rpNel quale si da conto delle vestigia perse nel tempo, dei reperti ritrovati e di quelli trafugati.
Il territorio di Monte Roberto già in epoche preistoriche ebbe una frequentazione umana sufficientemente documentabile. La zona non è molto lontana dagli insediamenti individuati in grotte nell’area della Gola della Rossa (Serra San Quirico) i cui reperti (strumenti litici: bulini, grattatoi, raschiatoi ecc.) risalgono al Paleolitico Superiore e datati 9.800 a.C. 1A. Broglio e Delia Lollini, I ritrovamenti marchigiani del paleolitico superiore e del mesolitico, in l° Convegni) dei Beni Culturali (Numana 8-10 maggio 1981), Paleani, Roma 1982, pp. 30-60. Dello stesso periodo è il giacimento di Fosso Mergaoni, sempre in comune di Serra San Quirico, sulla riva destra del fiume Esino, poco più a valle della Gola della Rossa. 2Mara Silvestrini, Gioia Pignocchi, Giacimenti del paleolitico superiore di Fosso Mergaoni, in Le Marche-Archeologia, Storia, Territorio, Arcevia-Sassoferrato 1987-0, pp. 7-16. Reperti della medesima epoca sono anche quelli ritrovati in territorio di Cupramontana, 3Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., fig. 56 e p. 167. non destano così meraviglia gli strumenti litici rinvenuti in contrada S. Apollinare (zona Gagliardini Edilizia, S.E.S. Stampi, Gherardi Aratri Attrezzature Industriali). Si tratta di lame, raschiatoi, bulini, nuclei ecc., non in grande quantità ma sufficienti a farci pensare ad una presenza umana non lontana dalla riva del fiume.
Un insediamento più consistente di epoca più recente, di età certamente pre-romana, ci è testimoniato, sulle pendici della collina tra Castelbellino e Monte Roberto, da una necropoli scoperta più di 130 anni fa. Essa è da attribuirsi ai Piceni diffusi almeno dall’VIII sec. a. C. nella media valle dell’Esino. 4Paci Renzo, Sedimentazioni storiche nel paesaggio agrario, in Nelle marche Centrali, Jesi 1979, vol. I, p. 100.AA.VV., Piccola Guida della Preistoria italiana, Sansoni, Firenze 1965, 2a ed., p. 84. La zona è quella di contrada Noceto, allora indicata con questo toponimo, ora la si può indicare come la parte sinistra dell’inizio di via S. Marco, salendo verso Monte Roberto, alla cui destra incomincia appunto via Noceto (strada non più praticabile) con la relativa contrada.
La scoperta fu fatta verso la fine del mese di marzo del 1880, mentre si eseguivano lavori di sbancamento per la costruzione dell’attuale strada provinciale dei castelli. Gli scavi continuarono a più riprese fin quasi alla metà di agosto. Il sindaco Agapito Salvati ne diede notizia 24 maggio e il 12 agosto al prefetto di Ancona. A fine mese il Ministero della Pubblica Istruzione incaricò il prof. Alessandro Chiappetti (1842-1900), docente nel Liceo-Ginnasio di Jesi, da fare sul luogo un’attenta ispezione. Il Chiappetti dopo aver osservato ed esaminato con cura i luoghi ed i reperti ne stese una dettagliata relazione, essenziale per conoscere l’esatta consistenza dei ritrovamenti. 5Chiappetti Alessandro, Monte Roberto – Necropoli Picena in contrada Noceto, in Notizie degli Scavi, 1880, pp. 343-349 e in estratto. La Necropoli di Monteroberto, coi tipi del Salviucci, Roma 1881. Oltre allo scavo eseguito per i lavori stradali, si esplorò una superficie di circa 400 mq. Furono trovati circa settanta scheletri con il capo rivolto verso levante infossati nella terra senza lastre o tegole di copertura. Nelle tombe si rinvennero ornamenti d’ambra, di bronzo, anellini, fibule, lamine, elementi, di collana in vetro, punte di lancia, frammenti ceramici ecc. Gran parte di questi reperti è ora conservato presso il Museo Archeologico Nazionale deli Marche di Ancona. A conclusione della sua relazione il Chiappetti osservò che “in questi scavi, tanto alle figuline quanto scheletri si pose poca attenzione, e poco ancora si badò, se vi fossero ornamenti d’osso e istrumenti di pietra, per metterli in serbo e farne oggetto di studio. Questo avvenne, perché sul principio si mise mano all’opera con l’idea di trovare cose di gran valore, tanto per la materia quanto per l’arte, né si pensava al vantaggio, che dalle scoperte sarebbe venuto alla scienza e alla storia delle genti primitive, che popolarono questa contrada”. 6Ivi, (ed. Salviucci), p. 8. “Sempre a Monte Roberto si sono scoperti anche fondi di capanne risalenti all’età del ferro e simili a quelle degli antenati eneolitici”, così scrive Costantino Urieli in Jesi e il suo Contado, vol. I, tomo I, Jesi 1988, p. 40 citando W. Dimitrescu L’età del ferro nel Piceno, Bucarest1929, p. 178. L’osservazione è valida ancor oggi, quando non di rado si ritrovano reperti archeologici, certamente di non grande entità ma senza dubbio significativi, che vengono tenuti nascosti in casa o si immettono nel mercato clandestino, privando così gli studiosi di elementi conoscitivi essenziali per una più esauriente comprensione storica del territorio o per una convalida di ipotesi, destinate, in assenza di questi dati fondamentali a rimanere tali.
A poco più di un secolo dalla scoperta della necropoli in contrada Noceto, un’altra necropoli, questa volta a valle, nell’ottobre 1982 fu portata alla luce. La scoperta di numerose ossa umane fu fatta durante i lavori di sbancamento per l’apertura di una cava di ghiaia in contrada S. Antonio, non lontano dalla strada provinciale n. 9 Castelferretti-Montecarotto, la cosiddetta “Planina”. I saggi di scavo, mettendo in luce una ventina di tombe, hanno accertato l’esistenza di una necropoli sufficientemente ampia che si estendeva su un’area di circa 3.500 mq., per complessivamente un centinaio di tombe. Un fossato curvilineo delimitava verso nord-ovest la necropoli: probabilmente in esso c’erano cespugli, alberi ornamentali o qualche altro segno che indicasse il sepolcreto. Le tombe del tipo a fossa, originariamente avevano la copertura a tegola andata però quasi completamente rovinata ad opera delle arature fatte sul terreno. Gli scheletri avevano il cranio in direzione nord-ovest. Non è stato rinvenuto alcun oggetto di corredo. Una tomba, sotto il piano di deposizione, aveva un piccolo vano che doveva servire con tutta probabilità come camera d’aria, per isolare il corpo dall’umidità e da infiltrazioni d’acqua. Altre avevano le pareti fatte di frammenti di tegole e mattoni. Tra la terra ghiaia di riempimento e tra i frammenti di copertura sono stati trovati alcuni frammenti di intonaco dipinto che certamente appartengono a costruzioni più antiche. Il sovrapporsi caotico di non poche tombe rivela come la necropoli continuasse ad essere in uso per lungo tempo. Risulta difficile una loro datazione per la mancanza totale di oggetti di corredo, genericamente però si possono attribuire ad età romana. La consistenza della necropoli, non lontana dall’Abbazia di S. Apollinare, rivela la vicinanza di un grosso centro abitato probabilmente proprio Planina ubicata nell’area della stessa abbazia. { tooltip}7{end-texte}Rita Virzi Hdgglund, Una necropoli romana a Pianello Vallesina (Monte Roberto), in Picus- Studi e ricerche sulle Marche nell’antichità, II, 1982, P. 177-182, da cui è stato tratto ampiamente il testo.{end-tooltip}
La consistenza della necropoli, non lontana dall’Abbazia di S. Apollinare, rivela la vicinanza di un grosso centro abitato probabilmente proprio Planina ubicata nell’area della stessa abbazia.[7]Rita Virzì Hàgglund, Una necropoli romana a Pianello Vallesina (Monte Roberto), in Picus- Studi e ricerche sulle Marche nell’antichità, II, 1982, p. 177-182, da cui è stato tratto ampiamente il testo.
4. PLANINA
Di questa città unico a parlarne è Plinio il Vecchio (23-24 d.C. -79 d.C.)[8]Naturalis Historia, lib. IlI, cap. XIII. nel contesto di altri abitanti di relative città poste all’interno del Piceno, la Regione V Augustea. La tradizionale ubicazione viene indicata nei pressi dell’Abbazia di S. Apollinare [9]Annibaldi G. alla voce Planina in Enciclopedia Arte Antica, IV, Treccani, Roma 1965, p. 223 con bibliografia.anche se ormai da diversi anni alcuni studiosi ed archeologi la mettono in dubbio a favore del municipio romano di S. Vittore di Cingoli.[10]Nereo Alfieri, Lidio Gasperini, Gianfranco Paci, M. Octavii Lapis Aesinensis, in Picus, N, 1985, p. 31 Gianfranco Paci, Un municipio romano a S. Vittore di Cingoli, in Picus, VIII, 1988, p. 67. Mario Luni, Archeologia nelle Marche, Banca delle Marche-Nardini Editore, Firenze 2003, pp. 104, 137, 169, 232, 241. A supporto di quest’ultima ipotesi c’è una maggiore abbondanza di materiale archeologico ritrovato a S. Vittore e conservato sia in loco che a Cingoli, nessuna epigrafe finora conosciuta conferma comunque Planina a S. Vittore escludendo S. Apollinare di Monte Roberto. È da precisare tuttavia che neanche in questa località sono state rinvenute epigrafi o prove decisive; a favore di questa locazione c’è la tradizione secolare motivata da ritrovamenti fatti anche in tempi recenti; altra prova potrebbe essere la presenza di necropoli nelle vicinanze (contrada S. Antonio in territorio di Monte Roberto e contrada Molino in territorio a Castelbellino); non sono poi da trascurare altri siti archeologici in contrade limitrofe (contrada S. Pietro).
È il Colucci che ci descrive, verso la fine del Settecento, quanto rimaneva dell’antica Planina. La sua descrizione si fondava su quanto gli aveva scritto don Sebastiano Marini di Castelplanio, ma soprattutto su alcuni appunti di don Gianfrancesco Lancellotti (1721-1788) di Staffolo che gli aveva fatto avere don Francesco Menicucci di Massaccio (Cupramontana).“Nel territorio del castello detto di Monte Roberto in vicinanza dell’antica Badia di S. Apollinare esiste un presidio dei signori Marchesi Silvestri Bovio, ed ivi si osservano grandi costruzioni di antiche, e grosse muraglie rese già più informi dal tempo […]. Ivi si veggono avanzi di aquidotti, e di fogne fatte con duro sasso, pavimenti a mosaico, quantunque di niuna squisitezza; ivi si scavano molte lastre di marmo. medaglie d’ogni grandezza, idoletti, canali di piombo, ed altre anticaglie, delle quali se n’è fatta qualche raccolta dal sig. d. Giammaria Chiatti”.[11]Chiocci Giuseppe, Antichità Picene, voi. IV, Fermo 1789, pp. 117-120.
Don Ottavio Turchi (1694-1769), storico nativo di Apiro, potè vedere direttamente gran parte delle cose descritte ed aggiunge che nel sito “sono state raccolte molte monete antiche”, “si raccolgono ancora frammenti, anche di bronzo, antiche iscrizioni e, secondo la testimonianza degna di fede di alcuni, sono stati trovati idoletti ugualmente in bronzo” ed osserva che se “quel luogo per diversi secoli non fosse stato soggetto a continui lavori altri reperti certamente più interessanti si sarebbero potuti ammirare” (nisi locus ille per plura saecula fùisset dissipatus, alia sane nobiliora apparerent vestigia admiratione dignissima).[12]ivi, pp.. 120-121.13 ivi, p. 124.Poco più oltre il Colucci – sulla traccia dei suoi informatori – cerca di spiegare meglio la mancanza di abbondanti reperti dell’antica Planina. “La bella positura del suo territorio, la facilità di coltivarlo, e la feracità del medesimo sono stati tanti motivi per i quali […] tutto si è abbattuto […] e non si perdonò né a lapidi, né ad altra qualunque cosa degna di essere conservata a perpetua memoria della defunta colonia. Nondimeno di tempo in tempo si van discuoprendo delle anticaglie, le quali son degne di far ornamento a qualunque museo”.[13]ivi, p. 124.
Ricorda poi tra i ritrovamenti “un bel gruppo di statuine di bronzo rappresentanti un sacrificio d’Iside” che fu dato a Bertrand Chaupy di Tolosa venuto ad osservare i resti di Planina, testimone di questo dono fu il Lancellotti che spesso veniva a Castelbellino e a Monte Roberto sia a far visita ai propri parenti sia per vigilare sulle sue proprietà.Un analogo gruppo di statuine, riferisce sempre il Colucci, fu trovato nel 1775 tra le medesime rovine ed acquistato dal conte Niccolò Mosconi di Jesi. Si fa cenno inoltre di un’altra “statuetta ignuda d’informe manifattura, e a quel che apparisce sembra possa esser d’un satiro. Stà seduta, ed ha la testa in forma di bestia”.[14]IbidenDopo oltre un secolo dalla testimonianza del Colucci e dei suoi corrispondenti, Giovanni Annibaldi sen., scriveva nel 1880: “Benché al presente nulla appaia della distrutta città, nondimeno i coloni di quelle contrade trovano sotto il suolo lunghi ordini di mura, pavimenti, monete romane e simiglianti. Inoltre hanno scoperto una lunga traccia di strada antica or coperta dal suolo coltivabile, volgente da Planino, a scirocco”.[15]Annibaldi Giovanni, San Benedetto e l’Esio, Tip. Ruzzini, Jesi 1880, p. 3.
Molte cose, di piccola fattura, sono venute alla luce agli inizi degli anni Novanta, come monete romane frammenti ceramici o di statue in bronzo ecc. Chi li ha ritornati o li ritrova ancora si premura di immetterli nel mercato più o meno ufficiale conservarli in casa per l’esclusiva gioia sua o la meraviglia di qualche amico, distogliendo gli addetti ai lavori da studi ed approfondimenti che potrebbero far maturare altre certezze. É il caso di alcune monete (periodo repubblicano – asse e sestante – e periodo imperiale, Nerone, Commodo, Gordiano Pio ecc.) e di un piccolo piede e di un braccio in bronzo che abbiamo potuto vedere di persona. Poche invece le iscrizioni di cui si hanno notizia e che con certezza o con forte probabilità provengono da Planina. Innanzitutto un’iscrizione mutila su un frammento di lastra in bronzo posseduta, alla fine del Settecento, da don Giovanni Maria Chiatti che abitava nei pressi dell’abbazia di S. Apollinare e che il Lancellotti potè vedere e descrivere:
III AVRELI ANS
pochissime espressioni per tentare una lettura completa.[16]Lancellotti Gianfrancesco, Manoscritti, alla voce Planium, cc. 305-308, Biblioteca Comunale Planettiana. Jesi.
Attualmente nella sacrestia della chiesa parrocchiale di S. Silvestro a Monte Roberto un’iscrizione conferma l’appartenenza della popolazione a destra dell’Esino alla tribù Velina istituita nel 241 a.C.:
L. PLOTIVS L. E. VEL. CRVSTA
L’iscrizione su blocco di calcare (cm 31 x 53) proviene quasi certamente dall’area di Planina: a metà Settecento era su una parete della vecchia chiesa di S. Silvestro, finì sulla facciata della nuova chiesa quand’essa fu ricostruita alla fine del secolo, coperta dall’intonaco fu riportata alla luce nel 1953 per essere posta nel sito attuale.[17]Ivi, p. 125.Sarti Mauro, De antiqua Picentum Civitate Cupra Montana, Tip. Gavelli, Pesaro 1748, p. 70. Mommsen T., Corpus Inscriptionum Latinorum, voi. IX, Berlino 1883, n. 5714, p. 546.Grazzi Luigi Ag., Di alcune antichità di Jesi e della sua valle con discussione sui primi vescovi di Jesi, Italstampa, Roma 1955, p. VII.Il Grazzi scrive che “dallo stile può giudicarsi del sec. II-III d.C.”. [18]Grazzi Luigi Ag., Ibidem.Di probabile provenienza da Planina è anche un’altra iscrizione, oggi collocata nell’aula consigliare del comune di Castelplanio.
Si trovava nella “sala della residenza priorale” (diversa dalla sede attuale) già nel quarto decennio del Settecento, “avendo servito prima di coperchio ad una sepoltura in una chiesa di detto luogo”.[19]Colucci G., op. cit., p. 126.
La fanno risalire, stando ai caratteri incisi, al periodo dell’alto impero, da Domiziano (81-96) o, meglio ancora, ai primi anni dell’impero di Traiano (98- 117) ed è dedicata a Grecinia Petina che il Grazzi ascrive alla famiglia dei Pomponii Grecinii di Gubbio, una delle famiglie dei fedeli cristiani attorno agli apostoli Pietro e Paolo ai primordi della predicazione della fede in Roma.Suggestiva (o forse azzardata?) è l’ipotesi del Grazzi sull’introduzione del cristianesimo nel nostro territorio attraverso questa “nobildonna cristiana venuta a morte in quella prima decade del II secolo”, sposa di Quinto Precio Proculo, presente in zona al servizio dello stato o dell’esercito dell’imperatore Traiano, impegnato in quegli anni a trasbordare le truppe da Ancona in Dalmazia per le sue campagne di guerra contro i Daci.[20]Grazzi Luigi, Storia di Poggio San Marcello, Gesp, Città di Castello 1987, pp. 106-110. Grazzi Luigi, Ricerche sui “fideles” e i primi cristiani in Roma (41-155), Roma 1981, pp. 54-67. A Quinto Precio Proculo era stata dedicata una lapide, conservata a Ostra, andata però perduta dopo il secondo conflitto mondiale: Bozzi Marino, Ostra – Iscrizioni e memorie, Ostra Vetere 1985. pp. 117-118.
Altre lapidi d’epoca romana ricordano Planina e i suoi abitanti, Planinenses. Le registrava, nel secolo scorso, nel suo “Corpus Inscriptionum Latinarum”, il Mommsen: in una, si nomina la tribù Velina (III, 6202), in un’altra, vista dallo studioso tedesco a Londra e finita poi nei pressi di Liverpool, si riporta un elenco di soldati, tra costoro uno era nato a Planina (VI, 2375 I, 7); una terza lapideTextus: [- – – La]ur(enti) Lavin(ati), [sacerdot]i urbis Romae [aet]ernae, Ticini, 5 [item p]atrono reì publ(icae) [Urbi] Salvensium, [rei p]ubl(icae) Numanatiûm, [rei] p(ublicae) Tollentinatium, [rei] p(ublicae) Planinensium, 10 [actori] causar(um) fideliss(imo), [pat]ron(o) reì p(ublicae) Aug(ustae) Ṭ[aur(inorum)] [ob] eius erga r[em p(ublicam)] [fidem at]que ac[- – -] [clemen]tiam (?), caritat(atem) 15 [ordo splen]didiss(imus) ob merit(a) [pop]ulo postulante d(ecreto) d(ecurionum). presente in un museo di TorinoUrbs nostrae aetatis: Torino Locus inventionis: Torino, reimpiegata nelle mura Locus adservationis: Torino, Museo di Antichità, inv. nr. 331 , riferisce di un “patronus [rei] p.[ublicae] planinensium” (V, 6991).
Nel luglio del 1972 a poche centinaia di metri dall’Abbazia di S. Apollinare, mentre si stava facendo lo sterro per le fondamenta del capannone industriale dell’attuale S.E.S venne tranciato a metà un “dolio” sepolto a pochi decimetri sotto il livello del terreno. Era il classico contenitore a forma oblunga con una apertura rotonda che presso i Romani si utilizzava per il vino, l’olio, il grano o la farina. Il dolio aveva “un diametro nel punto centrale di maggiore ampiezza di oltre un metro, l’altezza invece doveva avvicinarsi un metro e mezzo”. Alcuni frammenti furono portati a cura di soci dell’Archeoclub nel Palazzo della Signoria di Jesi, presso l’allora sede del Museo archeologico: ne ha reso testimonianza il parroco di S. Apollinare di quel tempo, don Vittorio Magnanelli, che si trovava sul luogo.
Gli allora responsabili della Soprintendenza non ritennero però opportuno recuperarlo nella sua interezza, così il manufatto rimase di nuovo sepolto nonostante che si fosse auspicato di ricostruirlo nella sua integrità costituendo un segno ed una struttura di deposito alimentare che non poteva certamente essere isolata in aperta campagna.[21]Riaffiorano ancora i segni dell’antica Planina, in Voce della Vallesina, n. 30 del 30 luglio 1972, pp. 3 e 6.
Ora di questo reperto non ci rimane che una fotografia scattata da un appassionato di archeologia. Si parla anche di anfore intere rinvenute sempre nella stessa zona; mentre si ha la certezza, da documenti fotografici, di balsamari tubolari in vetro, di coperchi di vetro, di frammenti di fondo e di parte laterale di coppa o di contenitore di vetro rinvenuti circa il 1980 nei pressi del bivio dalla strada provinciale per Staffalo verso l’abbazia di S. Apollinare, o di frammenti di ceramica e frustoli di piombo trovati negli stessi anni nella zona dell’ex scuola elementare (attualmente “Schola” Gagliardini). Altri oggetti testimoniano una sicura attività artigianale e commerciale: sono un peso in piombo da telaio ed un peso da bilancia.
Di alcune monete ritrovate già si è accennato, di altre si è scritto da parte di esperti nel contesto di rinvenimenti monetali nella valle del fiume Esino.“Per Planina resta solo una documentazione fotografica di 12 esemplari ormai dispersi, che però sono estremamente importanti per due motivi. Uno è dato dalla presenza di due frazioni di bronzo provenienti rispettivamente da Siracusa e da Taranto della metà del III sec. a. C., che sebbene siano da considerarsi una presenza episodica di moneta greca, attestano una frequentazione del luogo nel tempo; i pezzi infatti abbracciano un arco cronologico che va dal III secolo a. C. alla fine del IV d. C.Il secondo motivo per cui questi pezzi inediti sono importanti, è dato dal fatto che di recente alcuni studiosi ed archeologi, hanno messo in dubbio la tradizionale ubicazione dell’antica Planina nel territorio del comune di Monte Roberto a favore del municipio romano situato nell’alta valle del Musone, di S. Vittore di Cingoli, per una maggiore abbondanza di materiale archeologico, ma queste monete dimostrano l’esistenza di un insediamento di qualche rilievo, che seppure non dovesse trattarsi dell’antica Planino, inducono ad una ‘revisione’ delle potenzialità archeologiche del sito”.[22]Sgreccia Eleonora, I rinvenimenti monetali nella valle del fiume Esino, in “Cronaca Numismatica”, n. 125-Dicembre 2000, pp. 78-81.Di questi reperti abbiamo notizia certa e testimonianza diretta; di molti altri abbiamo raccolto la voce della gente: oggetti conservati in casa o comunque avuti tra le mani (ceramiche e piccoli manufatti metallici specie in bronzo) ritrovati a S. Apollinare o a Pianello durante lavori in campagna, in particolare durante scavi per fondamenta di abitazioni; l’attendibilità di queste notizie non l’abbiamo potuta verificare, ma dal momento che se ne parla con una certa precisione identificando luoghi e persone, si può ben ritenere che non si tratti di semplici fantasie.Come non è fantasia il sito archeologico di via San Pietro, dove affiorano nei pressi di una casa colonica, mattoncini di pavimento, frammenti ceramici di vasellame, di anfore, di grosse tegole, mentre non sono mancati ritrovamenti di tubi in piombo, di monete, di elementi decorativi in terracotta (antefisse ecc.) o con figurazioni in rilievo (cavallo con cavaliere) o ritrovamenti più consistenti come moduli di colonne ecc.
L’ipotesi di un luogo di culto a poche centinaia di metri da Planino nel folto di un bosco potrebbe rivelarsi non del tutto peregrina: la zona è proprio quella del bosco di farnie (contrada Schiete) con una strada di collegamento di cui parla l’Annibaldi con la città vicina. Preziosa per questi ritrovamenti e per quanto nasconde ancora il terreno è la testimonianza diretta di coloro che periodicamente arano il terreno ed hanno modo così di individuare sul terreno questi manufatti. A quanto sopra riportato e concernente ritrovamenti fortuiti e del tutto occasionali si deve aggiungere il ritrovamento di una necropoli picena, sempre in via San Pietro, nel dicembre 2001, nel corso dei lavori di scavo per l’edificazione di un capannone della ditta O.M.R. di Ricci & C., quando vennero intercettate undici tombe, dieci delle quali, una volta scavate, risultavano di età picena (IV sec. a. C.), mentre l’undicesima di tarda età romana. Solo la tomba tardo romana non conteneva corredo, le altre invece avevano un ricco corredo ceramico (ciotole, olle, piattelli, Oinochoe, Kilix, Pocula., Skyphos, ecc.), quelle femminili fuseruole, anelli, rocchetti, bracciale in bronzo; quelle maschili spada a scimitarra, arco in ferro, punta di giavellotto. [23]Pangea Soc. Coop. Falconara, Documentazione fotografica di una necropoli picena (Necropoli Ricci, via San Pietro, Monte Roberto), Gennaio 2002, Archivio Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, Ancona.
5. NUOVE ACQUISIZIONI
Già si è accennato alla necropoli di via S. Antonio scoperta nel 1982; in anni più recenti altre acquisizioni si sono aggiunte alle non poche e significative Testimonianze dell’intera zona che va appunto da via S. Antonio a S. Apollinare.A breve distanza da via S. Antonio nei pressi della chiesetta sconsacrata di S. Settimio nel 1990 a seguito dell’ampliamento della cava di ghiaia, saggi di scavo hanno messo in luce strutture di età romana con resti evidenti di concotto, non bene identificabili, ma forse riconducibili ad attività artigianali. Nella stessa area nel 1999 vennero in luce in due tornate successive, prima una struttura muraria quadrangolare di m 3,40 di lato, parzialmente conservata oltre i resti di una cisterna riutilizzata come scarico di materiale fittile difettato • scarti di fornace) e quindi i resti di un forno per manufatti ceramici e un’area di fuoco caratterizzata da una vasta area di concotto.
Tra il 1999 e il 2003 sono stati messi in luce altri tre siti (due vicinissimi all area dell’abbazia di S. Apollinare e uno un po’più a NE di essa, nelle vicinanze della SS 76) identificati come forni per materiali ceramici.
I materiali ceramici rinvenuti, per lo più frammentati (anche frammenti di ceramica africana e un esemplare di imitazione di lucerna africana), si riferiscono a produzione locale e a vasellame di importazione. La datazione va dal I al V- VI secolo d. C.
La decorazione di tutti i frammenti di S. Apollinare è caratterizzata da una vernice bruno rossastra, piuttosto fluida, stesa a pennellate irregolari con motivi vagamente geometrici e con sgocciolature lasciate scivolare lungo il corpo del vaso.Tutto il materiale rinvenuto è attualmente (2011) depositato presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ancona e presso la sede del Comune di Monte Roberto, solo in piccola parte è stato schedato. Tutta l’area comunque risulta interessata da insediamenti, che nel corso dell’età imperale hanno avuto funzioni diversificate e che ulteriori studi potrebbero meglio precisare.
L’attività di una o più fornaci potrebbe inoltre essere giustificata dal facile approvvigionamento di acqua, per la presenza in zona di torrenti e piccoli fossi afferenti all’Esino, e di argilla, presente nella naturale costituzione geologica del terreno.[24]Milena Mancini – Gaia Pignocchi, Nuove acquisizioni su alcuni insediamenti rurali tardo antichi nella vallate dell’Esino e del Musone (Osimo, Santa Maria Nuova, Monte Roberto), in “Studi Maceratesi”, n. 40, 2006, pp. 244-249, il testo è stato sunteggiato e ripreso in gran parte integralmente. Nel mese di aprile 2007, nell’area immediatamente vicina a quella dove è stata realizzata la nuova Scuola dell’infanzia (2008-2011), è venuta alla luce una tomba d’epoca romana (larga 90 cm e lunga 200) alla “cappuccina”, con base le classiche tegole romane (affiancate e rovesciate) e le pareti in pietra arenaria e frammenti di tegola legate con malta: è stata data del I-II secolo d. C. All’interno è stato trovato un tubo in piombo del diametro esterno di 6 centimetri adagiato sullo scheletro. Un’estremità del tubo poggiava sulla bocca del defunto, altra sporgeva dal tettino della tomba, in questa i parenti introducevano alimenti e bevande utili, si credeva, al defunto nel suo viaggio verso gli dèi. Una rarità, come hanno detto gli esperti: nelle Marche solo altre due tombe sono state rinvenute con queste caratteristiche. Nei pressi della tomba è stato individuato un manufatto d’epoca picena risalente con tutta probabilità al V secolo a. C. Il tutto deve essere ancora schedato e studiato, non sono da escludersi sorprese per una lettura più completa ed esauriente di tutto territorio di 2000-2500 anni fa.
Già si è accennato alla necropoli di via S. Antonio scoperta nel 1982; in tempi più recenti altre acquisizioni si sono aggiunte alle non poche e significative testimonianze dell’intera zona che va appunto da via S. Antonio a S. Apollinare. A breve distanza da via S. Antonio nei pressi della chiesetta sconsacrata di S. Settimio nel 1990 a seguito dell’ampliamento della cava di ghiaia, saggi di scavo hanno messo in luce strutture di età romana con resti evidenti di concotto, non bene identificabili, ma forse riconducibili ad attività artigianali. Nella stessa area nel 1999 vennero in luce in due tornate successive, prima una struttura muraria quadrangolare di m 3,40 dilato, parzialmente conservata oltre i resti di una cisterna riutilizzata come scarico di materiale fittile difettato (scarti di fornace) e quindi i resti di un forno per manufatti ceramici e un’area di fuoco caratterizzata da una vasta area di concotto. Tra il 1999 e il 2003 sono stati messi in luce altri tre siti (due vicinissimi all’area dell’abbazia di S. Apollinare e uno un po’ più a NE di essa, nelle vicinanze della SS 76) identificati come forni per materiali ceramici. I materiali ceramici rinvenuti, per lo più frammentati ,(anche frammenti di ceramica africana e un esemplare di imitazione di lucerna africana), si riferiscono a produzione locale e a vasellame di importazione. La datazione va dal I al V-VI secolo d. C. La decorazione di tutti i frammenti di S. Apollinare è caratterizzata da una vernice bruno rossastra, piuttosto fluida, stesa a pennellate irregolari con motivi vagamente geometrici e con sgocciolature lasciate scivolare lungo il corpo del vaso. Tutto il materiale rinvenuto è attualmente (2011) depositato presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ancona e presso la sede del Comune di Monte Roberto, solo in piccola parte è stato schedato. Tutta l’area comunque risulta interessata da insediamenti, che nel corso dell’età imperale hanno avuto funzioni diversificate e che ulteriori studi potrebbero meglio precisare. L’attività di una o più fornaci potrebbe inoltre essere giustificata dal facile approvvigionamento di acqua, per la presenza in zona di torrenti e piccoli fossi afferenti all’Esino, e di argilla, presente nella naturale costituzione geologica del terreno. 24Milena Mancini — Gaia Pignocchi, Nuove acquisizioni su alcuni insediamenti rurali tardo antichi nella vallate dell’Esino e del Musone (Osimo, Santa Maria Nuova, Monte Roberto), in “Studi Maceratesi”, n. 40, 2006, pp. 244-249, il testo è stato sunteggiato e ripreso in gran parte integralmente. Nel mese di aprile 2007, nell’area immediatamente vicina a quella dove è stata realizzata la nuova Scuola dell’Infanzia (2008-2011), è venuta alla luce una tomba d’epoca romana (larga 90 cm e lunga 200) alla “cappuccina”, con base le classiche tegole romane (affiancate e rovesciate) e le pareti in pietra arenaria e frammenti di tegola legate con malta: è stata data del I-II secolo d. C. All’interno è stato trovato un tubo in piombo del diametro esterno di 6 centimetri adagiato sullo scheletro. Un’estremità del tubo poggiava sulla bocca del defunto, altra sporgeva dal tettino della tomba, in questa i parenti introducevano alimenti e bevande utili, si credeva, al defunto nel suo viaggio verso gli dèi. Una rarità, come hanno detto gli esperti: nelle Marche solo altre due tombe sono state rinvenute con queste caratteristiche. Nei pressi della tomba è stato individuato un manufatto d’epoca picena risalente con tutta probabilità al V secolo a. C. Il tutto deve essere ancora schedato e studiato, non sono da escludersi sorprese per una lettura più completa ed esauriente di tutto territorio di 2000-2500 anni fa.
In territorio di Castelbellino, a Pianello, in contrada Molino, a poco più di un Km a nord-ovest di Planina, non lontano dalla sponda destra del fiume Esino, nei primi decenni di questa secolo, è stata scoperta una necropoli picena. Inizialmente i rinvenimenti furono fortuiti con la conseguente dispersione dei materiali, poi in campagne di scavi del 1912, 1913 e 1918-1919 furono scoperte numerose tombe databili tra il 700 e il 500 a.C. ed i reperti attentamente studiati.
“Tra i materiali recuperati, accanto a quelli di produzione locale, si distinguono numerosi e pregevoli oggetti esotici provenienti da paesi del Mediterraneo orientale, dalla Grecia e dall’Etruria”. 25AA.VV., La ceramica attica figurata nelle Marche, Ancona 1991, p. 110. In particolare ci sono avori “di stile spesso ancora orientalizzante, tutti o quasi di importazione”, probabilmente dalI’Etruria, “d’ispirazione fenicia e nordsiriana, sia essa o no mediata dalle botteghe degli incisori etruschi”. 26Bisi Anna Maria, Componenti siro-fenicie negli avori piceni, in La Civiltà Picena – Studi in onore di Giovanni Annibaldi, Maroni, Ripatransone (AP) 1992, pp. 128-139. “La continuità e la varietà di tali importazioni attestano l’importanza della via di penetrazione offerta dalla valle del fiume Esino”. Alcune tombe di fine VI sec. e del V sec. a.C. hanno restituito “numerosi esemplari in ceramica attica figurata e bronzi di produzione etrusca, greca e/o megalogreca. Dopo Numana, Pianello di Castelbellino è l’unico centro piceno che ha restituito il maggior numero di vasi attici a figure rosse, alcuni dei quali di grandi dimensioni […]. Da Pianello proviene inoltre un cratere a figure nere […]. che deve essere considerato come una delle più antiche importazioni attiche nel Piceno”. 27AA.VV., La ceramica attica… , cit., pp. 20-25 e 110-115. La Civiltà Picena… , cit., p. 288. Questi rinvenimenti nella valle dell’Esino, compresi quelli avvenuti a S. Maria di Monsano, a Moscano, a Attiggio di Fabriano e a Matelica, insieme a quelli analoghi fatti nelle altre vallate appenniniche delle Marche (Chienti, Potenza, Musone, Misa, Cesano, Metauro, Foglia, Conca), testimoniano una fiorente penetrazione commerciale che, risalendo le stesse vallate e superando i passi appenninici, arrivava alle valli degli affluenti del Tevere. Tra l’Etruria e la costa adriatica vie naturali di questo commercio erano costituite dall’Esino e dal Sentino, mentre Numana e Ancona sostenevano “non solo il ruolo di centro mercantile aperto verso le aree periferiche del territorio piceno, ma anche di “terminale di usate vie di comunicazione con il versante tirrenico” e quindi di base dei traffici tra Greci ed Etruschi”. 28Luni Mario, Ceramica attica nelle Marche settentrionali e direttrici commerciali, in La Civiltà Picena…, cit., pp.331-363. Edvige Percossi Serenelli, Le vie di penetrazione commerciale nel Piceno in età proto-storica. Nota Preliminare, in Picus, I, 1981, pp. 135-144. Giovanna Maria Fabrini, La ceramica attica figurata nelle Marche. Annotazioni in margine alla mostra anconetana, in Picus, II, 1982, pp.103-117. Tutti i reperti rinvenuti in questa contrada, o per lo meno quelli rimasti dopo i danneggiamenti subiti durante il secondo conflitto mondiale, sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona. Un luogo di forte interesse archeologico, poco più in alto della necropoli di contrada Molino, è individuabile in via Mattonato, l’attuale scorciatoia per Castelbellino, un tempo l’unica strada per raggiungere il paese. Anche se in tempi recenti sono venuti alla luce frammenti ceramici di decorazioni in rilievo o frammenti notevoli di pavimenti in mosaico, ben più consistenti sono stati i ritrovamenti nella seconda metà del Settecento. Testimoni ed artefici di alcuni scavi furono sia il Menicucci che il Lancellotti che sul terreno di proprietà della famiglia Berarducci, zii materni dello stesso Lancellotti, ebbero modo di riportare alla luce importanti testimonianze. Al Menicucci, che ne fece precisa relazione, i ruderi emersi sembrarono “vestigj di un’antichissimo Tempio”, individuati “anche vestigj di quattro stanze […] e tutte […] hanno il pavimento di belli mosaici. Vi sono anche trovati dei basamenti di colonne intonacati di rosso”. Il tempio, con l’entrata a rivolta a nord, secondo lo stesso Menicucci, doveva essere dedicato alla dea Iside, ne poteva far fede “un bellissimo lavoro di bronzo a tutto rilievo” che secondo il Lancellotti che lo aveva trovato, rappresentava appunto un sacrifico alla dea. Questo reperto non visto dal Menicucci, era stato donato qualche anno prima dai Berarducci ad un antiquario francese, il Menicucci tuttavia lasciò una dettagliata pianta e descrizione degli scavi e dei ruderi in via Mattonato. 29Colucci G, Antichità Picene, vol. XV, Fermo 1792, p. 227. La relazione del Menicucci è stata studiata da Bresciano Tesei, Testimonianze e vestigia di un antichissimo tempio in contrada Mattonato-di Castelbellino, 1987, pp. 7, ds. La stessa relazione con il disegno del sito, è stata integralmente pubblicata in “Quaderni Storici Esini”, II-2011, p. 120. L’erudito sacerdote di Massaccio, Menicucci, cultore di storia locale e di archeologia di cui scriveva o ragionava frequentando assiduamente archivi e verificando, quando possibile, di persona luoghi e reperti, annotava con cura anche notizie di fatti quotidiani e ritrovamenti di cose antiche. Per quanto riguarda Monte Roberto, scrive nel febbraio del 1774: “Si à veridica relazione, aver un contadino ne’ mesi passati trovato una cassetta d’argento con entro un vitello d’oro massiccio nella sua possessione vicino a Monte Roberto il vitello è di grossezza come un coniglio e pesa circa libre novanta. Ne à dato relazione alla Camera, e l’à soddisfatta circa quello che dovea, un cornetto del medesimo l’à venduto, insieme con la cassetta, l’altro ancora ritiene in casa”. 30Menicucci Francesco, Sylva Hystorica Massacciensis (1773-1805), Cupramontana, Archivio Parrocchiale S. Leonardo, Fondo Menicucci, p. 4. La riproduzione e la trascrizione del manoscritto, a cura di Riccardo Ceccarelli, sono state pubblicate da Arnaldo Forni Editore di Bologna per la collana “La Pieve” (N. 9) di Cupramontana nel 1999. Il testo trascritto è a p. 15. Il Menicucci questa volta non aggiunge altro: non vide direttamente il reperto, né riuscì ad indicare una data o un periodo presumibili del reperto stesso, si fidò di quanto gli veniva riferito (“si à veridica relazione”), scrive comunque che furono informate del ritrovamento le competenti autorità amministrative e fiscali (la Camera Apostolica) pagando quanto prescritto. Storia vera o fantasia raccolta dallo storico di Massaccio? Alcuni elementi, la data del ritrovamento, la notizia datane alle autorità, la tassa pagata, la parte venduta, la fanno indicare come un racconto di un fatto corrispondente al vero; altri invece come il vitello d’oro che avrebbe dovuto pesare almeno 32 Kg (salvo errori del Menicucci nell’indicare le 90 libbre) configurano il racconto a quello di un “tesoro” attinente alla fantasia popolare, non nuova, allora e come sempre, a “tesori ritrovati”. Autentico o falso che sia, il fatto, o meglio, questa notizia lasciataci dal Menicucci, ci fa intravedere come il territorio di Monte Roberto abbia restituito di volta in volta ‘oggetti o tracce di una antica ed operosa presenza umana.