Categoria: 3 – ALTO MEDIOEVO

  • 67 3.1 BIZANTINI E LONGOBARDI

    67 3.1 BIZANTINI E LONGOBARDI

    rpArrivano i barbari e con loro distruzione e morti.

    Le memorie archeologiche del nostro territorio, cui abbiamo fatto cenno, hanno avuto certamente un punto di riferimento in un agglomerato più importante, in Planina, le cui tracce però sembrerebbero non dare sufficienti garanzie agli studiosi. Alcune delle ragioni della mancanza di testimonianze definitive sono già state indicate.
    Planina, al pari della vicina Cupra Montana e degli altri centri abitati come Ostra nella valle del Misa, Attidium e Tuficum nell’alta valle dell’Esino, dopo aver risentito in maniera inevitabile della crisi politica, economica e sociale dell’Impero Romano, subì l’urto delle invasioni barbariche con pesanti distruzioni e relativa dispersione degli abitanti. I Visigoti di Alarico che saccheggiarono Roma nel 410, gli Ostrogoti di Odoacre, i Goti di Teodorico, ma soprattutto la guerra di riconquista bizantina, la guerra greco-gotica (535-553), con le sue operazioni militari nella nostra regione e nelle nostre zone, diedero il colpo di grazia a questi agglomerati urbani. La distruzione subita fu talmente grande che nei decenni e nei secoli successivi di’ alcune di queste città e di molte altre in tutto il Piceno si persero la memoria e il nome stesso.
    La popolazione si ridusse oltremodo di numero, moltissimi furono i morti per fame, 50.000 in tutto il Piceno secondo Procopio di Cesarea, lo storico della guerra gotica, una vera desolazione, stando a queste cronache. Tutta la valle dell’Esino, ricca da secoli di coltivazioni agricole, ben presto divenne paludosa lungo il corso del fiume e coperta di fitte boscaglie che dalla valle arrivavano in cima alle colline. 1Urieli Costantino, Jesi e il suo Contado, torno I, vol. I, Jesi 1988, pp. 89-94.
    Dopo la definitiva sconfitta dei Goti nel 553, il ritorno dei Bizantini, eredi dell’Impero Romano, poteva segnare un periodo di pace e di ripresa, il tutto invece fu compromesso da una esorbitante pressione fiscale da parte dei vincitori ma soprattutto dall’invasione dei Longobardi iniziata nel 569. Essi già conoscevano l’Italia per essere stati presenti nell’esercito del generale bizantino Narsete nell’ultima campagna contro i Goti. In pochi anni conquistarono quasi tutta la penisola: rimasero a Bisanzio le isole, la Calabria, la Puglia, l’Esarcato di Ravenna e il Ducato di Roma.
    I nuovi invasori causarono un’ulteriore e pesante devastazione; solo in seguito, il loro stabile insediamento significò l’inizio di una lenta risalita da un baratro economico e sociale.
    Il nostro territorio era stato occupato dai Longobardi provenienti dalla dorsale appenninica umbro-marchigiana; organizzatisi poi nel Ducato di Spoleto e nella Marca di Camerino, si insediarono stabilmente sulle colline della valle: Cupramontana, Staffolo e con tutta probabilità anche Rosora erano gli avamposti della loro presenza. Amministrativamente il caposaldo longobardo era il Gastaldato di Castel Petroso, cioè l’attuale Pierosara di Genga. Da queste zone tuttavia non mancavano di fare incursioni in direzione della costa adriatica insediandosi dalla seconda metà del secolo anche a Jesi, il torrente Cesola (zona Staffolo-San Paolo) e la dorsale tra Cupramontana e Pianello Vallesina costituirono per un certo tempo, in questo tratto, il confine tra il territorio degli stessi Longobardi e quello bizantino della Pentapoli cui apparteneva Jesi.
    Attestano la loro presenza e la particolare zona di confine specifici toponimi di origine longobarda: “staffal”, “palo di confine”, da cui Staffolo; “sculca” (da skulk=vedetta), “pattuglia di esplorazione, posto di vedetta”, da cui il fundus Sculcule (attuali contrade Alvareto, Forcone nel comune di Cupramontana e contrada Rango e Rovegliano in comune di Monte Roberto). Questa presenza è confermata anche da una “curtis” ducale di sicura origine longobarda, situata in contrada Rovegliano, e donata nel 907 dall’ex imperatrice Ageltrude al monastero di S. Eutizio in Campli presso Norcia. 2Ivi, pp. 95-108. Ceccarelli Riccardo, Le strade raccontano, cit., P. 193. Cherubini Alvise, Presenza longobarda nel territorio jesino in Istituzioni e società nell’Alto Medioevo marchigiano (Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le Marche, 86-1981), Ancona 1983, vol. II, pp. 515-550. La “curtis” è un’unita territoriale costituita da un possedimento fondiario e dall’insieme di edifici e di persone che vi erano legati; quella donata da Ageltrude in contrada Rovegliano aveva un oratorio dedicato a S.Pietro, era ricco di case, terre e vigneti; cfr. Cherubini A., Ivi, p. 534 e AA.VV., L’Abbazia di S. Eutizio nella Valle Castoriana presso Norcia, Perugia 1993, p.27.
    Analoga “curtis” era ubicata tra Monte Roberto e Cupramontana e testimoniata dai toponimi “fundus S. Silvestri de Curtis”, “ecclesia S. Silvestris de Curtis” e “fundus de Curtis”. 3Cherubini A., op. cit., p. 535.
    Un elemento ancora vivo di questa antica presenza è il dialetto che si parla a destra del fiume Esino, a Cupramontana e Apiro in particolare, senza tralasciare altri paesi come Monte Roberto, e che “richiama il linguaggio meridionale della regione marchigiana”. 4Urieli C., op. cit., p. 105. Belardinelli Pierina, I dialetti di Cupra Montana e Apiro, tesi di laurea, Università degli Studi di Macerata, anno accademico 1972-73. Perticaroli Mauro, Vocabolario del dialetto di Cupra Montana, Cupra Montana 2003. Anche i Bizantini, attraverso il dominio esarcale di Ravenna, hanno lasciato un’eco della loro presenza: la dedicazione dell’abbazia, anteriore al Mille, sorta nei pressi delle rovine di Planina, al santo vescovo di Ravenna, Apollinare, ne è un segno. 5Cherubini A., Arte medievale nella Vallesina, Jesi 1977, p. 166. Nuova edizione, Jesi 2001, pp. 191-195. Urieli C., op. cit, pp. 273-275.
    Il titolo di due altre chiese, seppure più tardive, dedicate a S. Andrea, santo particolarmente venerato dalla città di Ravenna fin dal tempo di Teodorico, 6Encicopledia Cattolica, Città del Vaticano 1948, vol. I, 1185. una ulteriore conferma di questa eco. Una era situata nella valle del Massaccio, tra Cupramontana e Staffolo, in contrada Brecciole nella zona dove ha origine il torrente Cesola; il primo documento che ne parla è del 1219, il titolo “Sancti Andree vecli” (S. Andrea Vecchio) fa riferimento ad una costruzione ben più antica. 7Ceccarelli R., op. cit., pp. 225-226.
    L’altra era nella valle del Fossato, tra Cupramontana, Maiolati e Monte Roberto; ricordata nel 1290, sorgeva in territorio di Maiolati dove ancora rimangono un’edicola ed una via dedicata al santo. 8Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi difesi, p. 67. Questa chiesa non era lontana da quella di S. Martino, tra il territorio di Maiolati e di Monte Roberto, anch’essa ricordata nel 1290 9Ibidem. e dedicata ad un santo grandemente venerato dai Longobardi.
    Bizantini e Longobardi hanno lasciato orme che si intrecciano e si sovrappongono, come nel caso del già ricordato “fundus sculcule” (“posto di vedetta”), l’ampia dorsale tra Cupramontana e Pianello nella quale, in contrada Morella, troviamo il toponimo Filetto o Filello che viene spiegato dal verbo greco “filàzo”, “faccio la guardia”, “tengo un presidio”, oppure da “filé”,”tribù, sezione dell’esercito bizantino”, ambedue i toponimi concordano nell’indicare il luogo quale zona cuscinetto o di confine tra il territorio bizantino e longobardo. 10Ceccarelli R. op.cit., pp. 206-207.
    Anche il culto di S. Giorgio, cui erano dedicati il monastero e la chiesa situati nell’omonima via lungo il torrente Fossato tra il territorio di Castelbellino e Monte Roberto, rimanda ad una certa compresenza “culturale” bizantino-longobarda: S. Giorgio infatti è santo protettore dei Longobardi convertiti al cattolicesimo e venerato particolarmente anche dai Bizantini. 11Baldetti Ettore, Per una nuova ipotesi sulla confermazione spaziate della Pentapoli, in Istituzioni e…società, cit., vol. II, p. 800.
    Furono i Longobardi comunque ad integrarsi progressivamente con la popolazione locale e nonostante la sconfitta subita dai Franchi nel 773 che instaurarono il loro potere politico militare, mentre giuridicamente prendeva corpo lo Stato della Chiesa, le consuetudini e la legislazione longobarda continuarono per tre/quattro secoli. 12Vaccari Pietro, Il particolarismo nell’Alto Medioevo, in Questioni di storia medievale, a cura Ettore Rota, Marzorati, Milano s.d., p. 33.
    La donazione di Tebaldo all’Eremo di Camaldoli e al Monastero di S. Giacomo delle Mandriole, in territorio di Cupramontana venne fatta, nel 1137, “secundum nostra lege Langobardorum”. 13Menicucci Francesco, Memorie… Massaccio…, pp. 15-35.

  • 70 3.2 I MONACI

    70 3.2 I MONACI

    rpDopo i barbari arrivano i monaci.

    Ormai è generalmente riconosciuto che “il padre, il fondatore, il restauratore dell’Esio moderno fu S. Benedetto col suo provvidenziale istituto”. 14Annibaldi Giovanni, San Benedetto e l’Esio, Jesi 1880, p. 18. La tesi, enunciata oltre un secolo fa e ampiamente motivata, è la chiave di lettura per una rinnovata comprensione della nostra storia locale, ulteriori approfondimenti ne hanno confermato la piena validità e l’hanno resa maggiormente veritiera se si aggiungono alla determinante presenza dei benedettini altri fattori d’ordine economico e sociale. 15Urieli C., La Chiesa difesi, Jesi 1993, p. 39.
    Se per approfondire e documentare questa presenza ed il relativo ruolo dei monaci non ci mancano numerosi elementi probanti dopo il Mille, non è altrettanto vero per i secoli precedenti. “Sostanzialmente ci è ignoto il periodo della prima diffusione dei benedettini nella Vallesina”. 16Urieli C., Presenza benedettina nella diocesi di Jesi, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, p. 32 pp. 91-106. Urieli C., Jesi e il suo Contado, cit., vol. I, tomo I, p. 126.
    Essa avvenne certamente prima del Mille se subito dopo troviamo una presenza già ben consolidata e strutturata. Ci mancano però finora documenti diretti, ma esaminando indicazioni sufficientemente fondate, non ci è difficile avvicinarsi alla verità storica.
    Che la vita religiosa della Vallesina fosse in questi secoli ben sviluppata lo testimoniano la presenza di vescovi in Jesi, Onesto nel 680, Pietro nel 745, Giovanni nel 826, Anastasio nel 877, Eberardo nel 967. Per i monaci “non è improbabile che, dopo la conversione dei Longobardi [primo decennio del 600] e quando vari monasteri incominciarono a sorgere nella nostra Regione, qualche monastero sia sorto, nella Vallesina, come ad es. quello di San Savino [a Jesi], il cui agionimo richiama appunto la religiosità longobarda”. 17Cherubini A., Vallesina cristiana nei secoli, Jesi 1983, p. 11. Urieli C., La Chiesa di Jesi, cit., p. 40. Ed anche le chiese o i monasteri, documentati nel sec. XII/XIII, e dedicati a santi cari alla devozione dei Longobardi come San Giorgio, San Martino, San Michele, San Giovanni ecc., potrebbero avere origine in questo periodo.
    Da tener presente anche l’eventualità che alcuni monaci provenienti da Farfa, in provincia di Rieti, siano giunti nelle nostre zone verso la fine dell’ 800 quando il grande monastero fu abbandonato sotto l’incalzare dei saraceni ed i monaci sciamarono nelle loro proprietà anche nelle Marche. 18Delio Pacini, Possessi e chiese farfensi nelle valli picene del Tenna e dellAso (sec. VIII-XII), in Istituzioni e Società, cit., vol. I, pp. 333-425. Angelo A. Bittarelli, Longobardi e benedettini nelle valli di Pieve Torina e Monte Cavallo, in Ivi, vol. I, pp. 569-586.
    Il Grazzi ipotizza che “soltanto con la Donatio Pipini del 756 la Santa Sede instaura in questa sede jesina di confine e in tutta la ricca vallata del fiume omonimo una politica di educazione romana: vi immette i monaci benedettini che, bonificandola per intero, la radicano alla Santa Sede con stazioni di onomastica papale, sia che fossero abazie sia che fossero pievi o cappelle”. 19Grazzi Luigi„Di alcune antichità difesi e della sua valle con la discussione sui primi vescovi difesi, Rom, Italstampa 1955 p. V. A questa onomastica si riconducono in territorio di Monte Roberto la chiesa di S.Silvestro de curtis, il monastero di S. Giovanni di Antignano e la chiesa di S.Pietro di Rovegliano; non lontana poi, presso le rovine di Cupra Montana, c’era la chiesa di S. Eleuterio anch’essa di onomastica papale.
    La chiesa di S. Antonio di Antignano che sorgeva nelle vicinanze di quella di S. Apollinare e probabilmente succursale del monastero di S. Giovanni di Antignano, era dedicata al “padre e modello degli anacoreti” (251-356) e della vita eremitica che aveva formato in S. Benedetto il suo primitivo e ardente desiderio. Per questa vita S. Benedetto conservò sempre un’alta stima ed un profondo amore additandola nella sua Regola, anche se scritta per monaci che vivevano in comune, come la vetta dell’ascesi monastica. 20Leccisotti Tommaso in Enciclopedia Cattolica, vol. II, 1252. Tenendo presenti queste premesse non siamo lontani dalla verità se ipotizziamo anche per la chiesa di S. Antonio un’origine benedettina volendo ricordare in un’area ricca di boschi e di selve un modello di vita ascetica e solitaria.
    L’abbazia di S. Apollinare infine può suggerire l’ipotesi della presenza di monaci, probabilmente sin dal sec. VIII-IX, inviati dalla chiesa di Ravenna che aveva larghi possedimenti nella Vallesina ereditati dal dominio bizantino. 21Urieli C., La Chiesa difesi, cit., pp. 34-35, 40. Urieli C., Jesi e il suo Contado, cit., vol. I, tomo I, p. 127. Urieli C., Presenza benedettina nella diocesi di Jest, cit., p. 101.
    Nei primi decenni successivi al Mille, “i Benedettini cedettero gran parte delle loro posizioni in mano ai Camaldolesi che fondarono altre case ancor più numerose nella Vallesina specialmente in territorio cuprense. Altre ancora ne seguirono successivamente di derivazione da Fonte Avellana dalla quale rimasero, dipendenti”. 22Urieli C., La Chiesa difesi, cit., p. 40.

  • 71 3.3 LE PIEVI

    71 3.3 LE PIEVI

    Il termine “plebs” (pieve) dal sec. V-VI incomincia ad indicare una “comunità di fedeli” (plebe), più tardi, verso la metà del sec. VII, significa anche “il territorio ecclesiastico” e poi lo stesso edificio di culto.
    Le pievi si configurano come una struttura di circoscrizioni territoriali rurali ecclesiastiche che avevano nella chiesa plebana, quella più importante, il luogo del battesimo, presso la quale abitavano i sacerdoti per la cura d’anime e dalla quale dipendevano chiese minori. Esse hanno costituito l’anello di congiunzione tra la vita del mondo tardoantico (tramonto dell’età romana) e quella del mondo altomedioevale ed hanno rappresentato un punto di riferimento per la vita non solo religiosa delle popolazioni rurali durante tutto il Medioevo.
    Nella diocesi di Jesi c’erano alla fine del sec. XII sette pievi maggiori ed una minore. Le pievi maggiori: Pieve di Monsano, Pieve di S. Marcello, Pieve di Montecarotto, Pieve di Massaccio (Cupramontana), Pieve di Versiano (S.Paolo di Jesi), Pieve di Morro Panicale (Castelbellino), Pieve di S. Maria in Serra di Villa delle Ripe (Santa Maria Nuova); pieve minore era quella di S.Maria di Alvareto in territorio di Massaccio.
    Il territorio di Monte Roberto faceva parte della Pieve di Morro Panicale (Castelbellino) chiamata Pieve di S. Biagio e S. Lucia di Morro Panicale (Plebs sancti Blasii et sancte Lucie de Murro Panicalie) che comprendeva all’incirca, oltre al territorio di Monte Roberto, anche quello degli attuali comuni di Castelbellino e di Maiolati, la pieve era quindi per ampiezza la seconda della diocesi.
    La chiesa plebale di S. Lucia sorgeva nella contrada, in territorio di Castelbellino, anche oggi chiamata S. Lucia, nel pendio che digrada verso l’Esino, alla convergenza degli attuali territorio comunali di Castelbellino, Monte Roberto e Maiolati Spontini.
    L’attuale territotio di Castelbellino contava, oltre alla plebale, cinque chiese, undici quello di Maiolati e quattro quello di Monte Roberto. 23Per una approfondita conoscenza del problema delle pievi nel territorio della Vallesina cfr. Cherubini A., Il sistema plebano nella Vallesina, in Nelle Marche Centrali, cit., vol. I, pp. 389-391; Cherubini A., Le antiche pievi della Diocesi di Jesi, Fano 1982, pp. 55-67; Urieli C., La Chiesa di Jesi, cit., pp. 42-45. I testi suddetti sono stati citati pressoché alla lettera. Di queste ultime, singolarmente ci occuperemo più avanti.