cominci da un garage puoi diventare miliardario, è difficile dare la colpa agli altri”.
E così succede che D’Alema viene accusato di essere l’uomo dalle “scarpe milionarie”.
“D’Alema è stato Fedez prima di Fedez. Quando noi diciamo al marito della Ferragni che non deve fare l’elemosina in Lamborghini, gli stiamo dicendo che avere una macchina da ricco è una cosa che ci offende. Non consideriamo che in quel modo fa lavorare gli operai della Lamborghini. L’Italia produce lusso: macchine, vestiti, vini buoni. Non produciamo componenti. Che sia D’Alema che si compra le scarpe fatte a mano o una barca, o Fedez che compra la Lamborghini, o io che mi compro una borsa costosa, tutti stiamo facendo lavorare il Made in Italy. Provvediamo come Bezos a far guadagnare l’operaio, che dello stipendio che discende dal lusso vive. In che modo il mondo sarebbe migliore se Fedez andasse in bicicletta?”.
Nella rubrica su D’Alema scrive: “Quando lo spirito del tempo è particolarmente scemo, qualcuno deve trovare la forza di andare contro lo spirito del tempo. Di dire: non solo dovete pagarmi, ma anche bene”.
“La cosa interessante è che essendo D’Alema novecentesco non si scusa. In un mondo in cui Mario Draghi rinuncia allo stipendio, Fedez si mortifica e dice venderò la Lamborghini, io amo D’Alema in maniera viscerale. Perché ormai hanno vinto loro, quelli delle polemiche dei social, e non c’è modo di sottrarsi. Perché oggi o ti scusi, ti spieghi, e fai tutte quelle cose che la Casa Reale inglese ordinava di non fare, ovvero mai scusarsi mai spiegarsi (“Never complain, never explain, never say I’m sorry”), oppure sei un mostro che non tiene conto dello spirito del tempo, del sentimento popolare. Gli americani dicono “Read the room”, Cerca di capire quello che vuole la stanza in cui entri. Ma sono gli americani senza personalità: Steve Jobs diceva che il compratore non sapeva cosa desiderava finché non glielo diceva lui. Non mi viene in mente nessuno che abbia combinato qualcosa di rilevante assecondando le folle”.
D’Alema è uno dei pochi che non risponde al linguaggio del tempo
“Non so dire se sia un aspetto del suo carattere oppure se può permettersi di farlo perché non ha più niente da perdere. Mi viene in mente solo un altro, nell’Italia di oggi, che si permetta di dire quello che vuole senza mai scusarsi: Fiorello. Se stai sui social oggi non puoi non rispondere. Decidere di fregarsene è una scelta possibile ma non per chi fa un mestiere che dipende dal consenso popolare, come l’attrice, il politico, o il marito dell’influencer”.
Nella tua rubrica oltre a citare Draghi che si taglia lo stipendio parli anche di Maria de Filippi che nel 2017 ha condotto il Festival di Sanremo gratis.
“Quello che nessuno dice è che i soldi sono come i filtri di Instagram. Se sei figa puoi non usarli perché sei perfetta anche con la luce imperfetta. Puoi rinunciare al denaro se ne hai che ti avanza. Per cui credo che sia la De Filippi sia Draghi non ne avessero semplicemente bisogno. Il problema è che il messaggio è sbagliato. È un messaggio di comodo. Senza compenso nessuno ti potrà dire: “Hai preso troppi soldi dalla Rai”. Credo sia questa una delle ragioni per cui Fiorello fa così poca televisione, per non sentirsi dire: “Ah, sei pagato fantastiliardi coi nostri soldi, e noi non arriviamo a fine mese”. Una persona normale, che sappia quanto vale il suo lavoro, non ha nessuna voglia di giustificarlo a una massa di incompetenti. Non deve spiegarlo all’utente di internet. Se il dirigente dell’azienda di comunicazione non vuole fare il Direttore Generale della Rai a 200mila euro è perché altrove gliene danno 600mila. Capisco che sembrino cifre enormi, ma il mercato esiste”.
Il messaggio che passa è che chi non si fa pagare è bravo e dignitoso. Mentre se ti fai pagare sei avido e immorale.
“Ed è una cosa che vale soprattutto per le donne. Perché chiedere i soldi non è considerato femminile. Ed è colpa nostra, sia chiaro. Perché vogliamo essere seduttive. Ci interessa che quando usciamo da una stanza nessuno dica “quella stronza”. Chiaramente se chiedi più soldi ti diranno che sei una stronza. Ma probabilmente avrai avuto più soldi. Sarai stronza e contenta”.
Eppure molte non la pensano così.
“Ellen Pompeo, di Grey’Anatomy, ha chiesto più soldi per fare ulteriori stagioni di quello sceneggiato, glieli hanno dati, è diventata l’attrice più pagata della televisione americana. In un’intervista ha detto una cosa sacrosanta: “I soldi bisogna chiederli”. Ha ragione, perché nessuno dirà: “Ehi ragazza, pensavo di darti più soldi perché così mi costi di più”. Non è vero che le donne vengono pagate poco perché le aziende pensano che valgano meno degli uomini, vengono pagate meno perché non chiedono di essere pagate di più”.
Non hanno capito che chiedere fa parte del lavoro?
“Il voler essere simpatici è il problema delle donne e del divario salariale. Spesso si preferisce restare tranquille, non creare problemi, perché così si può tornare a casa appena il bambino ha la tosse all’asilo, invece di essere quelle che siccome vengono pagate tanto devono anche essere più responsabili”.
A proposito di donne, parliamo del caso Aspesi. La giornalista di Repubblica ha detto che i morti in fabbrica sono un problema più grave del catcalling. È stata accusata di essere una cattiva femminista, proprio lei che ha fatto la storia del femminismo in Italia. Perché una cosa così condivisibile viene attaccata sui social?
“Tra i commenti alla questione c’era gente che riferiva d’essere informata sulla sua carriera giacché aveva cercato cinque minuti prima la voce Aspesi su Wikipedia. Va benissimo non sapere niente, non si è tenuti a sapere tutto, però perché ne dibatti? Questo non mi è chiaro. È uno dei tanti meccanismi deliranti dei social. Il bello è che la Aspesi si rivolgeva a loro, a quelle che si occupano di body-positivity, catcalling sui social. E tutte loro, il giorno dopo, per far vedere che parlavano di cose davvero importanti, discettavano di Israele e Palestina, senza però saperne molto. Ho scritto una rubrica anche su questo, uno degli opinionisti di Instagram ha risposto che non ho capito quanto lui fosse un divulgatore, e che prima di fare un video su Israele e Palestina lui aveva studiato 12 ore. Quest’idea del corso intensivo da autodidatta, 12 ore per sapere tutto delle guerre in Medioriente, mi è sembrata davvero molto interessante”.
Per tornare a D’Alema, anche in questo caso gli utenti di internet si sono indignati.
“Se fossi D’Alema andrei in Palestina con le scarpe fatte a mano e spargerei contanti sulla folla. Ma forse questa frase non si può scrivere senza che venga presa sul serio: dire “era una battuta” è ormai doveroso quasi quanto fingersi poveri. Dal punto di vista di D’Alema, poi, immagino non ci sia granché da ridere: è come se ti accusassero di rubare lo stipendio. Il problema non è il suo che ha ritenuto che le sue “prestazioni” andassero pagate, ma di quelli che lo hanno preceduto nel ruolo di presidente della Feps, e lo hanno fatto gratis. È il contesto che lo fa sembrare avido. Ma ripeto, perché uno dovrebbe lavorare senza essere pagato? La cosa che mi lascia stupita è questa massa indistinta che è quella che pretende che D’Alema lavori gratis, che la De Filippi lavori gratis, che si compiace che Alessandro Di Battista restituisca i soldi allo stesso modo di quando li restituisce Draghi. Questa è la stessa gente che fa la lagna sui social perché le offrono solo stage non retribuiti. È ora di fare pace con il cervello. Benedetti ragazzi, pensate davvero che un domani, dopo questa campagna per slegare il lavoro dai soldi, vi offriranno uno stage retribuito pagandovi con i soldi restituiti da Draghi e D’Alema?”.
Perché in Italia è tanto difficile fare le riforme e modernizzare il Paese? Perché c’è un blocco conservatore, non solo politico, che ostacola il cambiamento – Sul banco degli imputati, l’illustre giurista Sabino Cassese mette quattro forze, indicate per nome e cognome: ecco quali
Ma perché in Italia è tanto difficile fare le riforme e modernizzare il Paese? Colpa di Salvini o colpa dei Cinque Stelle e dei loro pregiudizi ideologici? Sì, certamente il conservatorismo di alcune forze politiche – che offrono una lettura surreale dello stato del Paese e che se ne infischiano dell’interesse generale, inseguendo solo il consenso elettorale a breve – conta eccome, ma non è tutto. In realtà, sotto l’avversione al nuovo di alcuni partiti c’è dell’altro: un blocco di interessi che ostacola il cambiamento, come si vide anche in occasione del referendum costituzionale del 2016, salvo ora dover sopportare le litanie tardive e spesso ipocrite di chi lamenta le distorsioni del rapporto tra Stato e Regioni, venute clamorosamente alla luce durante la gestione della pandemia.
Ma, uscendo dalle denunce generiche e perciò inutili, in un editoriale pubblicato giovedì scorso dal Corriere della Sera, l’illustre giurista e giudice costituzionale emerito Sabino Cassese non è andato tanto per il sottile e ha fatto nomi e cognomi delle forze che bloccano il rinnovamento del Paese. Con tanto di esempi.
“Elencare i titolari del potere di interdizione, oggi, in Italia, sarebbe lungo”, scrive Cassese, che però non si sottrae all’indicazione delle forze della conservazione. Dello schieramento che blocca il Paese “fanno parte i sindacati, che hanno sviluppato un atteggiamento esclusivamente rivendicazionistico”. E pensare che negli anni Settanta la Cgil di Lama e Trentin, la Cisl di Carniti e la Uil di Benvenuto guidavano la battaglia delle riforme: altri tempi e altri leader.