Categoria: 7 – CONDIZIONI DI VITA ED ECONOMICHE

  • 189 7.1 PROPRIETA’ E POVERTA’

    189 7.1 PROPRIETA’ E POVERTA’

    1. PROPRIETÀ E  POVERTÀ

    L’unico reddito per la quasi totalità delle famiglie è stato, da sempre, la coltivazione dei campi. L’economia, spesso di sola sopravvivenza, era legata esclusivamente all’agricoltura e ai proprietari terrieri alle cui dipendenze si muovevano    coloni e braccianti agricoli. Come   già abbiamo    accennato, alla metà del   Seicento, l’86,3% di tutta la proprietà privata del territorio di Monte Roberto   era nelle mani di solo venti famiglie sia locali che forestiere. Alla fine del Settecento la proprietà privata forestiera incide per 1’84,95% sull’intera proprietà privata totale, il resto 15% circa è goduta da 42 proprietari locali di cui solo 20 però ne avevano l’88,6%, da aggiungere poi le proprietà del Capitolo della Cattedrale di Jesi e degli ordini religiosi. Monopolizzavano gran parte della proprietà alcune famiglie nobili di Jesi, i Ghislieri, gli Honorati, i Guglielmi;   proprietari locali erano gli Amatori, i Capitelli, i Paziani, i Chiatti, gli Antonelli, i Tesei, i Salvati, dei quali, quest’ultimi, Tesei e Salvati, accrebbero nel corso dell’Ottocento    notevolmente il loro patrimonio fondiario. Concentrazione   delle proprietà   e conseguente subordinazione      economica della   popolazione nella sua quasi   interezza: popolazione la cui   sussistenza dipendeva    dall’andamento dei raccolti agricoli. Anni di grande carestia furono ad esempio il 1643, il 1644, il 1648, il 1649, il 1677. Veramente    “penurioso” il 1643: “il popolo patisce di vitto”, si prelevano dalle due alle quattro coppe di grano dall’Abbondanza    e si danno alle famiglie più povere a giudizio degli Abbondanzieri; [1] ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 53r, 15 marzo 1643.   l’anno dopo si danno quattro   coppe di grano per famiglia. [2] Ivi, c. 78r, 23 marzo 1644. Rubbio = 280,64 litri. Il rubbio si divideva in 8 coppe e una coppa in 4 provende, la provenda in 8 scodelle   Altrettanto “penurioso” il 1648: il Comune fa un mutuo di 550 scudi e insieme ai 60 avanzati dal bilancio del 1647 compra il grano a minor prezzo possibile per “assicurare vitto a questo popolo”; [3] Ivi, cc. 152v, 153r, 16 luglio 1648. per la semina viene dato il grano dai Magazzini dell’Abbondanza ai coloni, ma   solo a quelli che abitano nel territorio di Monte Roberto, questi poi lo   dovevano restituire l’anno dopo. [4] Ivi, c. 160r, 18 ottobre 1648; c. 164r, 8 novembre 1648.   Il mutuo acceso   dal Comune   tuttavia non fu sufficiente per acquistare il grano necessario, si dovette così vendere legname   della Selva della Comunità   per   acquistare altro grano. [5] Ivi, c. 161,28 ottobre 1648 Non fu facile arrivare al raccolto del 1649 la “necessità di vitto del popolo” continuava e per le feste di Pasqua si impiegano altri 100 scudi per provvederlo ai più poveri, la situazione era drammatica, il popolo si ritrovava “in grandissima calamità e miseria di vitto”. [6] lvi, c.168r, 6 febbraio 1649; cc.170v, 171r, 21 marzo 1649; c.173r, 8 aprile 1649.   Nuovo cattivo raccolto di grano nel 1677: molti contadini non hanno di che seminare, interviene la riserva dell’Abbondanza, si vende come già fatto quasi trent’anni prima, la legna della Selva della comunità   per comprare grano per il fornaio. [7] ASCMR, Consigli (1676-1698), cc.12v,13r, 17 ottobre 1677.   Il grano costituiva la maggiore risorsa quando ce n’era a sufficienza per le necessità della comunità e, se avanzava, si   vendeva sia a Jesi (in gran parte) che a Fabriano. Su di esso si basava esclusivamente l’economia, una cattiva stagione o il flagello della grandine creava situazioni di disperazione per la gente della campagna.

    La tempesta di grandine verificatasi il 5 giugno 1733 nelle pertinenze di Monte   Roberto e dei paesi vicini distrusse il raccolto del grano, le viti e altre colture: “li poveri contadini quasi ridotti alla disperazione per l’accidente occorso [della grandine] come per le cattive raccolte avute negli anni scorsi vogliono lasciare incolte le nostre terre”. Il Comune non ha alcuna possibilità di fornire sementi e rivolge   una supplica al Papa per aver qualche sussidio. [8] ASCMR.  Consigli (1711-1735), cc. 261r, 262r, 11 giugno 1733.   Quando invece i raccolti erano buoni come ad es. nel 1783 e nel 1784, [9] ASCMR, Consigli (1780-1793), cc.43v, 55v.   se ne avvantaggiavano   proprietari e commercianti favorendo una intensa circolazione monetaria ed anche i contadini traevano un po’ di respiro, la loro condizione però era sempre precaria legata com’era agli eventi metereologici e al duro lavoro della terra che avevano in conduzione. Il padrone era una figura “assoluta” gli si dovevano oltre la metà del grano e dell’uva, due terzi dell’olio, inoltre gli erano dovute le periodiche regalie di capponi, uova, verdure, prestazioni domiciliari ecc.; le sementi erano totalmente a carico del contadino: spesso, per non dire sempre, nei confronti del padrone il contadino era indebitato. Quando    fu introdotta la coltivazione del mais   o granoturco, questo mescolato con ghiande e veccia, sarà il cibo base dei contadini poveri: “mangiano, quella povera gente, pane di   ghiande seccato al forno […] in altri paesi mangiano assai migliore li cani da caccia”, scriveva un osservatore apostolico nel settecento. [10] Anselmi Sergio, Appunti per sulla storia della mezzadria, in li patto arcaico, a cura di Walter Montanari, Ancona 1977, pagine non numerate. Urieli   Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 266-272. Nonostante tutto però avere un po’ di terra da coltivare, magari a mezzadria nelle generali condizioni di povertà, era una certezza; più nera e   drammatica era invece la situazione di chi veniva licenziato da un terreno e non   sapeva dove andare; in uno stato già miserevole la prospettiva per tutta la famiglia era quella di una miseria ancor più triste e di autentica disperazione, come quella di Andrea   Lucarini che   licenziato nell’estate 1809    dal terreno in contrada Rovigliano, “vive, scrive il sindaco Salvati al suo   padrone, in uno stato compassionevole   con la famiglia”. [11] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 231, n. 259, 17 agosto 1809. Più drammatica ancora era la condizione dei “casanolanti”, di coloro cioè che avevano casa in affitto e lavoravano in campagna a giornata, evidentemente un cattivo raccolto o una stagione poco propizia    rendeva la loro situazione al limite della sopravvivenza: i bisogni del mangiare e del riscaldamento in inverno non potevano essere risolti, a questi poveri il Comune   per le feste di Natale distribuiva il consueto sussidio in grano [12] Cfr. ad es. ASCMR, Consigli (1780-1793), c. lv, 17 dicembre 1780.   ed anche in fascine. Al lavoro occasionale o stagionale nei campi, si aggiungeva o si alternava la manovalanza nei lavori per le strade o nell’edilizia: raccogliere e trasportare le pietre dal fiume per selciare le strade e per le costruzioni, trasportare acqua per i cantieri, aiutare i muratori ecc., erano lavori per uomini e per donne, si preferivano però le donne perché venivano pagate di meno, specie in certe stagioni. Nel 1757 la paga per raccogliere ghiaia e pietre dal fiume per accomodare le strade era di 5 baiocchi al giorno per gli uomini e di 4 baiocchi per le donne e questo dal mese di ottobre a marzo   compreso, [13] ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 45v, 22 maggio 1757.   d’estate poi anche le donne ricevettero 5 baiocchi al giorno, elevata dal Consiglio della Comunità “considerandosi che con tale mercede [4 balocchi] non possono viverci nei tempi di estate specialmente [14] Ivi, cc. 47v e 49r, 10 luglio 1757.   Non era facile così affrontare le necessità della quotidiana alimentazione, a soffrirne di più erano i bambini la cui mortalità era molto elevata anche per la scarsità di cibo, oltre che per le malattie che non potevano essere superate talvolta proprio per   mancanza di adeguato sostentamento. Il sale ad esempio, necessario per un sano ed equilibrato sviluppo non sempre si poteva acquistare, i più indigenti allora mancando di denaro usufruivano come altri di Massaccio, Staffolo, Maiolati e S. Paolo, delle “acque salse” di una sorgente lungo il torrente Cesoia tra San Paolo e Massaccio, in contrada Acqua Salata o Follonica; si faceva bollire l’acqua della sorgente particolarmente ricca di sali minerali ricavandone direttamente il sale, una consuetudine questa secolare per le stesse popolazioni ripresa   anche durante le difficoltà dell’ultimo conflitto mondiale. [15] Ceccarelli R., Le strade raccontano, cit., pp. 203-204 Alla    sorgente, è scritto in   rapporto del secondo decennio dell’Ottocento, si recava “la classe più indigente di questa Popolazione, la quale cerca a stento la sua sussistenza, e la salute de’ Bestiami, pecorini e porcini, che per mezzo di queste acque restano preservati da varie loro malattie”. [16] ASCC, Atti 1818, tit. I, lettera del vice-gonfaloniere di San Paolo, Luigi Dominici, del 18 maggio 1818. Un uso alimentare terapeutico per uomini e animali, come ricorda anche una dotta dissertazione sull’argomento del sec. XVIII. [17] Casagrande Giuseppe, Della nuova scoperta e dell’esame dell’acqua subtermale che scaturisce nelle falde del colle di Follonica del contado difesi… Dell’analisi e dell’uso delle medesime      in molte gravissime malattie croniche, ragguaglio…, Jesi, Stamp. Bonelli 1785, pp. 112. Dopo il “secolo dei Lumi”, da noi le condizioni di povertà non cambiano; le nuove imposizioni, trascorsa la prima burrasca giacobina, pesano   gravemente sulla classe più povera: osserva il Consiglio Comunale nella seduta del 2 gennaio 1803: “[…] siamo sempre più gravati [dalle nuove imposizioni] non tanto i possidenti quanto la   povera gente, la quale a stento conduce la sua vita quotidiana. La fame estrema, i generi a sommo   prezzo, scarso il denaro, il cui acquisto in alcune famiglie si rende impossibile, non che difficile. […] Non v’è dubbio che le collette presenti gravano soprattutto la gente “miserabile” [18] ASCMR, Consigli (1794-1808), cc. 127-129 Da   sempre coloro che hanno più pagato sono i più poveri, i meno abbienti.

    2. COLTIVAZIONI AGRICOLE

    La coltivazione del grano, come   abbiamo visto, era la più estesa e la più redditizia, specie in pianura, non mancavano però orzo, fave e legumi ecc., dal Settecento poi si cominciò a coltivare il granoturco. Ampie erano allora ancora le zone boscose, come la Selva della Comunità in contrada Rovegliano-Catalano, tradizionale riserva di legname per le necessità economiche dell’intera comunità.    Sulle pendici collinari si coltivavano in maniera più intensiva viti e olivi. La produzione di vino e di olio, come quella del grano, non era sempre omogenea, le condizioni del tempo giocavano un ruolo determinante, nelle buone stagioni ce n’era comunque per vendere.

    A – VITIVINICOLTURA

    Il vino dei castelli, Massaccio, Monte Roberto, Maiolati, Castelbellino, era conosciuto non solo a Jesi perché non pochi proprietari dei terreni erano nobili jesini, ma anche in Ancona dove il vino veniva   commercializzato in tempo di pace e richiesto dalle truppe militari quando esse con una certa frequenza sostavano in porto o in città. Ai francesi che avevano scorrazzato per la Vallesina, specie da Monte Roberto a   Massaccio nei primi mesi del 1798, il vino che si produceva   su queste colline dovette essere stato particolarmente gradito, se, durante la loro permanenza in città, la Municipalità di Jesi, da loro sollecitala o per far loro una gradita “sorpresa”, richiese alle rispettive Municipalità di Monte Roberto, Maiolati   o Massaccio l’apertura di una cantina in Jesi. [19] ASCC, Repubblica Romana: lettere diverse, anno (1798-1799).   il governo pontificio aveva garantito il libero commercio   dei vini “tanto dentro   quanto fuori dello stato “Ecclesiastico”, perseguendo    coloro che esigevano “tangenti” (l’uso non è poi tanto nuovo!) nella concessione dei relativi permessi. [20] Cfr. Editto del Card. Azzolino del I settembre 1667 in ASCC, Editti e Bandi sec. XVII, riprodotto anastaticamente in appendice al volume II Verdicchio dei Castelli di Jesi, a cura di R. Ceccarelli, A. Nocchi, E. Stolfi, Città. di Castello 1991. Da una mentalità protezionistica del   Cinquecento, si pensava infatti che si dovesse   ostacolare l’esportazione dei generi di prima necessità, si passò nel Seicento ad una mentalità più pragmatica: di volta in volta il commercio veniva incentivato o sospeso a seconda sia della scarsità dei prodotti sia della necessità del denaro circolante. Editti in tal senso erano emanati dall’autorità centrale e dai governatori locali; si andava da una specie di liberismo assoluto a norme altrettanto restrittive in tempo di carestia fino ai divieti totali di esportazione emanati sotto Urbano VIII. [21] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 7 gennaio 1676 in Ibidem. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986, p. 30. Caravale M., Caracciolo A., Lo stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 427-428. 

    B – OLIVICOLTURA

    La produzione dell’olivo doveva essere sufficiente più per i padroni che per i contadini: ricordiamo che ai padroni ne andavano due terzi, tanto che   quando mancava, non solo per i poveri ma forse anche   per i piccoli proprietari, si comprava altrove, come   nel novembre   del 1800 quando fu acquistato a Cingoli al prezzo di 97 baiocchi e mezzo per ogni boccale. [22] ASCMR, Consigli (1794-1808) cc. 71-72, 23 novembre 1800. Ceccarelli Riccardo, Olivicoltura e frantoi nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona   2009. 4a edizione.   Per l’olio   accadeva spesso che, rivedendosi i prezzi   ogni due mesi, commercianti senza scrupoli ne facessero incetta per poi, accresciuto il prezzo, rimetterlo in vendita alla nuova data ed evidentemente al nuovo prezzo incorrendo nelle ire del Governatore che tuttavia non sembravano incutere molto timore se la stessa disposizione veniva riproposta annualmente   in ogni castello del contado. [23] A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 13-14.  

    C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    La normativa per il grano era più capillare, il relativo bando era ripubblicato anch’esso   ogni   anno con pochissime    varianti. Essa    prevedeva la precisa conoscenza delle persone da sfamare in ogni comunità (entro “li 8 agosto haver data giusta assegna di tutte le bocche effettive, che mangino quotidianamente   il pane ancorché    non avesse raccolto   grano”), disposizioni sulla battitura, la raccolta, la   conservazione, il   commercio e l’esportazione del grano   e la proibizione di farne incetta, seguivano    norme per i fornai, l’Abbondanza   ed i loro responsabili gli “abbondanzieri”. [24] Ivi, Editto del Governatore Jacopo Angeli del 15 luglio 1651.  Ceccarelli Riccardo, Grano, pane e riso nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona 2009. 4′ edizione.  ” L’Abbondanza”, Magazzini dell’Abbondanza    o   Monte Frumentario, era il luogo dove veniva raccolto e conservato il grano per sopperire alla sua eventuale mancanza durante l’anno, per distribuirlo alle famiglie più povere in tempo   di Natale e fornirlo a chi ne avesse bisogno al momento della semina, con l’obbligo di restituirlo dopo il raccolto dell’anno successivo.   Il patrimonio dell’Abbondanza, tra entrate e uscite, doveva rimanere integro, severi controlli venivano fatti in questo senso agli “abbondanzieri”, a   coloro cioè che eletti ogni anno dal Consiglio della Comunità gestivano l’Abbondanza o il Monte   Frumentario. Il Monte Frumentario, l’Abbondanza, detto anche    Monte di Pietà, a Monte Roberto era stato eretto prima del 1537; [25] Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, p. 138 era ubicato nei pressi del   vecchio palazzo comunale, si  aggiungeva il magazzino     dell’Abbondanza con la scala posta davanti al palazzo stesso. [26] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 140r, 28 dicembre 1614. Nonostante che gli Abbondanzieri avessero il dovere di conservare il grano e di distribuirlo secondo le decisioni del Consiglio della Comunità, [27] Ivi, c. 44r., 19 luglio 1609.   non era raro il caso di una certa amministrazione “allegra”: gli stessi Abbondanzieri   prendevano il grano senza restituirlo a tempo debito [28] ASCMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 90r.v e seppure il patrimonio dell’Abbondanza veniva ogni anno reintegrato con la restituzione ma anche con la contribuzione di “una prevenda e mezza per soma” [29] ASCMR, Consigli (1608-116), c. 44r, 19 luglio 1069.   con un “rubio e   mezzo per dicina di tutto il grano che haverà raccolto da pagarsi a giusto prezzo”, [30] Editto del 15 luglio 1651 del Governatore Jacopo Angeli, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 22. rimaneva il grave illecito. Il Governatori o i loro rappresentanti eseguivano controlli periodici e dettavano prescrizioni rigorose: “in avvenire   non     debbono esercitare la carica di Abbondanziere quelli che saranno debitori di essa Abbondanza come comanda la Bolla del Buon Governo e gli Abbondanzieri eletti e approvati dal Consiglio con le idonee sicurtà debbono render conto ogni   anno”. [31] ASMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 59r, 26 luglio 1699 Al termine di ogni anno infatti, scadendo l’incarico, due deputati eletti dal Consiglio dovevano rivedere i conti e se c’era qualche debito o qualche   ammanco gli Abbondanzieri    “siano subito astretti all’intera soddisfatione”; mancando questa verifica “I Quattro” e il Cancelliere, cioè il Segretario, ne dovevano rispondere “del proprio”. [32] Ivi, c. 77v, 8 agosto 1681 La ragione di tanto controllo si fondava sul fatto che l’Abbondanza    era “patrimonio    de Poveri e bisognosi che dovevano   essere sollevati nelle loro necessità con l’imprestanza delli Capitali di detta    Abbondanza”. [33] Ivi, c. 91r, 9 ottobre 1698.   La distribuzione del grano doveva   essere fatta esclusivamente ai poveri di Monte Roberto e non ai forestieri, altrimenti gli stessi Abbondanzieri erano obbligati a loro spese a ritrovare la stessa quantità di grano illecitamente distribuita, i prestiti di grano dovevano essere restituiti entro i mesi di luglio e agosto. [34] ASCMR, Abbondanzieri (1675-1771), c. 194v, 21 dicembre 1765; c. 202r, 6 gennaio 1768; c. 207r, 4 febbraio 1770. L’Abbondanza, o meglio, il Monte Frumentario    come    cominciò ad essere chiamato dall’Ottocento in poi, fu presente operando   attivamente durante il napoleonico    Regno d’Italia (1808-1815) e poi di nuovo con lo Stato Pontificio fino al 1859; [35] Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 267.   con lo stesso nome, cui si aggiunse quello di Cassa di Prestanze Agrarie, come   in altri paesi della Vallesina, ad esempio Rosora e Castelbellino, arrivò fino alle soglie del Novecento. Il   Monte Frumentario   della Comunità    non fu l’unico ad operare a   Monte Roberto: lo ebbero la Confraternita del Sacramento   e Rosario, la Confraternita Pietà o della Morte e la Confraternita del Crocifisso, il più longevo fu quello della Confraternita del    Sacramento e del Rosario, [36] Ivi, pp. 65, 77,97, 104, 131, 252, 267.   erano per lo più a servizio degli iscritti alle confraternite stesse.

    D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    Dopo la mietitura del grano, era “uso antico della Città e del contado” che i poveri e i nullatenenti raccogliessero le spighe rimaste nei campi. Per quanto la consuetudine   fosse antica, essa trovava una continua   opposizione da parte dei padroni   dei campi e di quanti li avevano in affitto. I Governatori allora per garantire   questa misera possibilità ai più poveri, ogni anno    ritornavano sull’argomento   ordinando “tanto alli padroni delli campi, quanto alli cottomatarij de grani in tutta questa nostra giurisditione non ardischino   in modo   alcuno impedire alli Poveri il raccogliere le spiche de grani, nelli campi, purché non faccino danno alli Padroni de grani”. [37] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 16 giugno 1684, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., p. 26 In un bando   del Governatore mons.   Giacomo   Fantucci del 18 giugno 1672, si garantiva la accolta delle spighe ai poveri “purché raccoglino dietro le loro opere [braccianti assoldati giorno per giorno dai loro padroni] e famiglie”. Non avranno   raccolto molto, comunque    l’autorità assicurava quel poco, almeno   a parole e anche per iscritto, forse senza tanta convinzione considerata la scarsa entità delle pene per quanti avessero   impedito questa raccolta, “scudi 1 per ciascheduno” e le   generiche “altre pene a nostro arbitrio”. [38] Ivi, p. 27.  

    E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    La   coltivazione dei gelsi e la relativa bachicoltura risalgono per tutto il contado   al Seicento. [39] Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 256-257 Seguendo l’esempio di Jesi che nel 1673 aveva proceduto ad una   intensa piantagione di   mori-gelsi, anche Monte Roberto    delibera un’analoga    piantagione nel 1679, provvedendo    in pari tempo a proteggere le piccole piante minacciate da pecore e maiali. [40] ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49v, 10 dicembre 1679.   Queste piante, per più ai lati delle strade erano di proprietà comunale; con la vendita delle foglie (“Trasatto delle foglie de’ mori-gelsi”) che si faceva ogni anno in aprile a chi allevava bachi da seta, si cercava di racimolare   qualche entrata nelle sempre esauste casse comunali. [41] Ivi, c. 110v, 8 aprile 1685.   La bachicoltura si sviluppò così progressivamente   in tutti i paesi della valle, i bozzoli erano inviati sulla Piazza di Jesi”, una filanda per la loro lavorazione la troveremo a Monte   Roberto nei primi   decenni dell’Ottocento.

    F – TABACCO

    Un’altra ‘coltivazione che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento ebbe una certa fortuna in territorio di Monte Roberto, fu quello del tabacco. Nello Stato Pontificio era stato introdotto a metà del Settecento; a Chiaravalle un primo laboratorio per la lavorazione delle foglie era stato realizzato nel 1759. La coltura si estese ben presto a tutta la media e bassa valle dell’Esino favorita dalla particolare conformazione dei terreni e dall’aumento del reddito agricolo che essa garantiva. [42] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426. Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90. A Monte Roberto se ne coltivava nella zona di Pianello, a valle di Rovegliano e nell’area di S. Apollinare. Le foglie di tabacco si potevano consegnare   nei magazzini   della Fabbrica di Chiaravalle due volte all’anno, in primavera e in autunno: nel 1817, dal 4 febbraio   al 15 marzo e dal 26 settembre in poi, [43] Cfr. Notificazione della Delegazione Apostolica di Ancona del 3 febbraio e 14 novembre   1817, in ASCC, Editti Bandi Notifiche Avvisi Circolari (1814-1817). con una precisa ripartizione dei giorni per i coltivatori di ogni singolo paese a seconda del loro numero e della distanza a Chiaravalle, ad esempio nella primavera   del 1816 i coltivatori di Jesi, Monte Roberto e Maiolati    potevano consegnare dal 22 marzo al 12 aprile. [44] ASCC, Editti Bandi Notificazioni, VI (1815-1818), p. 108, notificazione del 31 gennaio 1816.   Il   Governo conosceva già in dettaglio tutti i coltivatori, le denunce e la capacità produttiva delle rispettive piantagioni e faceva presente che “se alcuno dei coltivatori o detentori de detti Tabacchi osasse di convertire a proprio uso le foglie o venderle, o distrarle comunque, per eludere gli ordini del Governo, non isfuggirà alla nostra vigilanza la di lui frode”. Nel   trasportare le foglie a Chiaravalle   poi era necessario coprirle opportunamente     per non lasciarle disperdere e difendere dall’umidità. Nel 1849 il terreno assegnato per la coltivazione del tabacco in tutto il distretto di Jesi che comprendeva   il territorio di Jesi, Castelbellino, Castelplanio, Maiolati, Massaccio, Montecarotto, Monte Roberto, Morro, Monsano, Rosora e Staffolo era di 33 rubbia (61 ettari circa) con un numero    di piante coltivate pari a 1.056.000. [45] ASCC, Editti Bandi (1849).   Quello che si coltivava a Monte Roberto nella zona di Pianello era classificato di prima classe, quello di S. Apollinare e Rovegliano di seconda classe; all’interno di queste classi il tabacco poteva essere di prima, seconda e terza qualità, con prezzi diversi a seconda della classe e della qualità; ciò era stabilito da un disciplinare, diremmo oggi, di produzione, preciso e rigoroso. Eppure alla consegna delle foglie non sempre i ricevitori di Chiaravalle lo rispettavano, facendo “comparire qua tutti [i tabacchi] che provenivano da   Monte Roberto di cattiva qualità”, con di divergenze anche sul prezzo stabilito. Le lamentele venivano esternate al Sindaco che   provvedeva a vagliarle e a farle presenti alle competenti autorità. [46] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 153, n. 80 dell’8 marzo 1809.   Il toponimo Canapina o Calapina, come abbiano visto, lascia intendere che nella zona un tempo ci fossero coltivazioni di canapa. Nel secondo   decennio dell’Ottocento in un clima di ripresa agricola e di differenziazione delle colture (canapicoltura e linicoltura), venne proposto al Comune (“È il papa che lo desidera”) l’acquisto di   una “macchina     per lavorare   le canape    senza macerazione”; la proposta fu respinta dal Consiglio    Comunale in quanto, si osserva, “da noi la canapa non si coltiva affatto, o in pochissima quantità, cosa questa che rende inutile l’acquisto di una simile macchina”. [47] ASCMR, Consigli (1808-1827), p. 190, 19 settembre 1820} Per quanto riguarda gli allevamenti di pecore e l’incremento della produzione della lana, più di dieci anni prima, negli ultimi anni del Settecento, a seguito di una grande propaganda nei “dipartimenti”, ci furono ripetute importazioni di pecore “merinos”, [48] Caravale Mario, Caracciolo Alberto, op. cit., p. 602. si assicura che nel 1809 anche a Monte   Roberto “si incrociano le pecore con montare delle pecore spagnole per migliorare il gregge pecorino”. [49] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426.   Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90.  .

    3. EDILIZIA RURALE

    La casa tipica delle campagne   era costituita, almeno   nel Settecento, dalle stalle al piano terra, con la cucina e le altre stanze al piano superiore raggiungibili da una scala esterna sotto la   quale ricavare lo “stanziolo” per gli animali domestici, e il forno contiguo alla casa. Così risulta dal capitolato di appalto per la costruzione della casa colonica in contrada Catalano (Rovegliano) di proprietà del Comune, del 1763. [50] ASCMR, Libro de Trasatti della Comunità di Monte Roberto (1758-1777), cc. 37-38; vedi Appendice n. 6, pp. 295-296.   Vennero aggiunte poi ampie “bigattiere” quando si incrementò la bachicoltura, mentre capanne per il ricovero   degli attrezzi agricoli nei pressi, costruite con materiale povero (legno, paglia, fronde di alberi ecc.), ci sono sempre state [51] Brigidi L., Poeta A., La casa rurale nelle Marche centrali e meridionali. C.N.R. Firenze 1953. Insediamenti rurali Case coloniche economia del podere nella Storia dell’agricoltura   marchigiana, a cura di Sergio Anselmi, Cassa di Risparmio, Jesi 1986, 2a ed. Due costruzioni, anche se non tipiche tuttavia del nostro territorio, sono state presenti in passato in un certo numero: si tratta delle palombare e delle case terra.

  • 192 7.2 COLTIVAZIONI AGRICOLE

    192 7.2 COLTIVAZIONI AGRICOLE

    La coltivazione del grano, come   abbiamo visto, era la più estesa e la più redditizia, specie in pianura, non mancavano però orzo, fave e legumi ecc., dal Settecento poi si cominciò a coltivare il granoturco. Ampie erano allora ancora le zone boscose, come la Selva della Comunità in contrada Rovegliano-Catalano, tradizionale riserva di legname per le necessità economiche dell’intera comunità.    Sulle pendici collinari si coltivavano in maniera più intensiva viti e olivi. La produzione di vino e di olio, come quella del grano, non era sempre omogenea, le condizioni del tempo giocavano un ruolo determinante, nelle buone stagioni ce n’era comunque per vendere.

  • 192 7.2A VITIVINICOLTURA

    192 7.2A VITIVINICOLTURA

    A – VITIVINICOLTURA

    Il vino dei castelli, Massaccio, Monte Roberto, Maiolati, Castelbellino, era conosciuto non solo a Jesi perché non pochi proprietari dei terreni erano nobili jesini, ma anche in Ancona dove il vino veniva   commercializzato in tempo di pace e richiesto dalle truppe militari quando esse con una certa frequenza sostavano in porto o in città. Ai francesi che avevano scorrazzato per la Vallesina, specie da Monte Roberto a   Massaccio nei primi mesi del 1798, il vino che si produceva   su queste colline dovette essere stato particolarmente gradito, se, durante la loro permanenza in città, la Municipalità di Jesi, da loro sollecitala o per far loro una gradita “sorpresa”, richiese alle rispettive Municipalità di Monte Roberto, Maiolati   o Massaccio l’apertura di una cantina in Jesi. [19] ASCC, Repubblica Romana: lettere diverse, anno (1798-1799).   il governo pontificio aveva garantito il libero commercio   dei vini “tanto dentro   quanto fuori dello stato “Ecclesiastico”, perseguendo    coloro che esigevano “tangenti” (l’uso non è poi tanto nuovo!) nella concessione dei relativi permessi. [20] Cfr. Editto del Card. Azzolino del I settembre 1667 in ASCC, Editti e Bandi sec. XVII, riprodotto anastaticamente in appendice al volume II Verdicchio dei Castelli di Jesi, a cura di R. Ceccarelli, A. Nocchi, E. Stolfi, Città. di Castello 1991. Da una mentalità protezionistica del   Cinquecento, si pensava infatti che si dovesse   ostacolare l’esportazione dei generi di prima necessità, si passò nel Seicento ad una mentalità più pragmatica: di volta in volta il commercio veniva incentivato o sospeso a seconda sia della scarsità dei prodotti sia della necessità del denaro circolante. Editti in tal senso erano emanati dall’autorità centrale e dai governatori locali; si andava da una specie di liberismo assoluto a norme altrettanto restrittive in tempo di carestia fino ai divieti totali di esportazione emanati sotto Urbano VIII. [21] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 7 gennaio 1676 in Ibidem. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986, p. 30. Caravale M., Caracciolo A., Lo stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 427-428. 

  • 193 7.2B – OLIVICOLTURA

    193 7.2B – OLIVICOLTURA

    La produzione dell’olivo doveva essere sufficiente più per i padroni che per i contadini: ricordiamo che ai padroni ne andavano due terzi, tanto che   quando mancava, non solo per i poveri ma forse anche   per i piccoli proprietari, si comprava altrove, come   nel novembre   del 1800 quando fu acquistato a Cingoli al prezzo di 97 baiocchi e mezzo per ogni boccale. [22] ASCMR, Consigli (1794-1808) cc. 71-72, 23 novembre 1800. Ceccarelli Riccardo, Olivicoltura e frantoi nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona   2009. 4a edizione.   Per l’olio   accadeva spesso che, rivedendosi i prezzi   ogni due mesi, commercianti senza scrupoli ne facessero incetta per poi, accresciuto il prezzo, rimetterlo in vendita alla nuova data ed evidentemente al nuovo prezzo incorrendo nelle ire del Governatore che tuttavia non sembravano incutere molto timore se la stessa disposizione veniva riproposta annualmente   in ogni castello del contado. [23] A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 13-14.  

  • 193 7.2C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    193 7.2C – IL GRANO E “L’ABBONDANZA”

    La normativa per il grano era più capillare, il relativo bando era ripubblicato anch’esso   ogni   anno con pochissime    varianti. Essa    prevedeva la precisa conoscenza delle persone da sfamare in ogni comunità (entro “li 8 agosto haver data giusta assegna di tutte le bocche effettive, che mangino quotidianamente   il pane ancorché    non avesse raccolto   grano”), disposizioni sulla battitura, la raccolta, la   conservazione, il   commercio e l’esportazione del grano   e la proibizione di farne incetta, seguivano    norme per i fornai, l’Abbondanza   ed i loro responsabili gli “abbondanzieri”. [24] Ivi, Editto del Governatore Jacopo Angeli del 15 luglio 1651.  Ceccarelli Riccardo, Grano, pane e riso nella Marca di Ancona, Provincia di Ancona, Ancona 2009. 4′ edizione.  ” L’Abbondanza”, Magazzini dell’Abbondanza    o   Monte Frumentario, era il luogo dove veniva raccolto e conservato il grano per sopperire alla sua eventuale mancanza durante l’anno, per distribuirlo alle famiglie più povere in tempo   di Natale e fornirlo a chi ne avesse bisogno al momento della semina, con l’obbligo di restituirlo dopo il raccolto dell’anno successivo.   Il patrimonio dell’Abbondanza, tra entrate e uscite, doveva rimanere integro, severi controlli venivano fatti in questo senso agli “abbondanzieri”, a   coloro cioè che eletti ogni anno dal Consiglio della Comunità gestivano l’Abbondanza o il Monte   Frumentario. Il Monte Frumentario, l’Abbondanza, detto anche    Monte di Pietà, a Monte Roberto era stato eretto prima del 1537; [25] Zenobi C., L’episcopato jesino di Mons. Gabriele del Monte, p. 138 era ubicato nei pressi del   vecchio palazzo comunale, si  aggiungeva il magazzino     dell’Abbondanza con la scala posta davanti al palazzo stesso. [26] ASCMR, Consigli (1608-1616), c. 140r, 28 dicembre 1614. Nonostante che gli Abbondanzieri avessero il dovere di conservare il grano e di distribuirlo secondo le decisioni del Consiglio della Comunità, [27] Ivi, c. 44r., 19 luglio 1609.   non era raro il caso di una certa amministrazione “allegra”: gli stessi Abbondanzieri   prendevano il grano senza restituirlo a tempo debito [28] ASCMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 90r.v e seppure il patrimonio dell’Abbondanza veniva ogni anno reintegrato con la restituzione ma anche con la contribuzione di “una prevenda e mezza per soma” [29] ASCMR, Consigli (1608-116), c. 44r, 19 luglio 1069.   con un “rubio e   mezzo per dicina di tutto il grano che haverà raccolto da pagarsi a giusto prezzo”, [30] Editto del 15 luglio 1651 del Governatore Jacopo Angeli, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., pp. 22. rimaneva il grave illecito. Il Governatori o i loro rappresentanti eseguivano controlli periodici e dettavano prescrizioni rigorose: “in avvenire   non     debbono esercitare la carica di Abbondanziere quelli che saranno debitori di essa Abbondanza come comanda la Bolla del Buon Governo e gli Abbondanzieri eletti e approvati dal Consiglio con le idonee sicurtà debbono render conto ogni   anno”. [31] ASMR, Abbondanzieri (1621-1810), c. 59r, 26 luglio 1699 Al termine di ogni anno infatti, scadendo l’incarico, due deputati eletti dal Consiglio dovevano rivedere i conti e se c’era qualche debito o qualche   ammanco gli Abbondanzieri    “siano subito astretti all’intera soddisfatione”; mancando questa verifica “I Quattro” e il Cancelliere, cioè il Segretario, ne dovevano rispondere “del proprio”. [32] Ivi, c. 77v, 8 agosto 1681 La ragione di tanto controllo si fondava sul fatto che l’Abbondanza    era “patrimonio    de Poveri e bisognosi che dovevano   essere sollevati nelle loro necessità con l’imprestanza delli Capitali di detta    Abbondanza”. [33] Ivi, c. 91r, 9 ottobre 1698.   La distribuzione del grano doveva   essere fatta esclusivamente ai poveri di Monte Roberto e non ai forestieri, altrimenti gli stessi Abbondanzieri erano obbligati a loro spese a ritrovare la stessa quantità di grano illecitamente distribuita, i prestiti di grano dovevano essere restituiti entro i mesi di luglio e agosto. [34] ASCMR, Abbondanzieri (1675-1771), c. 194v, 21 dicembre 1765; c. 202r, 6 gennaio 1768; c. 207r, 4 febbraio 1770. L’Abbondanza, o meglio, il Monte Frumentario    come    cominciò ad essere chiamato dall’Ottocento in poi, fu presente operando   attivamente durante il napoleonico    Regno d’Italia (1808-1815) e poi di nuovo con lo Stato Pontificio fino al 1859; [35] Urieli C., Archivio Diocesano – Visite pastorali, p. 267.   con lo stesso nome, cui si aggiunse quello di Cassa di Prestanze Agrarie, come   in altri paesi della Vallesina, ad esempio Rosora e Castelbellino, arrivò fino alle soglie del Novecento. Il   Monte Frumentario   della Comunità    non fu l’unico ad operare a   Monte Roberto: lo ebbero la Confraternita del Sacramento   e Rosario, la Confraternita Pietà o della Morte e la Confraternita del Crocifisso, il più longevo fu quello della Confraternita del    Sacramento e del Rosario, [36] Ivi, pp. 65, 77,97, 104, 131, 252, 267.   erano per lo più a servizio degli iscritti alle confraternite stesse.

  • 195 7.2D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    195 7.2D – RACCOGLITORI DI SPIGHE

    Dopo la mietitura del grano, era “uso antico della Città e del contado” che i poveri e i nullatenenti raccogliessero le spighe rimaste nei campi. Per quanto la consuetudine   fosse antica, essa trovava una continua   opposizione da parte dei padroni   dei campi e di quanti li avevano in affitto. I Governatori allora per garantire   questa misera possibilità ai più poveri, ogni anno    ritornavano sull’argomento   ordinando “tanto alli padroni delli campi, quanto alli cottomatarij de grani in tutta questa nostra giurisditione non ardischino   in modo   alcuno impedire alli Poveri il raccogliere le spiche de grani, nelli campi, purché non faccino danno alli Padroni de grani”. [37] Cfr. Editto del Governatore Mons. Francesco Boncompagni del 16 giugno 1684, in A. Nocchi, R. Ceccarelli, op. cit., p. 26 In un bando   del Governatore mons.   Giacomo   Fantucci del 18 giugno 1672, si garantiva la accolta delle spighe ai poveri “purché raccoglino dietro le loro opere [braccianti assoldati giorno per giorno dai loro padroni] e famiglie”. Non avranno   raccolto molto, comunque    l’autorità assicurava quel poco, almeno   a parole e anche per iscritto, forse senza tanta convinzione considerata la scarsa entità delle pene per quanti avessero   impedito questa raccolta, “scudi 1 per ciascheduno” e le   generiche “altre pene a nostro arbitrio”. [38] Ivi, p. 27.  

  • 196 7.2E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    196 7.2E – COLTIVAZIONE DEI GELSI E BACHICOLTURA

    La   coltivazione dei gelsi e la relativa bachicoltura risalgono per tutto il contado   al Seicento. [39] Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 256-257 Seguendo l’esempio di Jesi che nel 1673 aveva proceduto ad una   intensa piantagione di   mori-gelsi, anche Monte Roberto    delibera un’analoga    piantagione nel 1679, provvedendo    in pari tempo a proteggere le piccole piante minacciate da pecore e maiali. [40] ASCMR, Consigli (1676-1698), c. 49v, 10 dicembre 1679.  

    Queste piante, per più ai lati delle strade erano di proprietà comunale; con la vendita delle foglie (“Trasatto delle foglie de’ mori-gelsi”) che si faceva ogni anno in aprile a chi allevava bachi da seta, si cercava di racimolare   qualche entrata nelle sempre esauste casse comunali. [41] Ivi, c. 110v, 8 aprile 1685.   La bachicoltura si sviluppò così progressivamente   in tutti i paesi della valle, i bozzoli erano inviati sulla Piazza di Jesi”, una filanda per la loro lavorazione la troveremo a Monte   Roberto nei primi   decenni dell’Ottocento.

  • 196 7.2F TABACCO

    196 7.2F TABACCO

    Un’altra ‘coltivazione che tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento ebbe una certa fortuna in territorio di Monte Roberto, fu quello del tabacco. Nello Stato Pontificio era stato introdotto a metà del Settecento; a Chiaravalle un primo laboratorio per la lavorazione delle foglie era stato realizzato nel 1759. La coltura si estese ben presto a tutta la media e bassa valle dell’Esino favorita dalla particolare conformazione dei terreni e dall’aumento del reddito agricolo che essa garantiva. [42] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426. Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90. A Monte Roberto se ne coltivava nella zona di Pianello, a valle di Rovegliano e nell’area di S. Apollinare.

    Le foglie di tabacco si potevano consegnare   nei magazzini   della Fabbrica di Chiaravalle due volte all’anno, in primavera e in autunno: nel 1817, dal 4 febbraio   al 15 marzo e dal 26 settembre in poi, [43] Cfr. Notificazione della Delegazione Apostolica di Ancona del 3 febbraio e 14 novembre   1817, in ASCC, Editti Bandi Notifiche Avvisi Circolari (1814-1817). con una precisa ripartizione dei giorni per i coltivatori di ogni singolo paese a seconda del loro numero e della distanza a Chiaravalle, ad esempio nella primavera   del 1816 i coltivatori di Jesi, Monte Roberto e Maiolati    potevano consegnare dal 22 marzo al 12 aprile. [44] ASCC, Editti Bandi Notificazioni, VI (1815-1818), p. 108, notificazione del 31 gennaio 1816.  

    Il   Governo conosceva già in dettaglio tutti i coltivatori, le denunce e la capacità produttiva delle rispettive piantagioni e faceva presente che “se alcuno dei coltivatori o detentori de detti Tabacchi osasse di convertire a proprio uso le foglie o venderle, o distrarle comunque, per eludere gli ordini del Governo, non isfuggirà alla nostra vigilanza la di lui frode”. Nel   trasportare le foglie a Chiaravalle   poi era necessario coprirle opportunamente     per non lasciarle disperdere e difendere dall’umidità. Nel 1849 il terreno assegnato per la coltivazione del tabacco in tutto il distretto di Jesi che comprendeva   il territorio di Jesi, Castelbellino, Castelplanio, Maiolati, Massaccio, Montecarotto, Monte Roberto, Morro, Monsano, Rosora e Staffolo era di 33 rubbia (61 ettari circa) con un numero    di piante coltivate pari a 1.056.000. [45] ASCC, Editti Bandi (1849).   Quello che si coltivava a Monte Roberto nella zona di Pianello era classificato di prima classe, quello di S. Apollinare e Rovegliano di seconda classe; all’interno di queste classi il tabacco poteva essere di prima, seconda e terza qualità, con prezzi diversi a seconda della classe e della qualità; ciò era stabilito da un disciplinare, diremmo oggi, di produzione, preciso e rigoroso. Eppure alla consegna delle foglie non sempre i ricevitori di Chiaravalle lo rispettavano, facendo “comparire qua tutti [i tabacchi] che provenivano da   Monte Roberto di cattiva qualità”, con di divergenze anche sul prezzo stabilito. Le lamentele venivano esternate al Sindaco che   provvedeva a vagliarle e a farle presenti alle competenti autorità. [46] ASCMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 153, n. 80 dell’8 marzo 1809.   Il toponimo Canapina o Calapina, come abbiano visto, lascia intendere che nella zona un tempo ci fossero coltivazioni di canapa. Nel secondo   decennio dell’Ottocento in un clima di ripresa agricola e di differenziazione delle colture (canapicoltura e linicoltura), venne proposto al Comune (“È il papa che lo desidera”) l’acquisto di   una “macchina     per lavorare   le canape    senza macerazione”; la proposta fu respinta dal Consiglio    Comunale in quanto, si osserva, “da noi la canapa non si coltiva affatto, o in pochissima quantità, cosa questa che rende inutile l’acquisto di una simile macchina”. [47] ASCMR, Consigli (1808-1827), p. 190, 19 settembre 1820} Per quanto riguarda gli allevamenti di pecore e l’incremento della produzione della lana, più di dieci anni prima, negli ultimi anni del Settecento, a seguito di una grande propaganda nei “dipartimenti”, ci furono ripetute importazioni di pecore “merinos”, [48] Caravale Mario, Caracciolo Alberto, op. cit., p. 602. si assicura che nel 1809 anche a Monte   Roberto “si incrociano le pecore con montare delle pecore spagnole per migliorare il gregge pecorino”. [49] Pedrocco Giorgio, Coltivazione e manifattura del tabacco a Chiaravalle, in Nelle Marche Centrali, op. cit., vol. I, pp. 1395-1426.   Cappelletti Sandra, Dalla Abbazia alla Manifattura – Le origini di Chiaravalle, Chiaravalle   1978, p, 90.  .

  • 198 7.3A PALOMBARE

    198 7.3A PALOMBARE

    A ricordarle per il territorio di Monte Roberto sono gli unici due catasti che ci sono rimasti nell’Archivio Comunale, ambedue del Settecento; se ci fossero stati anche quelli dei secoli precedenti avremmo potuto fare confronti con il limitrofo territorio di Massaccio-Cupramontana la cui prima palombara è testimoniata in contrada S. Michele nel 1544, 52 Ceccarelli R., Le strade raccontano, p. 209. con quella, ancora in ottimo stato di conservazione, in contrada Fontegeloni nel comune di Serra S. Quirico, datata 1583, non tralasciando quella restaurata agli inizi degli anni Novanta in contrada S. Maria nel comune di Rosora. Erano costruzioni più alte in genere delle case coloniche, ad esse aggiunte o isolate, adibite all’allevamento dei piccioni (palombi) destinati all’uso alimentare il cui guano era utilizzato come ottimo fertilizzante per i terreni. Il numero delle palombare si accrebbe tra il Cinquecento e il Seicento nel territorio di Massaccio con una flessione nel corso del Settecento, e se questo andamento può essere analogo per il territorio di Monte Roberto, dobbiamo ipotizzare che nel Seicento, inizi Settecento, fossero ben più numerose delle 17 che troviamo a metà del secolo. 53 ASCMR, Catasto (sec. XVIII-1743). Di queste, 11 erano situate in contrada Rovegliano fin giù nel piano, tutte indicate come “casa e palombara’, eccetto quella di Gentile Amatori “terra arativa con palombara”. Proprietari con una palombara erano la Comunità di Monte Roberto, Carlo Colini, il marchese Federico Silvestri Fabi e Tranquilli, mentre Francesco di Lutio, il marchese Giuseppe Honorati ne avevano due in diversi terreni di loro proprietà. Le altre erano di Costantino Paziani (contrada Villate), di Francesco di Nicodemo (contrada Ciampana), Girolamo Fiordelmondo (contrada della Valle), dei fratelli marchesi Piersimone, Angelo, Flaminio e Pio Ghislieri (contrada Passo Imperatore) e di Leonida Leoni (contrada Olivella). Dopo qualche decennio l’altro catasto, registra solo nove volte “casa e palombara” e una sola volta “casa e palombara” quella del Tenente Ridolfo Leoni da Staffolo in contrada del Noceto, la stessa casa di contrada Olivella, nel frattempo probabilmente riassettata. Alcune erano rimaste, come quelle della Comunità di Monte Roberto, del marchese Giuseppe Honorati, dei fratelli Ghislieri, Flaminio l’aveva conservata a passo Imperatore, gli altri Angelo, Piersimone e Pio ne costruirono un’altra in contrada Cesola; altre passarono di proprietà, pochissime sembrano essere quelle nuove; Michele Turchi da San Severino l’aveva in un podere presso il Trivio (Pianello), l’Abbazia di S. Apollinare vicino alla chiesa e Pier Simone Dpminici segretario comunale di Monte Roberto aveva con i beni dotali dalla moglie Orsola Mazzini un “gasmo con palombara”, in contrada La Valle o S. Brigida. 54 ASCMR, Catasto (sec. XVIII). La palombara di Passo Imperatore di proprietà dei marchesi Ghislieri non aveva grosse dimensioni, era situata presso la strada ed il fosso limitrofo, dando origine, come abbiamo visto, ai toponimi fosso della Palombaretta e strada della Palombaretta. Notevole il ruolo economico svolto per diversi secoli da queste strutture agricole, attualmente dalle nostre zone quasi del tutto scomparse o riutilizzate‘ come magazzini; se richiesta fu per secoli la carne di piccione altrettanto apprezzato fin dall’epoca romana era il concime derivato dallo sterco dei piccioni per la fertilizzazione dei campi. 55 Volpe Gianni, Casa Torri Colombaie, Maroni, Ripatransone 1983, pp. 49-59. Paci Renzo, Sedimentazioni storiche nel paesaggio agrario, in Nelle Marche Centrali, vol. pp. 117-118. Insediamenti Rurali Case coloniche…, op.cit..,-pp. 172, 176.

  • 201 7.3B CASE DI TERRA

    201 7.3B CASE DI TERRA

    In territorio di Monte Roberto la casa di terra che rimane ancora in piedi è in via Ponte Magno. Altre due, una capanna ed una casa vera e propria, ancora utilizzata, sono a qualche centinaio di metri nra in territorio cuprense.
    Sono le uniche rimaste di una tipologia edilizia rurale diffusa nelle nostre campagne, anche se più numerose erano nel maceratese dove ancora molte sono abitate. Esse rappresentano la forma abitativa più povera dei braccianti agricoli o di , piccolissimi proprietari; sono costruite con un impasto di argilla e di paglia chiamato “cerretano”. Non avevano una lunga durata se mancavano di zoccolatura alla base e di incamiciatura agli angoli con pietre e mattoni e di un’opportuna copertura.
    Le case di terra di via Ponte Magno risalgono probabilmente agli ultimi decenni dell’Ottocento e sarebbe opportuno non lasciarle andare in rovina, sono una testimonianza di una situazione di vita di estrema povertà ed anche del progressivo trasferimento dei lavoratori agricoli sul fondo che lavoravano 56 Ceccarelli R., Le strade raccontano, p. 198 con relativa bibliografia. Palombarini A., Le case di terra nel maceratese, in Proposte e Ricerche n. 7, autunno inverno 1981, pp. 69-76. Palombarini Augusta, Volpe Gianni, La casa di terra nelle Marche, Federico Motta Editore, Milano 2002. Volpe Gianni, Il lucano e la buina, Astragalo, Fano (PU) 2002. Sori Ercole, Case di terra e paglia delle Marche, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno 2003. Volpe Gianni, La casa a maltone, Metauro Edizioni, Fossombrone (PU) 2005.
    Altre case di terra c’erano a Monte Roberto, una nelle vicinanze dell’attuale abitazione di via Fontestate n. 3 ed altre a Pianello Vallesina, l’ultima è scomparsa da ormai da diversi decenni, ubicata tra le attuali via G Garibaldi e via S. Pertini 57 Testimonianza del Sig. Aurelio Borioni, la casa era abitata dalla famiglia Peloni. le ricordano ancora in molti, la zona dove stavano era chiamata ed è chiamata ancora, proprio per questo motivo, “Terrone

  • 201 7.4 LE FIERE

    201 7.4 LE FIERE

    Le fiere ed i mercati, anche per la valle dell’Esino, sono stati dal Medioevo strumenti ed occasioni di incontro e di scambi economici di primo piano. A Jesi. nel 1304 si teneva una fiera dal 22 settembre al 15 ottobre; 58 Urieli C., Jesi e il suo Contado, vol. II, p. 10. altre fiere nacquero nei pressi delle abbazie e dei monasteri benedettini, grossi centri anche di attività commerciali ed economiche. 59 Annibaldi G., S. Benedetto e l’Esio, Jesi 1880, p. 58.
    A Massaccio-Cupramontana nella seconda metà del Quattrocento, ma probabilmente risaliva a molto prima, esisteva un “mercatale” – oggi via S. Maria e piazza A. Costa – sede privilegiata dei mercanti e dei loro traffici 60 ASCC, Catasto I (1471), c. 29v. – mentre un mercato settimanale, al lunedì, venne istituito nel 1570; 61 Menicucci F. , Memorie… Massaccio…, p. 164. Menicucci F. , Massaccio nel 1789, in appendice a Dottori D., CupraMontana e i suoi figli più noti, p. 1 27. Ceccarelli R. , Il mercato del lunedì di Cupramontana, in Quaderni Storici Esini, 11-2011, pp.133-149. dal 1520 tuttavia già c’era una fiera nel mese di giugno in occasione della festa del B. Giovanni Maris, 62 Menicucci F. , Memorie istoriche de BB. Giovanni e Matteo, Cesena 1790, p. 32. dal 1587 poi la fiera di S. Lorenzo che durava sei giorni, dal 9 4114 agosto 63 Ceccarelli R. , Le strade raccontano, cit., p. 61, fig. 23. I mercati e le fiere di Massaccio erano molto frequentate dalle popolazioni dei paesi del pre-Appennino come Precicchie, Poggio S. Romualdo (Porcarella), Poggio S. Vicino (Ficano), Rotorscio, Domo ecc., dei paesi limitrofi e dei centri della valle dell’Esino e oltre. 64 Ceccarelli R. , Tombola dimenticata, in il Massaccio, anno II (nuova serie) n. 5 dicembre 1991, pp. 22- 23. Il periodico pendolarismo verso Massaccio alimentava notevolmente la locale economia, il fatto non sfuggì ai dirigenti delle vicine Comunità che nei decenni successivi cominciarono a chiedere autorizzazioni per altre fiere.
    L’esempio di Massaccio non fu probabilmente determinante, tuttavia contribuì, insieme alla generale crisi economica del Seicento, 65 Caravale M., Caracciolo A., Lo Stato Pontificio da Martino Va Pio IX, Utet, Torino 1978, pp. 425-429. che ebbe eco nelle nostre piccole comunità, a far ricercare occasioni per movimentare l’economia. Le fiere furono alcune di queste occasioni e magari anche di attrito tra le comunità che in esse avevano intuito una nuova opportunità economica.
    Accadde nel 1672 quando Domenico di Gabriele di Castelbellino “per essere immesso nel numero delli Quattro dona scudi 25 ad effetto che la Comunità ottenesse un Breve per far fare la fiera nella Madonna del Trevio [Pianello Vallesina] per il lunedì della terza domenica di maggio […], essendo ciò assai utile per la nostra Comunità e per il nostro Castello”. 66 ASCCb, Consigli (1653-1676), c. 149v, 17 gennaio 1672.
    Trascorrono appena sette giorni e se ne discute nel Consiglio della Comunità di Monte Roberto: “[…] il Breve per la fiera della Madonna del Trebio […] potrebbe essere di pregiudizio del Pubblico […], i Signori Quattro vadino ad informare Mons. Governatore a pregarlo che voglia […] aiutarci che non ce sia fatto […] che detta fiera sia piantata tutta nel nostro territorio con pregiudizio del nostro Pubblico”. 67 ASCMR, Consigli (1665-1676), cc. 99r/v e 100r, 24 gennaio 1672. Castelbellino ottiene l’autorizzazione della fiera per la data richiesta; Monte Roberto poco dopo, nel 1676, cerca di racimolare il denaro necessario per un analogo Breve al fine di ottenere una fiera nel giorno di S. Amanzio, 10 giugno: sono però disponibili solo sei scudi, quelli in bilancio per la “ricreatione” in occasione del rinnovamento del Bussolo e ci vogliono almeno altri dieci scudi da raccogliere tra la gente, “la fiera farebbe gran utile alla nostra Comunità”. 68 ASCMR, Consigli (1676-1698), c.2r, 10 dicembre 1676. ASCMR, Consigli (1735-1755), c.140r.
    Probabilmente non si riuscì nell’intento, non si trova infatti alcuna tracci negli anni successivi, della fiera che si desiderava per il 10 giugno. Si debbono tuttavia attendere quasi settant’anni per far decidere all’unanimità il Consigli della Comunità a richiedere l’autorizzazione per due fiere accollando completamente le spese per il documento pontificio; la decisione veni formalizzata il 25 aprile 1745: “Le fiere […] sogliono portare lucro sì al pubblico che a popoli di qualsivoglia sfera. […] e questo nostro Castello, o Terra che s solamente la nostra Università restarebbe annualmente utilizzata, ma anche questi Possedienti avrebbero motivo et occasione di rimettere le loro entrate, e le povere famiglie industriarsi con le loro fatiche”. 69 ASCMR, Consigli (1735-1755), c.140r.
    Il 18 agosto 1745 papa Benedetto XIV firmò l’autorizzazione per le dr fiere da tenersi in Monte Roberto “una nell’ultima Domenica del mese di April l’altra nella seconda Domenica di Settembre con quattro giorni seguenti ciascheduna di esse con li Privilegi, e facoltà solite e consuete”. 70 Copia del documento pontificio e in ASCMR, Registro delle lettere dei Signori Superiori (1703-1795), cc. 266-268v. Immediatamente si provvide a diffondere una “notificazione” a stampa in tutti paesi del contado e oltre, invitando “tutti e singole persone ad intervenii annualmente a dette fiere con Merci, Robbe e di qualsiasi sorte”, l’invito alla prima fiera era per il “12 settembre prossimo venturo”.
    Anno dopo anno le due fiere si affermarono diventando un appuntamento importante nel contesto delle altre fiere e mercati dei paesi più o meno lontani: Marcello (prima domenica di giugno), Barbara (16 luglio e 25 agosto), Belvedere (16 maggio), Morro d’Alba (ultimo martedì di maggio), Apiro (25 maggio e. agosto), Serra S. Quirico (13 dicembre), Staffolo (1° settembre e 12 aprile), ecc.
    Per annunciare le fiere il Comune inviava ogni anno alle diverse comunità del contado e di un circondario più vasto l’apposita “notificazione”, inoltre provvedeva a farle “bandire” da un “tamburino” di volta in volta nelle fiere che si svolgevan nei vari paesi in prossimità di quella di Monte Roberto. 71 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 127r, (1753). Nel 1809 il sindaco (Monte Roberto e Comuni Uniti confermava che le fiere che si tenevano nel su territorio erano rispettivamente, a Monte Roberto il 25 aprile e il 16 settembre, Castelbellino (Pianello Vallesina) il lunedì dopo la terza domenica di maggio, San Paolo di Jesi il 13 giugno. 72 ASCMR, Registro di Lettere (1808-1809), p. 221, 26 luglio 1809.
    Negli anni successivi le due fiere dovettero conoscere una fase di declino s non addirittura essere sospese, se in una nota redatta, senza data, ma certamente intorno al 1820-25, viene scritto: “La fiera di settembre fu ripristinata nel 1818 e quella di aprile nell’anno 1819 con felice risultato”. Continua la nota: “Il zelo della Magistratura manifestato nella ripristinazione, e le favorevoli risultanze lusingano l’accredito pd l tratto successivo di dette fiere, mentre oltre la protezione di tutte franchigie, gli interessi in ogni ramo d’industria, e di commercio hanno licenziato in ogni incontro i commercianti con la loro piena soddisfazione, e si sono dimostrati convinti dell’obbligo per loro utile di rammentarsi delle indicate due ricorrenze profittevoli al particolare loro interesse”. E conclude: “Si tramanda ai posteri la presente notizia, perché sia conservato l’impegno per ingrandire, ed accreditare il privilegio, che adorna questa ‘antica comunità, ed onora ogni classe della Popolazione”. 73 ASCMR, Sindacati (1790-1801 con annotazioni fino al 1844), p. 79.
    Nel 1865 il Consiglio Comunale constatando che “per la situazione montuosa [del paese] riescono poco le due fiere, esistenti” accogliendo un progetto della Giunta, all’unanimità votava l’istituzione di una nuova fiera da tenersi “nella pianura di questo territorio o presso il Casino Salvati o presso la Chiesa di S. Apollinare […] nel giorno 30 Agosto di ogni anno”. 74 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1865-1866), 30 maggio 1865, pp. 31 e 55. L’Amministrazione Provinciale di Ancona, nonostante le eccezioni dei comuni di Belvedere Ostrense e di Montecarotto che temevano che la fiera di Monte Roberto dei 30 compromettesse quelle che si svolgevano nei loro paesi rispettivamente il 31 e il 29 agosto, approvava il 5 marzo 1866 l’istituzione della nuova fiera. La decisione era motivata dall’osservazione che le eccezioni erano “di poco o niun peso”, osservando però che soprattutto era necessario “applicarsi il principio della libera concorrenza, secondo il quale non devono porsi vincoli al commercio e agli scambi, i quali poi meglio si sviluppano e prosperano dove trovano maggiori interesse”. 75 Ibidem.
    La fiera ebbe luogo per quasi un secolo a S. Apollinare, tanto da essere chiamata “La fiera di S. Apollinare”, specializzandosi per la presenza e gli scambi di bovini; solo in tempi più recenti venendo a mancare la presenza determinante di questi ultimi, fu trasferita a Pianello dove tuttora si tiene sempre alla stessa data.
    Per iniziativa dell’Amministrazione Comunale furono istituite il 10 maggio 1925 altre fiere da tenersi a Pianello il 20 marzo, il 31 luglio e il 12 ottobre. La motivazione adotta era formulata in questi termini: “L’incremento dei traffici che si è costatato nella borgata di questo comune per la posizione centrale che essa occupa ai piedi dei colli vicini in una zona molto ubertosa, ha spinto questa Amministrazione a creare in quella località nuove occasioni di scambi commerciali che riescono di profitto ai negozianti del luogo e circonvicini e naturalmente al comune”. 76 ASCMR, Deliberazioni Consigliari (1925-1928), 10 maggio 1925, p. 23.
    Per il paese invece, dove “non essendovi alcun mercato”, fu creato dieci anni dopo, il 27 luglio 1935, un “mercato di verdura, frutta, uova, formaggi mercerie e chincaglierie” da tenersi ogni giovedì, 77 ASCMR, Deliberazioni Podestarili (1932-1935), n. 112, p. 176. dopo pochi anni però già non si tenne più.

  • 207 7.5 ATTIVITA’ ARTIGIANALI

    207 7.5 ATTIVITA’ ARTIGIANALI

    Se preponderante era l’occupazione della popolazione nell’agricoltura, non mancavano, anzi erano essenziali per la vita della comunità, le consuete attività artigianali come quelle dei calzolai, del sarto, del falegname, del fabbro.
    La tessitura delle stoffe per gli abiti o dei lini o delle canape per i corredi delle spose avveniva in casa, specie in campagna, dove il telaio rimaneva in funzione dall’autunno fin agli inizi di primavera quando minori erano gli impegni di lavoro nei campi e le donne potevano dedicarsi più lungamente alla tessitura.
    Nel 1809 unico fabbro di Monte Roberto è Natale Gabbianelli mentre Aldebrando Tesei è “fabbricatore di nitri” (salnitro o nitrato di potassio) usati per la polvere da sparo. 78 ASCMR, Registro delle Lettere (1808-1809), p. 192.Nella famiglia Gabbianelli il mestiere di fabbro si tramanda di padre in figlio troviamo così un Antonio Gabbianelli capo-fabbro nel 1884. 79 Camera di Commercio e Arti di Ancona Lista Generale degli Elettori commerciali della Provincia di Ancona (Biennio 1885-1886), Tip. Mengarelli, Ancona 1884. Al Tesei per esercitare era necessaria una “patente di salnitrajo” rilasciata dal Ministero delle Finanze, poteva così “raccogliere le materie nitrose nel Circondario” di sua competenza e farsi aiutare nella lavorazione magari da “commessi” che ugualmente dovevano essere noti alla pubblica autorità.
    Verso la metà del Settecento, solo per fare qualche esempio, in qualità di fabbri lavoravano a Monte Roberto Lorenzo Ballante e Bartolomeo Micciarelli; 80 ASCMR, Registro delli Bollettini (1711-1775), c. 133r (1755), c. 220r (1765) come falegnami Giuseppe Campanelli, Giovanni Campana, Angelo Campanelli 81 Ivi, c. 78r (1742), c. 88v (173r) (1760), c. 200r (1763). e Domenico Crudi che si adoperava anche come muratore. 82 Ivi, c. 132r(1755), c. 177r (1761)2 Ad essi si rivolgeva di preferenza il Comune per i lavori di rifacimento delle serrature, degli infissi o dell’arredamento degli immobili di proprietà pubblica (il macello, la scuola, il palazzo comunale, gli edifici usati dal medico o dal maestro di scuola ecc.).
    Più numerosi sembrano essere nello stesso periodo i muratori, oltre al già ricordato Domenico Crudi troviamo Stefano Silvestri aiutato nel lavoro dalla moglie e dal figlio, 83 Ivi, cc. 68r/v, 69r (1740), c. 79r (1743), c. 80r (1743), c. 102r (1748). Marco Boria aiutato nel lavoro da una sua figlia, 84 Ivi, c. 88v (1745), c. 94r (1746). Nicola Frondaroli, 85 Ivi, c. 72v (1741). Carlo Corsetti, 86 Ivi, c. 137v (1755). un non meglio identificato Giovanni muratore, 87 lvi, c. 76r (1742). mentre un certo Cecè rotava i mattoni. 88 Ivi, c. 79r (1743).
    Anche dell’opera di costoro si avvaleva il Comune per i lavori di muratura nei propri immobili, per la selciatura delle strade, mentre appalti più importanti erano presi, o almeno vi concorrevano, diremmo noi oggi, da imprese più consistenti come quelle di Francesco Lucarini che si aggiudicò l’asta per la costruzione della chiesa di S. Maria della Pietà nel 1762 e della casa colonica di proprietà comunale in contrada Catalano nel 1763 89 ASCMR, Libro de Trasatti della Comunità di Monte Roberto (1755-1777), cc. 37-38, 29 giugno 1763. o quelle di Andrea Montecucchi, Giacomo Pollo, Eleazaro Federici o di Giovanni Antonio Lacchè di Jesi o del milanese, ma residente in Jesi, Francesco Petrini.
    La manovalanza nei lavori edilizi, nel trasporto delle pietre per le strade o le case, dell’acqua o della calce era affidata in maniera prevalente alle donne che in confronto del lavoro fatto dalla manovalanza maschile, erano retribuite di meno.
    Nello stesso periodo era attiva, aperta sulla cinta muraria di Fosso Lungo (viale Matteotti), la bottega di un vasaio, appartenente ad Agostino Antonelli, che aveva una piccola “fornace da cuocere vasi”. 90 ASCMR, Consigli (1780-1793),c. 58r, 7 novembre 1784.
    Una fornace di non grandi dimensioni per cuocere mattoni fu costruita nel 1741 in un podere della Comunità goduto in enfiteusi dal marchese Angelo Ghislieri in contrada Catalano, durò soli pochi mesi, nel febbraio 1742 era già demolita. 91 ASCMR, Consigli (1735-1755), c. 80, 19 marzo 1741. Fu probabilmente una di quelle piccole fornaci che si costruivano in occasione della fabbrica di un edificio quando i mattoni non potevano essere acquistati altrove per la lontananza delle fornaci, si cuocevano allora sul posto o nelle immediate vicinanze del cantiere di lavoro.
     Un’altra fornace doveva esserci nei pressi del paese come ci lascia supporre il toponimo già ricordato Fornace o Lenze.
    Un’altra attività che risaliva addirittura al Medioevo era quella della raccolta della feccia, considerata “misera merce”. 92 ASCMR, Consigli (1756-1766), cc. 136-137, 17 agosto 1760. Il fecciaio ripuliva le botti e in rimunerazione del suo lavoro riceveva la feccia che provvedeva a seccare e bruciare, un’operazione questa che non poteva essere fatta nelle vicinanze dei centri abitati “per il fumo e il fetore che tramandano dette fecce bruciate”. 93 Un editto specifico su questa proibizione era stato emanato per Massaccio dal Governatore mons. Alessandro Macedonia il 16 settembre 1791; analogo editto che lo proibiva “nella vicinanza della Città e particolarmente delli Castelli” fu fatto dallo stesso Governatore il 4 luglio 1792. Le zone predisposte per tale “brugiatura” era per Massaccio l’attuale via Fontanella, nei pressi del Parco Elisa Amatori (cfr. A. Nocchi, R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVII, pp. 53-44), o la Pieve Sfasciata, attuale via Pieve, dove nel 1797 poteva “abbruciare le feccie” Antonio Cellottini (cfr. ASCC, Lettere del Governatore (1794 – 1797), lettera del 15 luglio 1797). Le fecce disseccate e il tartaro o taso o, più comunemente “ragia”, cioè il sedimento solido che fa il vino nelle botti, sottoposti al fuoco fornivano le cosiddette “ceneri clavellate”, usate come base per i colori, e la potassa, adoperata in alchimia e in farmacia.94 Rossi Luigi, Semi oleosi, radici e fecce di botte nelle manifatture picene dell’Ottocento, in Proposte e Ricerche, n. 28; n. 1/1992, p. 149. Nelle nostre zone le polveri delle fecce o della “ragia” venivano commercializzate prevalentemente a Senigallia o venivano usate anche “per farle mangiare alli Bestiami Bovini da ingrassarsi” 95 ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 146v, 17 agosto 1760. cosa abbastanza comune nelle nostre campagne fino a diversi decenni fa.
    Come già sappiamo, la bachicoltura si era sviluppata in tutta la valle dell’Esino e sui colli che la fiancheggiano nel corso del Sei-Settecento, i bozzoli venivano portati sulla “piazza” di Jesi e probabilmente anche in Massaccio dove negli ultimi decenni del secolo si era incrementata “l’Arte di cavar filo da bozzoli da seta”. 96 A.Nocchi – R. Ceccarelli, Editti e Bandi del sec. XVIII, pp. 33-34. I bozzoli prima di essere lavorati venivano “cotti” o “scottati” per uccidere la crisalide nel bozzolo stesso, quest’operazione poteva avvenire nelle filande, in apposite botteghe artigiane o direttamente in casa. A Monte Roberto nel 1809, ci si era attrezzati per questa “cottura di bozzoli” che successivamente erano portati nelle filande di Jesi o di Massaccio, il carbone necessario proveniva da Massaccio, Apiro e Frontale. 97 ASMR, Registro delle lettere (1808-1809), p. 194.
    Era questo un lavoro “stagionale” che occupava solo qualche settimana nei mesi di maggio-giugno non molte persone che per gli altri periodi dell’anno dovevano trovarsi un altro lavoro, magari come braccianti agricoli.
    Le situazioni di precarietà nel lavoro e di vera povertà per una gran parte della popolazione erano endemiche e non facili da superarsi, molti i poveri che di casa in casa chiedevano solo un pezzo di pane. Queste situazioni erano aggravate inoltre dalle periodiche scorrerie di uomini armati nelle campagne che si facevano consegnare il grano, come accadde nel 1764.
    Il fatto, oltre ad allarmare la gente, allarmò il Consiglio della Comunità che decide di rifare la porta pubblica del castello, di aggiustare le mura che lasciavano passare gli estranei, di mettere un custode di guardia nel magazzino dell’Abbondanza situato nel pubblico palazzo “appiè della scala de Palazzo, detta la Stufa Vecchia”. Il Consiglio le riteneva “misure non superflue in queste calamitose circostanze” 98 ASCMR, Consigli (1756-1766), c. 264r/v. Il fatto probabilmente non era nuovo e a Monte Roberto in molti avranno certamente ricordato quanto era avvenuto in Massaccio negli ultimi giorni di giugno 1757 quando una “Truppa di Contrabbandieri e Malviventi” con armi in mano erano entrati in paese mettendo in fuga la gente presente ad una fiera. 99 ASCC, Lettere del Governatore (1756-1759), lettera del Governatore mons. G. Battista Baldassini del 3 luglio 1757. La stessa venuta e presenza degli zingari poi era di turbativa; i responsabili della pubblica amministrazione potevano, se si presentavano nel loro rispettivo territorio, “far suonare le campane all’armi, farli inseguire, o arrestare”, secondo le disposizioni vigenti. 100 Ivi, lettera del Luogotenente Morselli dell’8 giugno 1755.
    Malviventi, facinorosi, zingari, anche se erano espressioni, agli occhi dei più e dei benestanti, di delinquenza comune, facevano parte di quella larga fascia di povertà diffusa con radici antiche e che non di rado si esprimeva in manifestazioni di forte esasperazione.

  • 210 7.6 LA TASSA DEL MACINATO

    210 7.6 LA TASSA DEL MACINATO

    Quando il 1° gennaio 1869 andò in vigore l’imposta sulla macinazione del grano e dei cereali, in genere facendo scoppiare nei mesi successivi gravi tumulti e creando non poche difficoltà ai governi fino al 1880 quando essa venne definitivamente soppressa, non fu certo una novità.
    Era una tassa antica di secoli, l’avevano messa allora i Pontefici nello Stato Ecclesiastico ed ora i nuovi governanti del Regno d’Italia con lo scopo di assicurare alle casse dello stato un reddito facile ed immediato, evidentemente essendo la tassa a larga base e colpendo il macinato dei ricchi e dei poveri, i più penalizzati ovviamente erano quest’ultimi. Da sempre: con il governo pontificio, con quello francese, quello pontificio di nuovo o con quello unitario.
    Sisto V con un documento dell’8 luglio 1589 aveva stabilito che tutti gli abitanti del contado dovessero macinare nei molini della Comunità di Jesi: solo in caso di necessità si poteva accedere ad altri molini, la tassa della molitura comunque doveva andare alla Comunità di Jesi. La prescrizione di Sisto V riprendeva quella di Sisto IV del 1483 che pur rifacendosi agli statuti più antichi di Jesi non appare nella loro edizione a stampa dei 1516 e del 1561. 101 Niccoli M. Paola, Legislazione molinatoria a Jesi in età moderna, in Nelle Marche Centrali, vol. I, pp. 716-718. Uriel i C., Jesi e il suo Contado, vol. IV, pp. 297-298.
    La popolazione di Monte Roberto si recava al Molino della Torre 101bis ASCC,Editti e Bandi (1585-1699), intimazione del Governatore Mons. Andrea Bentivoglio del 5 novembre 1664. o Molino delle Torrette che apparteneva, insieme a quello di Rosora, a Jesi, o non funzionando questo, al Molino Franciolini al di là del fiume che però era privato, oppure al Molino della Cesoia in territorio di Massaccio sotto Villa Ghislieri. Recarsi in questi molini, pur pagando la tassa dovuta alla Comunità di Jesi, era molto scomodo, così la Comunità di Monte Roberto tra il Sei-Settecento, come abbiamo visto, parlando del torrente Fossato, tenta di fare un molino, ma anche questo progetto trova l’opposizione di Jesi.
    Macinare il grano e altri cereali era uno dei problemi più sentiti da tutti: la popolazione di Massaccio, ad esempio, lontana dai molini della Comunità di Jesi si recava presso i molini lungo l’Esinante e quando questi non erano in attività per mancanza d’acqua, ci si portava al Molino di Bruscara ubicato nei pressi di S. Elena in territorio di Serra S. Quirico. Sia la gente di Monte Roberto come quella di Massaccio era consapevole di agire contro le disposizioni pontificie, costretta dalla necessità di macinare e dalla difficoltà di lunghi percorsi su strade poco praticabili. Motivazioni queste, addotte, nella seconda metà del Settecento, da Massaccio in un ricorso a Roma presso la Congregazione del Buon Governo nei confronti del documento di Sisto V chiedendo “d’andare a macinare dove ciascuno pare e piace”. La richiesta era avvalorata poi dalle risoluzioni della stessa Congregazione che aveva concesso nel 1629 e nel 1644 alla Comunità di S. Maria Nuova, aggregata a Jesi, “la libertà di poter macinare dove si vuole”. 102 ASCC, Miscellanea (1761-1770), vol. H, ricorso a Roma per macinare dove si vuole. Clemente XIV poco dopo con un breve del 1770 annulla la disposizione di Sisto V, così i cittadini e gli abitanti dei castelli possono recarsi a macinare dove vogliono. 103 Niccoli M. Paola, op. cit., p. 719.
    Decaduta la privativa della molitura non erano state annullate però le tasse e le “gabelle” sul grano, sul pane o sul macinato che si erano andate accumulando negli anni. 104 Urieli C., op. cit., pp. 298-299. E se un problema era pagare, problema di non poco conto qualche volta era anche dove e come pagare. Per la tassa del “Paolo del macinato”, ad esempio, venne previsto nel 1641 che essa si dovesse pagare a Jesi: il Consiglio della Comunità di Monte Roberto osservando il “gran strapazzo di andare a far bollette a Jesi, atteso che da tanto tempo in quà non ci sia nessuno andato a Jesi a far bollette”, conclude che “non si à il dovere che si vadi hoggi”. 105 ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 36r, 3 febbraio 1642. Comunque dopo qualche mancato incontro tra i delegati del Governatore, l’appaltatore della gabella e le autorità di Monte Roberto, si ottenne di fare le bollette in paese affidate a due delegati che “debbono fare lo spartimento et haver riguardo che chi più macina più paghi con haver riguardo sopra il tutto alla povertà”. 106 Ivi, c. 73r, 24 febbraio 1642 Non si riesce tuttavia a trovare un esattore o un appaltatore per questa nuova tassa, il Governatore informato di ciò ordina che chi già raccoglie le altre gabelle lo faccia anche per questa.107 Ivi, c. 39r, 6 aprile 1642.
    Le tasse non venivano soltanto e sempre aumentate, qualche volta venivano anche diminuite o qualcuna addirittura soppressa. È il caso della “gabella dei due giulij” per rubbio di grano e minuti che viene macinato, che papa Clemente IX appena eletto il 20 giugno 1667 riduce ad uno. Sei mesi dopo, alla vigilia di Natale, il papa, “nella solita applicatione al sollievo de suoi sudditi”, desiderando togliere anche l’altro giulio sul macinato e non potendolo fare per ragioni di bilancio, decide “di sgravare almeno li minuti come quelli che sono usati solamente dalla gente più povera”. 108 ASCC, Editti e Bandi (1585-1699), editto del Tesoriere Generale della Camera Apostolica Buonaccorso Buonaccorsi del 23 dicembre 1667. Un “giulio” equivaleva ad un “paolo”, cioè a 10 baiocchi. Ancora dunque un giulio sul grano macinato, mentre viene soppresso quello sui minuti cioè sulle granaglie (miglio, panico, ecc.) usate dalle categorie più povere per fare il pane.
    Il problema del pagamento della gabella o dazio del macinato si ripropose nel 1809. Un “avviso” dell’Intendente di Ancona del 1° gennaio 1809 prevedeva che “col primo del prossimo luglio i dazi di consumo si esigeranno secondo il nuovo piano; in conseguenza quelli che porteranno formento a macinare, Macellari, gli Osti, Locandieri, Bettolieri, e Venditori di vino al minuto, dovranno presentare il genere e pagare il dazio nelle mani del Ricevitore del Circondario”.
    Capoluogo del 6° Circondario del Dipartimento del Metauro era Massaccio che comprendeva Monte Roberto con Castelbellino e S. Paolo, Maiolati con Scisciano e Poggio Cupro, Monsano con S. Maria di Monsano. 109 ASCC., Decreti e Votificazioni (1808-1809), vol. 11, 331. Di fronte a questa prescrizione il sindaco di Monte Roberto raccoglie il malcontento popolare e scrive all’Intendente Gabrielli osservando come la povera gente prima di macinare il grano debba recarsi al Massaccio per pesare il grano, pagare il dazio, ritirare la bolletta e recarsi infine al molino. Molti, scrive, “vanno al molino con il formento portato sulle loro spalle o in testa; anche dopo che questa povera gente si lambicca il cervello per trovare il denaro e fare acquisto del genere e pagar dazio, è intollerante, che abbiano a soffrire inutilmente anche il peso di tragittare tutto il giorno per macinare alle volte anche un quintale, o mezzo quintale di grano”. Aggiungeva il sindaco che anche il governo pontificio nel 1802 di fronte ad un provvedimento dell’anno prima “fu costretto di sospender, ed abbandonare un tal piano in faccia ai reclami infiniti di questi popoli” in considerazione “che i paesi sono collocati per lo più in colline montuose, ed i molini all’opposto vicino ai fiumi o torrenti […] sebbene il peso doveva eseguirsi, ed era fissato in ogni paese” 110 ASCMR, Registro di Lettere (1808-1809) n. 187, del 14 giugno 1809, pp. 196-198
    Protestava il sindaco di Monte Roberto, aveva protestato qualche giorno prima il Sindaco di Maiolati che otteneva il permesso “a- sollevare quella popolazione […] di doversi trasferire al Massaccio” Con il frumento e pagare il dazio e di poter fare invece queste operazioni a Maiolati. 111 Ibidem, n. 202 de125 giugno 1809, pp. 205-206.
    Il problema comunque veniva risolto il 27 giugno 1809 con un “Avviso” dello stesso Intendente che oltre a moltiplicare i Ricevitori, proprio per le lunghe distanze, prevedeva che la “denuncia venisse sostituita all’obbligo della presentazione del genere”. Il Prefetto Casati il 22 luglio 1809 in un “Proclama” a tutti gli abitanti del Dipartimento, sottolineando questa e altre novità, scriveva: “Se non ostanti le premesse facilitazioni, e concessioni trovasi ancor suscettibile il piano di qualche modificazione si parli con confidenza alle Autorità locali, si porgano suggerimenti ammissibili, e verranno ascoltati”. 112 ASCC, Decreti e Notificazioni (1808-1809),vol. II, p. 363. Il sindaco di Monte Roberto e quello di Maiolati avevano operato in questo senso ed erano stati ascoltati.
    Nel 1816 con il Motu Proprio di Pio VII del 6 luglio (art 199) si sopprime nelle Marche e nel Ducato di Camerino il dazio del macinato già in vigore nel restante Stato Pontificio: la disposizione è resa operativa con notificazione del 5 agosto 1816 da parte del tesoriere Generale. 113 ASCC, Editti Bandi e Decreti (1815-1818), p. 194. Dopo gli avvenimenti insurrezionali del 1831, il dazio del macinato viene ripristinato a cominciare dal 1° gennaio 1833 nella stessa misura di prima. 114 Notificazione del Card. Bemetti, Segretario di Stato, del 24 dicembre 1832 in Raccolta delle leggi e di pubblica amministrazione nello Stato Pontificiò, Roma 1834, vol. III, p. 163.

  • 213 7.7 LA FILANDA E I MOLINI DA OLIO

    213 7.7 LA FILANDA E I MOLINI DA OLIO

    La tassa del macinato non era l’unica, c’era una tassa o “gabella” su ogni merce che veniva commercializzata. Prescriveva un bando del Governatore mons. Giuseppe Ciurani del 4 giugno 1659: “[…] ogni sorte di marcantia di qual si sia sorte, che entrerà nella Città debba prima condursi in Doana del Magazzino à descriverla nel libro della Doana, col suo numero, peso e misura e pagare la dovuta gabella Doana”. 115 ASCC, Editti e Bandi (1585-1699).
    Queste gabelle si pagavano sempre, “eccettuate le fiere”, quando per. incentivare il commercio e gli scambi le tasse venivano sospese. I “pesciaroli” prima di vendere dovevano pagare “un giulio per soma”, ordinava il Governatore Ciurani ed anche chi vendeva o comprava “Lana, e Bozzi da cavar seta [… doveva] pagare la gabella di doi quattrini à libra di Lana, e Bozzi, da pagarsi dal Compratore in mano [al…] Deputato”.
    Le disposizioni riguardavano i commercianti di lana e bozzoli “tanto della Città, come ne Castelli, e nostra Giurisditione”, evidentemente la bachicoltura si era sviluppata in tutta la valle dell’Esino già da qualche decennio ed i Governatori avevano provveduto non tanto a regolamentarla quanto a tassarne la produzione di bozzoli. L’annuale “trasatto della foglia de’ Mori” tra il- Sei-Settecento e la cottura dei bozzoli rivelano quanto sia stata importante anche questa attività agricola stagionale nell’economia di Monte Roberto. Un ruolo che si accrebbe nei primi decenni dell’Ottocento quando troviamo in paese e in attività una filanda da seta, 116 ASCMR, Consigli (1829-1839), p. 86, la filanda e già esistente nel 1830. ubicata nell’immobile, Palazzo Casati tra l’Otto e il Novecento e poi – rinnovato – Palazzo Comunale, nella parte che dà sull’attuale piazza Serafino Salvati. Il luogo e la parte del palazzo sono ancora chiamati dalla gente “a’ filandra”. Una piccola azienda, diremmo oggi, che assorbiva parte della produzione locale di bozzoli; più importanti, come già accennato, le “piazze” e gli impianti di lavorazione di Jesi e di Massaccio che in prosieguo di tempo dovettero mettere in crisi fino alla chiusura, la non grande filanda di Monte Roberto.
    Secolare come la viticoltura, la coltivazione dell’olivo trovò negli statuti di Jesi una particolare protezione. Si prescrive infatti che ogni abitante del contado (“quilibet civis seu comitativus Esij”) proprietario di terreni con un certo reddito era tenuto a piantare ogni anno un congruo numero di olivi e a coltivarli per farli fruttificare in maniera conveniente (“ut fructum faciant congrue”). Per chi non avesse ottemperato erano previste salate pene pecuniarie. 117 Statuta Sive Sanctiones et Ordinamenta Aesinae Civitatis, Macerata, Luca Bini 1561, liber secundus, rub. LXVII, c. 34r.
    Gli stessi statuti tutelavano poi con normative specifiche le stesse piante di olivo, mentre altre riguardavano in genere sia piante da frutto che piante d’alto fusto 118 Ivi, liber quintus, rub. XV, c. 86v.. Per la lavorazione delle olive, i molini da olio, a differenza di quelli da grano che nella nostra zona, erano ubicati lungo i torrenti ed il fiume sfruttando l’energia dell’acqua, si trovano anche in collina negli agglomerati urbani o presso case nei cui terreni limitrofi abbondavano piantagioni di olivi. Le mole erano mosse da asini, muli, cavalli o bestie bovine.
    Dei molini che dovevano esserci in territorio di Monte Roberto non ci rimangono molte notizie: nel 1809 un molino da olio c’era nei pressi del paese, in contrada Ciampana, in un piccolo podere appartenente al Regio Demanio, già dei padri Agostiniani di Jesi 119 ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), n. 161, 23 maggio p. 187..Un altro molino da olio viene registrato nel 1914 di proprietà di Elisa Crescentini in Amatori domiciliata a Cupramontana. 120 ASCC, Atti 1914, VIII, art. 8: lista parziale degli elettori commerciali. Acquistato agli inizi degli anni Trenta da Giuseppe David fu rilevato nel 1963 dai F.lli Annibaldi e tenuto in attività fino al 1984-85. Era ubicato in via XXIV Maggio.
    Nelle campagne di Monte Roberto e anche di Castelbellino ancora resistono al tempo non pochi vetusti olivi che testimoniano l’antica e chiara vocazione di questi territori verso una coltivazione particolarmente preferita 121 Ceccarelli Riccardo, Castelli dell’olio sulla destra dell’Esino, Ancona 2005, pp. 37-41.

  • 214 7.8 LE OPERE A FUOCO

    214 7.8 LE OPERE A FUOCO

    Per le piccole comunità avere una rete stradale percorribile in ogni stagione era un onere fortemente gravoso. Si trattava di tenere in buono stato sia le strade più importanti che collegavano il paese con quelli limitrofi e la città ne risultavano così avvantaggiati i commerci e le comunicazioni in genere, sia quelle all’interno del territorio tra le diverse contrade. Per le prime si impegnavano nei lavori più consistenti (ponti, selciatura, ecc.) le risorse del bilancio, per le altre, quelle di interesse comunale o vicinale e per i lavori di manutenzione si erano trovate modalità di responsabilizzare e coinvolgere gli utenti stessi e l’intera popolazione del territorio comunale, senza gravare finanziariamente sulle casse della Comunità.
    Un sistema questo consolidatosi nel tempo a Monte Roberto e in tutti gli altri paesi, una prassi antica diventata consuetudine e come tale recepita anche dalle leggi dello Stato. Questi lavori di riassetto stradale erano più frequenti di oggi, bastava un forte temporale per renderle intransitabili e specie nella stagione invernale, frequente è il lamento sul cattivo stato delle strade che impedisce le comunicazioni, ritardano affari o pratiche amministrative. Per il ripristino delle strade comunali o vicinali il Consiglio della Comunità incaricava un “deputato” che aveva sufficienti poteri di intervento e ne rispondeva direttamente al Consiglio stesso.
    Per “accomodare la strada al di là del fiume” [sulla sponda sinistra, vicino alla fonte della Spina, la strada che conduceva a Jesi], “un deputato, decide il Consiglio della Comunità il 28 aprile 1641, habbia autorità di comandare a persone secondo il solito con bestie per accomodare detta strada” 122 ASCMR, Consigli (1639-1651), c. 24r. senza spesa per il comune.
    I proprietari dei terreni erano obbligati a concorrere attraverso i loro coloni al riassetto delle strade; esenti erano i proprietari ecclesiastici (singoli o 16 Congregazioni Religiose) che tuttavia di volta in volta venivano anch’essi coinvolti: le facoltà necessarie erano concesse dal Cardinale Camerlengo, comunicate al Governatore che a sua volta delegava i “deputati […ad] astringere i coloni ancora dei proprietari ecclesiastici e concorrere con i loro carri al […] riassetto di codeste pubbliche strade. 123 ASCC, Lettere del Governatore (1758-1764), lettera del Governatore Mons. G. B. Baldassini, 28 giugno 1758.
    Erano prestazioni di lavoro obbligatorie fornite alla Comunità, le cosiddette “opere a fuoco”, giornate di lavoro cioè in qualità di operai (“opere”) da ogni famiglia (“fuoco”) a beneficio di tutta la collettività, quale poteva essere la percorribilità delle strade.
    Nel 1808 il sindaco di Monte Roberto scriveva al Vice-Prefetto del Distretto di Jesi: “In questo comune non esistono appalti di opere stradali poiché tutte le strade di questo territorio sonosi fin ad ora ristaurate con le opere di fuoco”, con il lavoro cioè dei coloni e la partecipazione degli altri coloni “che ritengono Bestie aratorie con la somministrazione di una giornata per ciascun paio di esse bestie da carro”. 124 ASCMR, Registro di lettere (1808-1809), n. 195, 3 ottobre 1808, p. 74.
    Pio VII con il Motu Proprio del 23 ottobre 1817 recante “Disposizioni dei lavori pubblici di acque e strade”, all’art. 128, riconosceva queste consuetudini locali: “Le strade comunali interne dei luoghi abitati saranno conservate, mantenute, e riattate con i medesimi metodi, e mezzi, che si praticano al presente”. 125 Ibidem, n. 202 de125 giugno 1809, pp. 205-206.
    Anche per “il mantenimento dell’unica strada principale […] che conduce a Jesi”, si parla nel 1820 “dell’antica inveterata costumanza [consistente nell’] opera gratuita di una giornata da portarsi annualmente da ogni contadino di questo territorio, veruno escluso, col carro per ogni paio di bestie bovine e vaccine da tiro, e con l’opera manuale gratuita pure di un giorno da ogni individua di qualunque famiglia non avente dette bestie da tiro dagli anni quattordici ai sessanta compiuti”. Ai contadini che venivano con i carri “sarà accordata la gratificazione di baj .[occhi] sei per ciascuno, e di baj .[occhi] quattro ai manuali a peso (cioè a carico) della Cassa Comunale secondo il solito. I renitenti con carro soggiaceranno alla multa di baj [occhi] sessanta per ciascuno se chiamati non interverranno, ed i manuali disobbedienti all’alternativa di baj [occhi] quindici da erogarsi per i miglioramenti di detta strada e da esigersi con i privilegi fiscali dell’esattore communitativo. Sarà poi libero ciascuno di farsi rappresentare da altro idoneo soggetto con l’esibita del ricevuto solito biglietto al sorvegliante l’esecuzione dei lavori”. 126 ASCMR, Consigli (1809-1827), p. 175,11 giugno 1820.
    Si continuò così anche nei decenni successivi, probabilmente non però con la regolarità necessaria ed il relativo utile per il bilancio del Comune, se nel 1852 “per render meno gravoso all’azienda Comunale il mantenimento delle strade, e poter con più facilità pensare al riattamento delle vie secondarie, molte delle quali vengono trascurate per assoluta mancanza di mezzi, sebbene si veggano rovinate e guaste, non ché intransitabili nella stagione invernale”, si decide di “istituire in questo Comune le opere così dette a fuoco, delle quali si servon quasi tutte le altre comuni della Provincia per i lavori pubblici”. Oltre all’istituzione, o meglio alla riedizione ufficiale, delle opere a fuoco, si provvide a fissare una “tenue gratificazione a coloro che concorrono con le braccia”, cinque baiocchi al giorno, dato che un “piccolo compenso” già veniva dato a quanti fornivano carri e buoi per il trasporto della breccia. Si ritenne necessario inoltre redigere un Regolamento apposito per le opere a fuoco demandandone la stesura alla “Deputazione Viale”. 127 ASCMR, Consigli (1850-1859), pp. 125-126, 3 ottobre 1852.
    Trascorsero- sette anni prima che il Regolamento venisse portato all’approvazione del Consiglio Comunale nel 1859, 128 Ivi, 12 aprile 1859 . le normative furono sostanzialmente quelle stabilite dalla tradizione ed esplicitate nel 1820 l’aggiunta del compenso quasi soltanto simbolico da parte del Comune, l’obbligo era per tutti i maschi dai 14 ai 60 anni; si elencavano gli esenti (ecclesiastici, il Priore, gli Anziani, i Consiglieri e gli Impiegati Comunali, gli invalidi) stabiliva l’orario di lavoro (dal sorgere al tramonto del sole), si regolamentavano le eventuali sostituzioni.
    L’istituzione delle opere a fuoco continuerà per molti decenni ancora, al primo dopoguerra (1946-1950), evolvendosi sia nel nome, “giornate a fuoco “giornate obbligatorie”, e nelle nuove normative riguardanti le strade vicinali e consorziali.